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Coscienza universitaria e interdisciplinarità

In Uncategorized on 23 June 2014 at 5:34 PM

Antonio

DIALOGO CON ANTONIO D’ALESSANDRO

DI GIOVANNI SCARAFILE

Da studente universitario di filosofia, accarezzai l’idea di abbandonare gli studi. Ricordo i pensieri di quei giorni. Ero insoddisfatto perché quel tipo di studio mi sembrava del tutto autoreferenziale. Che cosa ne era delle urgenze del mondo in ciò che ci veniva proposto di studiare? Lo studio che mi era proposto era dimentico del mondo nella stesso modo in cui quel professore di cui parlo in Reti di parole era dimentico degli studenti che aveva di fronte in aula[1]. Nel suo significato più autentico e più ricco di implicazioni, lo studio – avrei scoperto dopo – può essere ben altro. È la massima espressione di quella carità intellettuale di cui, ieri come oggi, vi è urgente bisogno.

In quegli anni, nel mio paese, ero solito frequentare un anziano, brillante ed indimenticabile esponente del cattolicesimo democratico, Gilberto De Nitto[2], il quale mi suggerì la lettura di Coscienza universitaria di Giovan Battista Montini. Quel libro ha cambiato la mia vita. In esso erano delineate le caratteristiche di una spiritualità della ricerca, caratteristica primaria ed irrinunciabile di ogni autentico percorso di studio. Era esattamente quella dimensione che mancava alla proposta che mi veniva fatta dall’Università di uno studio che ritenevo “arido” per il fatto di essere esclusivamente orientato al risultato (gli esami da conseguire).

Scoprii presto che la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) era la casa comune di altri giovani che condividevano i miei stessi sentimenti. Fu così che conobbi Patrizia Pastore ed Antonio d’Alessandro, incaricati regionali della FUCI per la Puglia. Di quell’incontro ho ricordi indelebili. Di Patrizia, il sorriso coinvolgente; di Antonio, l’acutezza dello sguardo. Insieme a loro, ho compiuto una parte fondamentale della mia vita in università. Ho incontrato altri amici, rimasti sempre nel cuore. Ho conosciuto luoghi, come Camaldoli, l’eremo in provincia di Arezzo, carichi di storia, di significato e di presenza umane, Emilio Contardi in primis, vere stelle polari delle nostre esistenze.

Mi sono soffermato su questi ricordi personali perché essi sono lo sfondo sottostante le domande rivolte ad Antonio d’Alessandro, oggi affermato docente all’Università Sapienza, ingegnere elettronico di successo, coordinatore di numerosi progetti di ricerca in tutto il mondo.

Incontrando i miei studenti, confrontandomi con loro, mi chiedo spesso che cosa ne sia di quegli autori per noi così significativi. Per questo, il dialogo con Antonio è accompagnato dalla speranza che i più giovani possano accostarsi al significato eterno di quei Maestri, citati in queste pagine, che così profondamente hanno segnato la nostra generazione.

 

  1. Negli anni della vita universitaria, sei stato tra i dirigenti della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana). Che cosa ricordi di quegli anni? Quanto è stata importante quell’esperienza per la tua professione?

I ricordi di quel periodo sono ormai impressi in modo indelebile nella mia memoria e lo saranno fin quando le mie facoltà mentali mi accompagneranno. Le persone, i luoghi, gli incontri, lo stupore nei confronti di nuove esperienze amicali e intellettuali, i dibattiti, le discussioni, le letture, i viaggi.

La mia vita professionale è intrisa dell’esperienza fucina in quanto mi ha aiutato a scoprire la passione per la ricerca, a capire la necessità di offrire il proprio contributo sempre in modo originale attraverso l’approfondimento serio delle questioni con senso critico. Mi ha insegnato il rispetto verso il proprio superiore senza esserne succube, sapendo spiegare le proprie convinzioni attraverso il dialogo. Mi ha insegnato il sentirsi parte di una comunità, la necessità delle regole della convivenza civile anche in un Dipartimento universitario, saper formare e tenere un gruppo. Credo che l’esperienza fucina mi abbia anche insegnato che in genere e soprattutto in Università bisogna guardarsi dall’avere un “maestro unico” (il professore della tesi o tutore di dottorato o il cosiddetto ordinario di riferimento) ma che invece esistono diversi bravi maestri. Ho capito che bisogna guardare alle persone per quello che sono e possono insegnarti al di là di superficiali pregiudizi.

