In un editoriale pubblicato in settimana su “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio rifletteva sulle reazioni alla vincita dell’Oscar del film “La grande bellezza”. In particolare, ci si soffermava su quei commenti in cui si metteva orgogliosamente in risalto la bellezza dell’Italia che con l’attribuzione del premio sarebbe stata finalmente consacrata a livello internazionale.
Proprio su questa rubrica, un anno fa avevamo notato che i personaggi tratteggiati nel film facevano pensare ad un triste catalogo dell’umano, devastato dalla perdita della propria anima. Le passeggiate notturne del protagonista, Jep Gambardella, introducevano una discontinuità rispetto ad una serie di affreschi umani di figure sperdute in una mediocrità placida. “La grande bellezza” come un nuovo bestiario contemporaneo.
Ricordando i principali commenti apparsi sui giornali subito dopo l’attribuzione del premio al film di Sorrentino, Travaglio notava come probabilmente molti commentatori si fossero fermati soltanto al titolo del film. Può essere, in effetti, anche perché non è così desueto che si parli di ciò che si conosce poco.
È anche vero, tuttavia, che il cinema è forse il mezzo espressivo che più di altri permette il “contagio delle idee”. Nell’esperienza filmica, infatti, è come se lo spettatore entrasse così intimamente in contatto con ciò che è visto da non riuscire a contenerne il senso, che dunque diventa debordante, bisognoso in modo incontenibile di essere comunicato agli altri.
Ovviamente ci sono diversi livelli di lettura di un film.
Un primo livello prevede la restituzione del significato di ciò che è stato visto non mediante l’analisi di particolari sequenze, ma piuttosto mediante uno sguardo d’insieme del testo filmico; un secondo livello fa dipendere l’interpretazione dalla cifra stilistica del regista; infine, un terzo livello muove dal riconoscimento della presenza all’interno del film di particolari elementi specifici (inquadrature, scene, ecc.) che significano di per se stessi. Si tratta di vere e proprie centrali di generazione del senso, che non necessariamente vanno ascritte alle intenzioni degli autori.
Il testo filmico è così in grado di significare in modi molteplici, secondo paradigmi differenti. Questo, ovviamente, non significa che tutte le interpretazioni siano equivalenti, né che sia consentita la violenza ermeneutica. Il ricorso a ragioni probanti è, dunque, sempre vincolante.
All’interno di un tale quadro possibilista riguardo l’eventualità per ognuno di cogliere un aspetto veritiero del significato di un film, mi sento tuttavia di mutuare la conclusione dell’editoriale di Travaglio, secondo cui scambiare “La Grande Bellezza” per “un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana”.
Giovanni Scarafile
[Pubblicato nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia del 9 Marzo 2014].
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