Intervista ad Omar Gelo
di Roberto Greco
1. Definisca, secondo la sua ottica, il concetto di cambiamento.
In generale, il cambiamento ha a che fare con la modificazione di uno stato al passare e in funzione del tempo (con il tempo, dunque, inteso non esclusivamente come contenitore del cambiamento, ma come fattore che lo influenza): in altri termini, il cambiamento è un fenomeno dinamico. Io sono solito inquadrare questo concetto dalla prospettiva della teoria dei sistemi dinamici, introdotta al grande pubblico da Heinz von Foerster con il suo libro Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni (1983). Essa si basa sull’idea fondamentale che il cambiamento sia una caratteristica imprescindibile dei sistemi viventi (per cui, quindi, vivere coincide con cambiare) e che vi siano due modalità attraverso le quali cambiamo. Una modalità più superficiale, il cambiamento di primo ordine, consiste nelle piccole modificazioni a cui andiamo incontro per rimanere stabili al passare del tempo (una sorta di cambiamento “conservativo”, attraverso il quale manteniamo la nostra stabilità in modo dinamico [“stabilità dinamica”], riconducibile al concetto piagetiano di “assimilazione”); l’altra modalità più profonda, il cambiamento di second’ordine: coincide con cambiamenti profondi del nostro modo di funzionare e si realizza solo attraverso una intensa destabilizzazione prima che noi possiamo, eventualmente, riorganizzarci (un cambiamento “trasformativo”, attraverso il quale raggiungiamo nuovi e diversi livelli di ordine dopo essere passati attraverso intense fasi di disorganizzazione [“ordine attraverso fluttuazioni”], riconducibile al concetto piagetiano di “accomodamento”). La teoria dei sistemi dinamici afferma che gli esseri viventi oscillano continuamente e dialetticamente tra queste due forme di cambiamento (e cioè, tra la “tendenza alla stabilità” e “l’apertura al cambiamento”), nonostante tendano a trascorrere la maggior parte del tempo all’interno della dimensione di cambiamento assimilativo (di primo ordine) che ne garantisce l’identità necessaria alla sopravvivenza.
2. Che rapporto esiste tra cambiamento e adattamento da una prospettiva psicologica?
Per rispondere a questa domanda farò sempre riferimento alla teoria dei sistemi dinamici applicata alla psicologia. Adattarsi, considerando la prospettiva evoluzionistica, coincide con il modificarsi al passare del tempo in modo da soddisfare le esigenze che l’ambiente ci pone. Cosa molto interessante per gli esseri umani è che l’ambiente a cui ci si deve adattare non è solo esterno ma anche interno (quello che, genericamente, chiamiamo “mente”). Adattarsi consiste dunque nel modificarsi continuamente (secondo modalità assimilative o accomodative) con il fine di produrre risposte sempre più funzionali alle modificazioni a cui andiamo incontro, modificazioni provenienti sia dall’ambiente esterno che interno. Dalla prospettiva della teoria dei sistemi dinamici, si fa riferimento al concetto di “auto-organizzazione” per indicare il cambiamento adattivo che i sistemi complessi realizzano oscillando dinamicamente tra tendenza alla stabilità e apertura ai cambiamenti; l’auto-organizzazione rappresenta la forma più complessa di adattamento prodotta dalla selezione naturale.
3. E dalla prospettiva psicobiologica?
Per rispondere a questa domanda utilizzerò alcuni concetti spiegati dal biologo e filosofo Gerald Edelman il quale, nel suo libro Sulla materia della mente (1992), fa riferimento al concetto di “darwinismo neurale”. Partendo dalla teoria evoluzionistica, Edelman afferma che il cambiamento consiste in una modificazione dei circuiti neuronali che sottostanno a diverse funzioni (corporee, affettive, cognitive); quando questa modificazione è relativamente stabile nel tempo, si può parlare di apprendimento. Per apprendere qualcosa è necessario dunque modificare le strutture neuronali esistenti, che rappresentano le “competenze” (corporee, affettive, cognitive) di cui già disponiamo. Uno dei concetti fondamentali della moderna neurobiologia è che l’attività dei neuroni si modifica sulla base delle esperienze che facciamo: più esperienze di un certo tipo facciamo, più determinate mappe neuronali andranno a “facilitarsi”. La facilitazione implica che, con riferimento all’ipotetico percorso che un impulso elettromagnetico segue all’interno dei miliardi di percorsi possibili, aumenti la probabilità che un determinato impulso segua un certo percorso piuttosto che un altro. Questo fenomeno rappresenta la base neurobiologica dell’apprendimento ed è collegato ad un concetto fondamentale della teoria dei sistemi, quello di “attrattore”. Gli attrattori sono degli stati in cui il sistema tende ripetutamente e con più probabilità a (ri)trovarsi: sono dunque responsabili del suo comportamento dinamicamente stabile. L’apprendimento, da una prospettiva psicobiologica, può essere considerato come l’abilità del nostro cervello, da una parte, consolidare gli attrattori neuronali già esistenti (cioè, di facilitare sempre più circuiti neuronali già a disposizione del nostro repertorio, secondo le modalità del cambiamento di primo ordine) e, dall’altra, di favorire l’emergenza di nuovi attrattori neuronali (cioè, di consentire l’emergenza di mappe neuronali qualitativamente nuove, secondo le modalità del cambiamento del cambiamento di secondo ordine). Come si evince, dunque, anche il cambiamento/adattamento neuronale è regolato dai principi sistemi di di auto-organizzazione.
