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Insignificanza e politica

In politica on 28 March 2014 at 4:14 PM

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Dialogo con Carlo Salvemini

 

YM.  Nel 1950, Giorgio La Pira, indimenticato Sindaco di Firenze ed esponente di spicco del Cattolicesimo democratico, indicava nell’«attesa della povera gente» un riferimento irrinunciabile per l’azione politica. Nelle sue parole, l’obiettivo dichiarato del «pieno impiego» non era da intendersi in termini meramente economici, ma nel senso del diritto di ciascuno al dispiegamento delle proprie capacità. Si trattava di un fine per così dire “alto”. Quali strade dovrebbe intraprendere la politica per recuperare una tale nobile destinazione?

Carlo Salvemini. La politica assolve alla propria funzione quando ricorda di essere un servizio, utile agli altri e non a chi la pratica, un mezzo necessario a raggiungere obiettivi utili alla comunità.  Quando viene interpretata come mero fine tradisce se stessa.  Recuperando il senso autentico della propria funzione essa diventa inevitabilmente un riferimento “per la povera gente” che solo in questo modo può tornare a percepire la politica come utile a realizzare le proprie aspettative, bisogni, necessità.

YM. «Dire, infatti, “città d’uomo a misura d’uomo” è subito porre l’uomo al suo posto e si può su di esso fissare l’attenzione come su colui dal quale la città prende vita e verso il quale la città è volta come a proprio fine». Sono ancora attuali queste parole di Giuseppe Lazzati a proposito del compito della politica?

CS. La città a misura d’uomo è quello spazio pubblico nella quale si costruisce senso di comunità: ossia condivisione di un destino, appartenenza ai luoghi, relazioni fiduciarie tra cittadini e tra questi e le istituzioni, consapevolezza dei propri diritti e doveri. Questo dovrebbe essere il rovello degli amministratori pubblici impegnati nel governo dei propri territori. Migliorare il benessere di chi abita e vive i luoghi. Solo ponendo il cittadino al centro dell’azione politico amministrativa si raggiunge l’obiettivo “di una città a misura d’uomo”. Per quanto possa apparire retorico e scontato, così oggi purtroppo non è: perché altre e improprie sono spesso le preoccupazioni di chi gestisce la res pubblica: l’affermazione di sé, il privilegio per i propri clientes, la massimizzazione del simbolico che produce consenso ma non determina benefici diffusi.

YM. Il politico incontra di fronte a sé due esigenze in apparenza contrastanti. Da un lato, i problemi che ha di fronte sono molto spesso complessi e stratificati e richiedono competenze specifiche. Dall’altro lato, l’uomo prestato alla politica deve poter comunicare, usando un linguaggio non iniziatico. Questa frattura tra specialismo e linguaggio del politico è reale o apparente? Se è reale, come può essere superata?

C’è una battuta molto efficace di Tony Blair sul rapporto tra leadership, consenso, preparazione. “Quando si viene eletti si è al massimo della popolarità e al minimo della preparazione. Quando si giunge alla fine del proprio mandato si è al massimo della conoscenza e al minimo dei consensi”. Questo ci spiega come cambia il linguaggio della comunicazione pubblica durante la campagna elettorale e quando si è al governo: diretto, spregiudicato, retorico nei comizi o nei talk. Riflessivo, problematico, contestualizzato  nel mandato istituzionale. È credibile chi riesce a minimizzare queste differenze, promettendo solo ciò che può mantenere e mantenendo ciò che ha promesso.

YM. Oggi il politico è chiamato a fornire in tempi rapidi risposte competenti ai problemi che incontra. Se da un lato la ricerca della efficacia dell’azione politica presuppone un legittimo uso del potere, come evitare che questo esercizio non si traduca in abuso? Esiste una virtù che il politico deve incarnare?