La FUCI mi ha aiutato a sviluppare capacità organizzative e di coordinamento che tutt’ora oggi fanno parte della mia esperienza di docente impegnato anche nell’organizzare congressi scientifici. L’organizzazione del 49° congresso FUCI a Bari nel 1989 con Patrizia, ora mia moglie, allora incaricata regionale con me, è stata un’esperienza straordinaria di lavoro di gruppo con tanti amici fucini pugliesi.

Uno dei miei incarichi oggi è quello di Presidente della Società Italiana Cristalli Liquidi, una comunità di scienziati fisici, chimici e ingegneri il cui lavoro di guida e coordinamento attinge senza dubbio all’esperienza fucina di Presidente di gruppo e di incaricato regionale.

 

  1. Nel confronto con la cultura umanistica, la cultura scientifica viene solitamente considerata come la più in grado di essere al passo con i tempi. Da scienziato, da studioso impegnato nella concreta prassi accademica, puoi confermare questa visione?

La pubblicità di un noto marchio di prodotti informatici, recita “…..la medicina, la legge, gli affari, l’ingegneria – questi sono scopi nobili e necessari per sostenere la vita. Ma poesia, bellezza, romanticismo, amore – queste sono cose per le quali noi restiamo in vita”. In pratica il cellulare, il computer, la conoscenza scientifica in genere ci aiutano a vivere meglio, ma la letteratura, la filosofia, la cultura umanistica, aggiungerei la consapevolezza della vita spirituale (sia per credenti che per non credenti) in genere, ci insegnano a comprendere meglio noi stessi, ad amare e farci sentire vivi. Ci aiutano ad alimentare la nostra sete di sapere e la tensione nel cercare risposte al perché delle cose materiali e non. Come scienziato nego in modo assolutamente deciso che la cultura scientifica sia quella più in grado di essere al passo con i tempi rispetto alla cultura umanistica. La tecnologia offre nuovi spazi per riorganizzare la propria vita, ma la cultura umanistica è quella che ci offre gli strumenti per prendere coscienza dei nuovi tempi e per rinnovare la nostra educazione civile in grado di gestire con maturità il cambiamento determinato anche dal progresso tecnologico. La cultura scientifica e quella umanistica sono le gambe con cui l’uomo può proseguire il suo cammino nella storia. È illusorio pensare di poter fare a meno di una delle due e ciascuna alimenta l’altra vicendevolmente.

 

  1. Nella lingua tedesca, con il termine «beruf» si individua significativamente sia la professione sia la vocazione. Con il tuo lavoro, senti di aver realizzato la tua vocazione?

La scoperta continua del nuovo e l’esplorazione dell’ignoto ma allo stesso tempo la trasmissione delle proprie conoscenze ai più giovani in particolare sono gli aspetti principali del mio lavoro tanto impegnativi quanto affascinanti. Lascio ai miei valutatori quanto sia in grado di rispondere ai requisiti necessari, ma la passione certamente mi aiuta a cercare sempre l’entusiasmo a continuare su questa strada. Se rispondere alla mia vocazione consiste: nel continuare a provare quell’indescrivibile ebrezza di fronte ad un nuovo esperimento riuscito in laboratorio; nel ritenere indispensabile presentare i risultati della propria attività di ricerca attraverso il confronto leale e rigoroso con la comunità scientifica in una relazione ad un convegno o mediante la sottomissione di un articolo su rivista; nel provare rispetto verso gli studenti cercando di non improvvisare mai la lezione, ma cercando sempre di prepararla sforzandosi di migliorarne l’esposizione per trasmettere i concetti e le informazioni (anche se si tratta della stessa lezione che insegno da anni); amare quello stile di vita essenziale, semplice poco modano ma intriso di rapporti autenticamente sinceri e di stima con i tuoi colleghi/maestri/collaboratori/studenti che favorisce l’attività intellettuale. Allora penso di avere realizzato la mia vocazione e per questo mi sento un privilegiato.

