Riccardo dell’Atti
Mara non dorme. Passa le notti a sussurrare canzoni. Le palpebre chiuse, serrate le dita, le labbra pure; ferma le parole incollando la lingua al palato, le strozza, le inghiotte, le nasconde, le uccide prima che prendano il volo. Nelle strofe sommesse dondola i piedi sotto le lenzuola e porta le dita delle mani a toccarsi, come volesse mimare un tetto o una preghiera. Ha capelli intricati che sembrano canapa. Ogni tanto apre gli occhi, ruba la luce agli oggetti e ferma il suo canto. Respira con calma, solo dal naso, non apre la bocca. La bocca di Mara è chiusa da quando qualcuno le impose il silenzio.
A volte cerca il cuscino per far scoppiare la rabbia, spalanca e urla, poi morde le federe e stringendole piange, ma nessuno la sente. Come sempre.
Mara non dorme. Conta le ore del tempo rubato al sonno e ad ogni alba aggiorna la somma.
Una notte, muta sul letto, nel buio, fissa il soffitto e immagina il cielo; mormora un canto dolcissimo che le nasce tra il naso e le guance un po’ gonfie. Una melodia raffinata di quattro note rotonde e composte ma asfittiche, luci lontane in una sera di nebbia: sfocate ma luminose a loro modo, disperse nell’aria ma ovunque presenti.
Nello stesso momento, al piano di sopra, un’anima insonne preferisce il pavimento al rogo del letto infuocato e opprimente. Veronica non trova pace nell’afa: nuda, i palmi distesi, la pelle di perla nell’ombra. Calma un poco la pena sul marmo, posa il volto per terra e la guancia si ghiaccia all’istante, un accenno di piacere si arresta in un brivido sbrigativo e sfuggente.
Quando finalmente anche l’orecchio lambisce il freddo pavimento, questo le riferisce l’incanto soffocato che viene dalla stanza di Mara.
È una goccia di vino denso colore rubino che cade in un catino di latte quel canto. È un proiettile dolce la voce senza voce di Mara che sale dal letto e attraversa il cemento con l’eleganza di uno sparo, colpisce Veronica al petto e si propaga nel suo corpo in un’eco vibrante fatta di carne, ora bollente.
Veronica ascolta.
La sua mente si libra in una carezza di miele, e in un istante ricorda le ore di studio, i solfeggi, le scale, l’armonia, i vocalizzi.
Veronica brama.
Mezzosoprano centrale, la sua voce è calda come una mano di amante, suadente, continua, viandante. Ricorda le arie, i canoni, gli arpeggi, le estensioni, i gorgheggi, i brani mandati a memoria.
Veronica arde.
Il pavimento, sconfitto, non le ha reso il conforto voluto e tutto le brucia in una scorza di pelle dorata. Vorrebbe esplodere oppure cercare quel canto, avvicinarlo, entrarci e lanciarcisi dentro come si farebbe dallo scoglio nel mare, chiudendo il naso e poi gli occhi e le mani sui fianchi e immergendosi fino a quando il respiro non basta.
Vuole quella voce mai nata, rinchiusa in una prigione di denti.
Allora si alza, un velo di sudore si congela sulla schiena perfetta. Sente una morsa allo stomaco: è il diaframma eccitato, le comprime la pancia e le chiude i polmoni. Un colpo alla gola la agita e il sangue si gela alle tempie e nei polsi. Prende una vestaglia rossa e la indossa, esce da casa e scende al piano di sotto: una scala velocissima, armonia che scorre in purezza su gradini ansimanti e si arresta nell’eco lunghissima del “LA” del campanello di ottone.
Passa un minuto di silenzio, ma non nel petto.
- Mi chiamo Veronica.
E tira col naso per recuperare il respiro.
Mara la guarda, dice “Sì” con il naso, si scosta di un passo e con la mano fa segno di entrare. I capelli di Veronica accarezzano la mano ferma ad indicare l’ingresso.
Certi silenzi hanno un’intrinseca e perfetta armonia, non sono assenze ma inneschi. Veronica si fa liquido rosso negli occhi bagnati di Mara: vino o sangue o quello che resta della seta di una vestaglia.