CS. La vera virtù che penso si debba coltivare è quella legata al senso del limite: non ritenere la politica onnipotente, ricordare sempre il rispetto delle norme che sono poste a tutela dell’interesse collettivo e non ad intralcio dell’azione di governo come magari qualcuno è portato a credere.

YM. Vi è nella azione politica, specie nell’amministrazione degli Enti Locali, una forte divaricazione: per un verso bisogna fare delle scelte che possano avere un respiro lungo, per altro verso, soprattutto oggi, si vuole che ogni scelta abbia delle ricadute immediatamente percepibili. Come si riesce a bilanciare questi due orizzonti evitando gli eccessi opposti?

CS. Mettendo al centro, come dicevamo prima, il miglioramento della qualità delle vita della propria comunità. Che non è un evento, uno spot ma un processo che richiede pazienza, tenacia, fiducia. Ancora oggi, nonostante ormai siano passati vent’anni dall’elezione diretta dei Sindaci e il bilancio delle esperienza sia ricco e articolato, c’è chi in campagna elettorale si lancia nel “programma dei cento giorni”. Una colossale stupidaggine che serve solo ad alimentare la retorica del discorso pubblico, l’attesa salvifica dell’uomo forte, la promozione di un decisionismo decontestualizzato. Serve sapere cosa farai nei successivi  1700, fino alla scadenza del tuo mandato consapevole che per raggiungere tutti gli obiettivi indicati dovrai scommettere sulla tua rielezione. Oggi più che mai dovrebbe tenersi a mente il monito di De Gasperi che invitava a sapere distinguere tra chi si preoccupa delle prossime elezioni e chi invece delle future generazione.

YM. In più circostanze vediamo che il dissenso cresce spesso su tematiche di carattere ambientale. In alcuni casi, si ha la sensazione che vi siano scelte poco oculate e scarsamente condivise. In altri casi, invece, si percepisce che nonostante discussioni durate decenni vi sia sempre chi nell’ultimo miglio aizza il dissenso, cercando di cavalcarne l’onda crescente. In che misura il politico deve prestare l’orecchio al dissenso e quando, invece, deve fare delle scelte che possano anche risultare impopolari?

CS. Il dissenso è prezioso quando motivato, argomentato e non emotivo o pregiudiziale. Chi governa deve sapere distinguere tra l’uno e l’altro. Accomunarli mostrando insofferenza per entrambi riduce ogni pensiero diverso come un intralcio, impoverendo la qualità del discorso pubblico. Avendo la consapevolezza che qualunque scelta, anche la più meditata, sconta sempre una resistenza presso la cittadinanza.

YM. Alcide de Gasperi, un pater patriae che ebbe un ruolo fondamentale nella rinascita dell’Italia ferita e umiliata dalla Seconda Guerra Mondiale, intendeva la politica come un servizio da rendere al Paese, indipendente dall’appartenenza partitica. Quell’insegnamento è evidentemente caduto nell’oblio se la politica è diventata uno strumento per raggiungere scopi personali, in contraddizione con la stessa radice etimologica della parola. Quali strumenti Lei ritiene necessari per restituire all’agire politico la sua naturale inclinazione alla cura della res publica?

CS. C’è solo la coscienza individuale, la cultura politica, la sensibilità istituzionale che può fare da anticorpo al virus dell’opportunismo, del calcolo, della convenienza. Un tempo erano virtù che venivano coltivate in un lungo apprendistato politico dentro i partiti, che con tutti i limiti, esprimevano comunque capacità di selezione di una classe dirigente nutrita di alcuni valori comuni. Oggi questa funzione s’è fortemente ridimensionata: l’unico vera discriminante è quelle del consenso. Vali per i voti che esprimi più di quello che pensi.

8.  Il riferimento alla “questione meridionale” è divenuto anacronistico sia in letteratura che in politica. Eppure i dati sulla distribuzione della povertà e della disoccupazione, soprattutto giovanile, confermano l’esistenza di un divario economico e sociale tangibile. In quali termini può essere re-impostato il dibattito sulle differenze tra Nord e Sud, anche alla luce dei principi di responsabilità e territorialità introdotti dalla riforma sul federalismo fiscale?