4. È possibile, idealmente, evitare di cambiare?
Come dicevo prima, no: è impossibile evitare di cambiare. Non cambiare implica la morte: smettiamo di cambiare nel momento in cui moriamo; moriamo nel momento smettiamo di cambiare. Come già detto, nel corso del cambiamento di primo ordine (superficiale, conservativo), il sistema esibisce delle oscillazioni minime attorno a modalità preferenziali di funzionamento, mentre nel cambiamento di secondo ordine (profondo, trasformativo), il sistema esibisce l’emergenza di una modalità di funzionamento qualitativamente nuova, questo dopo essersi destabilizzato (destrutturandosi o disorganizzandosi). Ora, a livello fenomenologico (cioè, a livello dell’esperienza soggettiva vissuta), la sensazione di “non cambiare”, secondo la teoria dei sistemi dinamici, si ha nei momenti in cui andiamo incontro a cambiamenti assimilativi (cambiamento di primo ordine). Assimiliamo, cioè, vari aspetti dell’esperienza con il fine di rimanere organizzati intorno a determinate configurazioni già esistenti. In altre parole, anche quando possiamo avere la sensazione di non cambiare, in realtà stiamo cambiando, ma con il fine di rimanere il più possibile uguali a noi stessi.
5. Perché, nonostante sia assodato che dobbiamo cambiare per poterci adattare, l’uomo cerca e/o ha bisogno per molti aspetti di “rimanere uguale a sé stesso”?
In termini temporali, gli esseri umani (come la maggior parte dei sistemi complessi aperti) trascorrono la maggior parte del tempo ad esibire cambiamenti conservativi di primo ordine, che ne garantiscono la stabilità (da non confondere con staticità, che equivarrebbe alla morte del sistema). Il sistema è stabile nel momento in cui si adatta continuamente (dinamicamente) all’ambiente. Perché questo? Perché la sopravvivenza è collegata fondamentalmente all’abilità di manifestare pattern di comportamento permanenti. Come già detto, quando gli stimoli provenienti dall’esterno e/o dall’interno non sono più facilmente assimilabili dalle strutture di cui disponiamo, questa stabilità (dinamica) può essere interrotta da momenti di instabilità critica, creando così i presupposti per l’emersione di un nuovo comportamento. Tuttavia, il bisogno di stabilità “è sempre un passo avanti” nei confronti dell’apertura al cambiamento: per poter sopravvivere, dobbiamo essere sì aperti e predisposti a modificarci anche profondamente, ma il nostro bisogno di restare stabili ha sempre un minimo di priorità in più. Questa è una questione fondamentale, che a livello psicologico si manifesta in quella che noi chiamiamo identità: il rimanere “uguali a noi stessi” nonostante i cambiamenti a cui possiamo andare incontro nell’arco di una intera vita.
6. Alla luce di quanto detto, che rapporto esiste allora tra il cambiare e il rimanere sé stessi?
Bella domanda. Rimanere sé stessi implica, da una prospettiva psicologica, l’abilità di poter metaforicamente tracciare, al passare del tempo, un filo rosso che collega il modo in cui siamo in diversi momenti della vita. Questo filo rosso è il trait d’union che rappresenta ciò che c’è di “stabile” in ogni uomo, che gli permette di riconoscersi e di essere riconosciuto. L’apparente paradosso è che, per rimanere stabili, è necessario che gli esseri umani siano in grado di andare incontro, quando necessario, a dei cambiamenti profondi. L’idea di base è che un cambiamento profondo (e cioè la ristrutturazione di un qualunque schema comportamentale, cognitivo, affettivo, ecc.) non ci fa diventare diversi in toto, ma in relazione a un micro-aspetto a cui quella configurazione comportamentale, cognitiva, o affettiva fa riferimento; in altri termini: anche quando cambiamo in modo profondo, è solo una piccola parte di noi che cambia profondamente, mentre il resto rimane dinamicamente stabile. Potrà quindi emergere un comportamento qualitativamente nuovo in un determinato dominio, ma questo all’interno di un contesto più ampio e generale in cui noi abbiamo la percezione di “rimanere sempre gli stessi”.