 

  1. Puoi indicarci quali sono i progetti su cui sei attualmente impegnato?

 La mia attività di ricerca degli ultimi 10 anni ha riguardato lo studio teorico e sperimentale di dispositivi che elaborano segnali di luce in genere confinati nelle fibre ottiche per il trasporto dell’informazione. L’aspetto peculiare è l’impiego di materiali “esotici” come i cristalli liquidi, meglio noti per i loro impiego negli schermi piatti per TV, computer cellulari e altro. I cristalli liquidi sono una delle tante meraviglie della natura nella loro cosiddetta mesofase tra la fase liquida e la fase cristallina (guardate un po’ qui link). Sono materiali estremamente interessanti per le loro proprietà fisiche e chimiche. Come ingegnere, nei progetti nazionali ed europei cui sono stato e sono tutt’ora impegnato, cerco con i miei collaboratori di creare delle “macchine” microscopiche che sfruttano le proprietà ottiche di questo materiali per elaborare segnali di luce che viaggiano nelle fibre ottiche. Hanno il pregio tra l’altro di lavorare a bassa energia e di non dissipare calore rispetto ai corrispondenti componenti elettronici. Recentemente stiamo cercando di creare dei microcanali di cristallo liquido in cui i segnali di luce viaggiano negli stessi chip in cui possono scorrere fluidi biologici per individuarne, attraverso l’interazione luce-materia biologica, le proprietà per il riconoscimento di DNA o marker tumorali in quelle applicazioni note come lab on chip per le diagnosi precoci.

Il progetto didattico poi che mi piace menzionare è il corso di laurea magistrale di Ingegneria delle nanotecnologie insieme a diversi colleghi ingegneri (meccanici, chimici, elettronici come me) chimici e fisici. È forse il primo corso di laurea magistrale in Italia orientato a formare ingegneri in grado di progettare materiali, componenti e sistemi le cui proprietà dipendono fortemente dalle caratteristiche chimiche, fisiche e strutturali alla nanoscala (mi permetto di ricordare che “nano” è il prefisso per indicare la miliardesima parte di una unità misura).

 

  1. Continuando anche a lavorare all’estero ed essendo impegnato in molti progetti di ricerca, pensi che il dialogo tra saperi sia una necessità?

Dalla precedente risposta si può, credo, evincere che sia la mia attività scientifica che la mia attività didattica sono interdisciplinari intrinsecamente. Della ricerca ho già accennato e ormai tutti i progetti di ricerca più innovativi sono multi/interdisciplinari. Ormai il nuovo nasce solo dal dialogo tra le discipline. In particolare nella didattica sono impegnato con il mio corso di Optoelettronica in cui a partire dalle proprietà ottiche dei materiali cristallini semiconduttori e dalla possibilità di trasmettere informazione attraverso segnali di luce, si insegna come si progettano e realizzano microcomponenti che generano segnali di luce (laser e led), componenti che convertono luce in segnali elettrici (fotorivelatori), mezzi che trasportano (come le fibre di ottiche in vetro) segnali ottici o componenti che li elaborano. Questo insegnamento è interdisciplinare in quanto spazia dalla fisica della materia, alla fisica quantistica, all’elettronica, elettromagnetismo e ottica.

I progetti di ricerca più innovativi, come detto prima, sono multidisciplinari, ma accade sempre più frequentemente ormai che la multidisciplinarità coinvolge discipline anche profondamente molto diverse tra loro. Oltre al già citato esempio delle nanotecnologie penso al settore dell’ingegneria biomedica in cui si spazia dalla progettazione di un complesso ospedaliero con la sua rete di impianti, alla interazione tra campi elettromagnetici e materia vivente per la diagnostica come per il sistema della TAC (tomografia assiale computerizzata) o la chirurgia con l’impiego di fasci laser nelle sale operatorie. Per passare a totalmente altro basti pensare alla linguistica computazionale fondata sull’interazione tra informatica e studio della lingua e del linguaggio. La lista è molto lunga. Il problema è quello dell’interdisciplinarità dove queste discipline/competenze profondamente diverse nella metodologia, nelle tecniche e nel linguaggio devono parlarsi attraverso i ricercatori coinvolti ma qui si apre evidentemente un’altra serie di questioni.