Sul canterano nel corridoio, in penombra, una foto di una bambina con i capelli di lino, lisci come un risveglio sereno. Ora non dormono più.
- – dice Veronica leggendo sotto la foto.
Gli occhi rispondono domande non traducibili.
- Mara, voglio cantare con te, anche solo stasera, e voglio che tu mi faccia da seconda voce.
Il rosso di prima esce dagli occhi e colora il volto muto di Mara. È una vampa improvvisa. Vorrebbe chiedere a Veronica in cosa consiste una seconda voce, cosa significa, lei non ha mai cantato, neanche parlato; vorrebbe capire, intuire soltanto, cerca risposte ma Veronica non concede ulteriori silenzi e attacca.
Sottile…
Ha una voce bellissima: sembra un frutto. Un nocciolo di tonalità basse e calde, morbide come un cuscino quando la testa ci affonda stanca. Una polpa di modulazioni medie, colorate come le stagioni che hanno maturato gli zuccheri, ubriacando le foglie di sole e di pioggia. Una buccia di sfumature alte e timbri argentini, che esplode quando un morso la rompe e tutto l’acino viene schiacciato dai denti e macinato e buttato nella gola e poi inghiottito e spinto fin dentro lo stomaco, sfamato e affamato.
L’attacco è fermo e deciso, di chi è nato cantando, di chi prende dall’aria l’armonia degli sguardi altrui, dei viaggi a occhi aperti nel mare e tutto trasforma in vibrazioni che danzano e attraverso il sorriso ritornano all’aria e agli sguardi e alle strade e al mare.
Mara non sorride. Lei degli sguardi ha preso l’ira e il terrore, e dei viaggi il desiderio, e del blu del mare solo il sale a bruciarle le lacrime e il singhiozzo affannato.
Veronica canta.
La vestaglia danza come mosto fermentato in botti odorose di resina. È un canto fluido e inebriante. I sapori nascosti sotto il rosso sono un ordito in cui si smarriscono i sensi.
Mara respira.
L’aria che entra nelle narici in un attimo accende il sangue nelle vene e libera gli sguardi.
Mara respira e ascolta.
Sente lingue finora sconosciute e immagina gli occhi delle voci che viaggiano tra le sue orecchie come venti in tempesta che arrivano da destinazioni diverse. Mara respira e ascolta, e si immerge, e i suoi occhi annegano in acqua di mare che diluisce il buio e, man mano che sprofonda, il nero si fa blu e il blu diventa azzurro.
Mara respira.
C’è troppa aria nella sua gola, e troppo calda. Prende un suono e lo piazza sotto il palato.
Veronica lo sente e la buccia esplode.
Senza pensarci, il suono di Mara è una terza sopra. Doppia voce: naturale e suadente. Una risonanza, come risacca, si pianta nelle orecchie e avanza e arretra. Veronica la segue, si sposta sulla terza ma un’ottava sopra. I polpastrelli della mano destra di Mara sono a mezz’aria, come se accarezzasse qualcosa, il tempo o l’aria della stanza. Solo la vestaglia si muove. Veronica li vede e congiunge i suoi continuando il suo canto, prende l’aria e le mani diventano preghiera e tetto.
A occhi chiusi Mara sale sulla quinta, un’ottava sotto.
Una fodera di seta e un sacco di corda. Questo sono.
A mani giunte e senza conflitto.
Vino che scorre sul pavimento, una vestaglia spogliata, capelli slegati.
Tirano finché il fiato le segue. Svuotano i polmoni fino all’asfissia della voce di Veronica che chiede supplizio aggrappandosi ad una vocale che è la somma di tutte le vocali.
La bocca di Mara finalmente si apre.
Tutte le note ammassate sotto il palato, legate sotto la lingua, aggrappate ai denti, soffocate nella gola per anni, scoppiano in un grido sonoro come uno sparo.
La mano di Veronica è piccola come un acino d’uva costretto in quella di Mara che stringe come una morsa, come un morso.
Rosse le dita.
Pure le labbra.
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