7. Cosa può determinare, nella vita di tutti giorni, un cambiamento tale da “allontanare” una persona da quello che possiamo definire benessere?
La prima cosa che mi viene in mente è il concetto di trauma. Il trauma è un’esperienza talmente dirompente da lasciare un segno: per dirompente si intende un’esperienza talmente poco assimilabile dal soggetto e dalle strutture che esso ha e usa per dare senso alla realtà, da creare una disorganizzazione, disorganizzazione a cui il soggetto non riesce a far fronte in modo adattivo, andandosi successivamente a stabilizzare attorno ad un nuovo attrattore, disadattivo però. Bisogna osservare che, mentre un trauma rappresenta un’esperienza disorganizzante di tipo “acuto” – cioè, di un’intensità tale da poter avere conseguenze deleterie anche se presentatasi un’unica volta – esistono numerose altre esperienze di entità minore che possono arrivare a spingere il sistema a riorganizzarsi in modo disattivo “sommandosi” tra di loro al passare del tempo. E’ opportuno osservare qui che quella che viene comunemente chiamata psicopatologia rappresenta un caso particolare di sofferenza mentale, che non si presenta però in episodi isolati e/o sporadici, ma diventa un vissuto prevalente e caratterizzante del soggetto. In merito a ciò è importante sottolineare che la psicopatologia, dalla prospettiva della teoria dei sistemi dinamici, non rappresenta momenti di instabilità: gli esseri umani, infatti, non sono in grado di tollerare l’instabilità per lunghi periodi (ore, a volte giorni, ma non di più) per cui, dopo un periodo di instabilità ci riorganizziamo sempre attorno a nuovi schemi dinamicamente stabili. La questione è se questa riorganizzazione è di tipo adattivo o meno. Nel caso della psicopatologia, la riorganizzazione che segue la destrutturazione di un sistema è di tipo disfunzionale. Dunque, la psicopatologia consiste in schemi affettivi, cognitivi e comportamentali stabili ma, al tempo stesso, disfunzionali. È qui che risiede il paradosso della psicopatologia, per cui, anche se stiamo male, non riusciamo a cambiare, in quanto lo schema che sostiene quel malessere è stabile.
8. Cosa può determinare, nella vita di tutti giorni, un cambiamento tale da “riportare” il benessere in una persona?
Per fronteggiare una situazione stabile di malessere, è necessario facilitare la riorganizzare delle proprie configurazioni di funzionamento ad un livello più complesso e maggiormente adattivo (come accade, ad esempio, nei contesti clinici): questo purtroppo non è sempre realizzabile e il fatto che sia realizzabile o meno dipende in parte dall’entità dell’evento disorganizzante, in parte dalle risorse del soggetto. Se il malessere o la sofferenza mentale sono determinati da eventi che destrutturano determinati schemi stabili di funzionamento, portando ad una disorganizzazione del sistema e facendo riassettare il sistema intorno a nuovi schemi disadattivi, ciò che è necessario per un “percorso inverso” (ad esempio, terapeutico) non potrà prescindere dal medesimo meccanismo. In terapia, ad esempio, capita correntemente di osservare la disorganizzazione degli schemi stabili disadattivi del paziente al fine di promuovere la riorganizzazione del sistema attorno a nuovi schemi, stavolta, adattivi. La diminuzione della qualità della propria vita passa attraverso delle fasi di crisi e di instabilità che portano a schemi stabili disadattivi di funzionamento; per poter migliorare la qualità della propria vita, all’interno di un percorso terapeutico e non, bisognerà ugualmente passare attraverso fasi di destabilizzazione che però, in questo caso, permetteranno l’emersione di nuovi schemi maggiormente adattivi, garantendo un maggior adattamento.
Bibliografia di riferimento
Von Bertalanffy, L. 1983. Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni. Milano: Mondadori.
Edelman, G.M. 1992. Sulla materia della mente. Milano: Adelphi
Gelo, O. C.G. 2014. Understanding biographical ruptures and transitions: A dynamic systems approach to life-course development in A. Joerchel, A., Bentka B., (Eds.). Biographical ruptures and their repair: Cultural transitions in development. Charlotte: Information Age Publishing
Piaget, J. 2000. L’epistemologia genetica. Bari: Laterza.
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Omar Gelo è ricercatore confermato di Psicologia Dinamica e Professore aggregato di Psicologia Dinamica e di Laboratorio di Verifica dell’Intervento presso l’Università del Salento. Già Assistant professor di Scienze Psicoterapeutiche presso la Sigmund Freud University – Vienna, dove diviene anche il coordinatore del programma internazionale del dottorato in Scienze Psicoterapeutiche.
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