 

  1. Quali sono gli aspetti positivi che hai avuto modo di vedere durante le tue ricerche negli Stati Uniti che si potrebbero adottare nell’Università italiana?

Premessa volta a modificare un po’ la domanda per cui chiedo scusa all’intervistatore: l’università come tanti altri settori della società vanno ormai pensati in contesti territoriali, politici e sociali più ampi di quello nazionale secondo me (forse perché siamo in clima di elezioni europee). Il livello nazionale ha ormai poco senso per molteplici aspetti. In sostanza il confronto va fatto tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea che spero diventi presto Stati Uniti d’Europa. Solo così il confronto è ben posto e rivaluta le stesse eccellenze che nonostante il disastroso contesto nazionale esistono nel nostro Paese.

La storia, la tradizione e i sistemi di USA e UE, sono molto diversi. Difficile pensare di trasportare un sistema nell’altro secondo me. Mi limito a segnalare tre aspetti che ritengo positivi sia dell’uno che dell’altro sistema.

Pregi degli Stati Uniti: circolazione fluida delle eccellenze e travaso delle scuole, penso al fatto che se prendi il PhD al MIT potrai far carriera accademica solo altrove; capacità di investimento rapida e massiccia con sano coinvolgimento di privati; sistema che incoraggia la formazioni di spin-off a partire dalla ricerca scientifica. Pregi dell’UE: grande capacità di networking in modo regolato e sistematico (le reti scientifiche europee finanziate in tutti i programmi quadro e il programma Erasmus sono forme istituzionali di scambio di capitale umano che gli USA ci invidiano); maggiore accessibilità economica agli studi con intervento del Welfare nell’istruzione universitaria mediamente in modo più diffuso che negli USA (seppur ancora variegato nell’UE); sedi universitarie con tradizioni quasi millenarie immerse in un contesto urbano più a misura d’uomo. In Europa gli studenti sono più integrati nel contesto cittadino e non confinati in un college. Su questo sarebbe interessante un confronto sul valore formativo di questo aspetto per la maturazione di una migliore coscienza civica nello studente.

 

  1. In che modo nella tua esperienza professionale hai avuto modo di sperimentare la spiritualità della ricerca?

La spiritualità della ricerca è piuttosto una tensione interiore di cui è in parte plasmata la quotidianità del lavoro Non adagiarsi mai sui risultati acquisiti, non fermarsi mai allo status quo, il cercare l’oltre, il non sentirsi mai compiuto nella propria professione, ma provare sempre la sensazione dell’essere in cammino sulla strada che ti porta a crescere e maturare sempre. Di questo cammino è sempre parte il dialogo, il confronto, il comprendere le ragioni dell’altro, anche se alcune volte ammetto è molto difficile, ma si sa i conflitti fanno parte del gioco. È un cammino che si compie ogni giorno con pazienza, accontentandosi talvolta anche di piccoli progressi. Questo vale non solo nel lavoro meramente scientifico ma anche nella vita relazionale che è parte integrante della vita accademica. Alla luce della lettura consigliatami da Patrizia de “La vita intellettuale” di Antonin-Dalmace Sertillanges, filosofo e teologo domenicano, che la Fondazione FUCI ha fatto ristampare di recente attraverso la casa editrice Studium, mi sto confrontando piuttosto con i molteplici aspetti dello stile di vita che favorisce l’attività intellettuale. Consiglio vivamente la lettura del testo che seppur datato ha molteplici spunti di riflessione interessanti e ancor’oggi attuali su cui confrontare il proprio stile di vita di studiosi.

 