CS. La questione meridionale è una questione nazionale. Ieri come oggi. Solo considerandola tale e non mero problema di chi vive al Sud essa può cessare di essere un problema. Ma dopo cinquant’anni di politiche ad hoc il rischio di essere banali è concretissimo. Hanno sbattuto la testa fior di economisti, statisti, funzionari della Stato. Pensare di avere la soluzione in tasta sarebbe semplicemente presuntuoso.

YM. La dottrina più illuminata, per esempio le ricerche condotte dal Centro di Studi Einaudi, ha rilevato da tempo la necessità di una trasformazione del Welfare che non mortifichi la domanda (sempre più complessa a causa dei cambiamenti demografici e sociali) ma trasformi l’offerta, attivando il principio di sussidiarietà non solo orizzontale ma circolare. È evidente che questa prospettiva risente di una visione antropologica “ottimista”, che considera l’uomo capace anche di spinte altruistiche e non solo autointeressate. Ritiene che la politica debba assecondare questa prospettiva o adeguarsi ai precetti della razionalità classica, secondo la quale l’homo oeconomicus è necessariamente un bad man?

CS. Nel continente che ha inventato il Welfare State oggi “I diritti dei deboli sono diritti deboli”. Oggi sempre di più la questione sociale è la prima vera emergenza politica per effetto di politiche fortemente restrittive sul versante della protezione a chi ha meno. Crescono i bisogni e diminuiscono drammaticamente le risorse. Aumentano le periferie. Non più intese come aree urbane lontane dal centro ma come aree di nuovi bisogni cui dare risposte: emarginazione, solitudine, povertà, disagio, lavoro, alloggio, sicurezza. Serve un cambio di prospettiva. Urge una nuova consapevolezza. Per riuscire ad organizzare un welfare  di andare oltre la nicchia meramente assistenziale. È un compito difficile ma ineludibile che sollecita un nuovo modello di governo delle politiche sociali.  Perchè “l’attenzione per le grandi cose  deve passare per la sollecitudine verso le situazioni disperate delle quali non ci accorgiamo più”. Chi intende proporre un cambiamento deve avere consapevolezza che si parte da qui: dall’affermazione di un sistema di diritti che mette al centro chi più ha bisogno. Senza privilegi, preferenze, clientele.  ”Non c’è politica senza un sogno da tradurre in realtà”. E nella quale lo spazio della lotta al disagio non può essere occupato solo dalle istituzioni locali ma da quel vasto mondo associativo da sempre impegnato a difesa di chi ha meno. La rete della solidarietà, della protezione, dell’assistenza a causa dei poderosi tagli apportati ai fondi sulle politiche sociali oggi non riesce a coprire l’area del bisogno. Bisogna fare di più con meno. E tutti insieme.

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Carlo Salvemini è presidente di una Società Cooperativa che opera nel settore dell’editoria scolastica. Dal 2002 al 2007, a Lecce, consigliere comunale dei DS. Nel 2010 ha promosso un’associazione di cittadinanza attiva lecce2.0dodici. Nel 2012 è stato eletto in consiglio comunale con la lista LECCE BENE COMUNE di cui oggi è capogruppo.

 

 

 

 

  1. […] Giovanni Scarafile filosofo, esperto di comunicazione, critico cinematografico dirige YOD MAGAZINE iniziativa editoriale dedicata ai temi della comunicazione in una prospettiva interdisciplinare. L’ultimo numero, che tratta dell’INSIGNIFICANZA, ospita, tre le altre cose, una intervista al sottoscritto. Nella quale provo a rispondere su come in politica la significatività può essere raggiunta seguendo vie differenti da quelle note e consolidate. Sono stato messo di fronte a domande impegnative: queste le mie risposte per chi ha interesse a leggerle. […]

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