  1. Tra le tante possibili, c’è un’idea di cambiamento in cui ti riconosci maggiormente?

Non ho gli strumenti culturali adeguati per formulare un’idea precisa, tuttavia provo a rispondere, assimilando il concetto di cambiamento a quello di rinnovamento. Credo che il cambiamento, in senso lato, come la spiritualità della ricerca, debba essere una tensione del nostro essere. Tensione che ci porta a cercare sempre di determinare il cambiamento e soprattutto a costruirlo ogni giorno attraverso le nostre azioni e le nostre scelte. Magari poi il cambiamento arriva in modo dirompente, ma se ci hai lavorato allora lo cogli e lo vivi, ma solo se hai saputo vivere il suo avvento in modo vigile e costruttivo contribuendo a determinarlo nel quotidiano. Il cambiamento può essere il traguardo di un percorso che hai seguito meticolosamente con pazienza. Come quando un maratoneta completa il suo percorso di 42,195 km. con il ritmo del suo (e non quello di un altro) passo regolare dopo essersi preparato nei mesi precedenti, arrivando sicuro e sereno al traguardo senza traumi laceranti (corro 70-80 km a settimana e ho corso finora 6 maratone, quindi penso di sapere di cosa parlo, almeno di questo!). Penso che una realtà senza alcuna forma di cambiamento, anche solo sotto forma di tensione, sia morta o destinata a morire presto. Cercare, costruire, determinare il cambiamento attraverso gesti e azioni nel quotidiano, apparentemente semplici e ordinarie ma purché di senso. Chiedendosi sempre il perché delle proprie scelte e delle proprie azioni, senza dare mai nulla per scontato. Tendere, insomma, da un lato al cambiamento come meta finale di un percorso, ma al contempo essere pronti a riconoscerlo e governare se dovesse giungere inaspettatamente. Anche quando il cambiamento arriva, credo sia importante essere pronti per un nuovo cammino con la stessa tensione verso il nuovo, convinti che “The best is yet to come” come recitano le parole della splendida canzone di Carolyn Leigh.

  1. Quanto il cambiamento è importante per la tua professione?

Il cambiamento nell’ottica del rinnovamento è così importante che senza di esso verrebbe meno il senso stesso dell’essere un ricercatore/scienziato e pure insegnante. Il cambiamento è l’essenza principale del mio lavoro. Attenzione! Non va certo inteso come cambiare rotta ogni giorno, ma va inteso, come detto nella precedente risposta, come quel cambiamento che si costruisce attraverso il percorso che porterà al nuovo fuggendo il vecchio ormai obsoleto. Questo vale anche per la didattica, aggiornando ogni anno almeno alcuni degli argomenti del proprio corso o sostituire alcuni argomenti con dei nuovi. Trovare sempre nuovi stimoli: cambiare per rinnovare e rinnovare per cambiare. Forse questo fa parte del cercare e sforzarsi di essere creativi ed efficacemente produttivi nel proprio lavoro, nei limiti dei propri talenti per quanto grandi o piccoli che siano. Forse tante realtà muoiono perché manca creatività fantasia, capacità e voglia di rinnovamento. Il rinnovamento come essenza stessa del cercare di restare vivi, di sopravvivere di fronte ai lacci della mediocrità, della pigrizia intellettuale con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno, per proseguire nel nostro cammino di crescita sia professionale sia umano e per offrire il nostro contributo non solo scientifico ma pure di senso alla società.

 

 

[1] Proprio da quel sentimento nacque La vita che si cerca. Lettera ad uno studente sulla felicità dello studio (Effatà editrice 2005), un racconto in forma epistolare, dedicato alle molteplici dimensioni che possono essere assunte dallo studio.

[2] Gilberto De Nitto (1924 – 1997). Esponente di spicco del cattolicesimo democratico nel Salento, antifascista, amico personale di Giuseppe Lazzati, molto vicino ad Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, Emilio Colombo. Uomo mite, instancabile animatore culturale e testimone dell’umiltà evangelica.

 

Antonio d’AlessandroDottore di Ricerca in Ingegneria Elettronica presso il Politecnico di Bari, è professore associato presso l’Università Sapienza dove insegna Optoelettronica e Fotonica. Per oltre due anni dal 1992 al 1994 ha svolto la sua attività di ricercatore presso i laboratori della ex-Bellcore (oggi Telcordia) nel New Jersey (USA), come postdoctoral Member of Technical Staff, fornendo significativi contributi scientifici sullo sviluppo di filtri/switch acusto ottici e modulatori elettroottici integrati in guide diffuse in niobato di litio, per sistemi di comunicazioni WDM. Dal 1994 svolge la sua attività didattica e scientifica presso il Dipartimento di Ingegneria Elettronica dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ove è responsabile del Laboratorio di Optoelettronica. Coordina numerosi progetti di ricerca internazionali

 

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