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Conflitti sociali e conflitti interiori in Achebe e Stevenson

In Uncategorized on 8 March 2015 at 6:30 PM

Silvia Potì

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In questo saggio intendo analizzare il tema del conflitto con lo straniero attraverso due storie: La spiaggia di Falesà (1892) di Robert Louis Stevenson e La freccia di Dio (1964), di Chinua Achebe. Occorre dunque avere in mano una mappa su cui saranno cerchiate due zone, la Polinesia e la Nigeria, descritte all’epoca della colonizzazione britannica, in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando alla fiducia nel progresso e alle scoperte scientifiche si accompagnarono l’invasione di “spazi franchi” e numerosi conflitti culturali e sociali.

L’esplorazione delle narrazioni appartenenti ad autori così estranei tra loro, vissuti in epoche successive (Stevenson nella seconda metà dell’Ottocento, Achebe durante il Novecento e gli inizi del nostro secolo), ma accomunati da uno stesso interesse tematico, permetterà di ampliare il ventaglio dei punti di vista sul conflitto, in un gioco caleidoscopico che renderà sfumata la distinzione tra scontro sociale e conflitto interiore. Per poter connettere questi due aspetti è necessario chiamare in causa una figura ambigua e portatrice di una densità di significati come quella dello straniero. Personaggio letterario, proiezione culturale, condizione esistenziale, lo straniero è stato variamente rappresentato in letteratura e nelle arti, attingendo dalle rappresentazioni sociali e nello stesso tempo sovvertendone i canoni ideologici. Nei romanzi di Achebe e Stevenson lo straniero è l’uomo bianco colonizzatore, di cui viene proposta un’immagine rovesciata rispetto a quella tradizionale: l’inglese che arriva in Polinesia o in Africa non è né il buon samaritano, valoroso avventuriero, desideroso di evasione e di scenari esotici, né il razionale homo economicus che porta progresso in società dominate dalla corruzione e dalla pigrizia, intrise di ignoranza e irrazionalità superstiziosa.

Stevenson trascorse gli ultimi anni della sua vita nelle isole del Pacifico, essendo soprannominato affettuosamente dagli abitanti del posto “Tusitala”, il narratore di storie; racconti che lo scrittore raccontava e ascoltava dalle popolazioni locali. Il suo sguardo critico verso la letteratura moralistica borghese di epoca vittoriana e la passione per l’avventura, la psicologia, i miti e l’epica resero i suoi racconti l’incarnazione dei daydreams dei lettori e di “mondi possibili”, ricchi scenari magici e incantati, attraverso cui lo scrittore faceva sopravvivere la tradizione orale delle popolazioni che incontrava. Achebe, dal canto suo, considerato “Africa’s greatest storyteller” dall’Economist (2013), scomparso nel 2013, propone nelle sue opere, dal punto di vista di un africano, il periodo della colonizzazione britannica e la conquista dell’indipendenza della Nigeria, ottenuta nel 1960. In alcuni casi le sue opere narrative, con la tecnica della doppia focalizzazione, raccontano la storia anche dal punto di vista del conquistatore. Le prospettive si moltiplicano, l’immagine acquista profondità attraverso la pagina: il lettore è chiamato a scegliere quale punto di vista adottare e spesso ne esce disorientato.

Con stile di scrittura che appare per entrambi cristallino e geometrico, Achebe e Stevenson non solo rovesciano la prospettiva con cui tradizionalmente si rappresentano i buoni e i cattivi, gli stranieri e gli abitanti del luogo, i selvaggi e i civilizzati (rovesciamento compiuto già da Voltaire quando sosteneva che i selvaggi erano in realtà gli europei), ma ci fanno attraversare con i loro personaggi una zona d’ombra e di contaminazione che ci lascia senza fiato.

La confusione evocata dalla lettura è connessa ad un interrogativo: quali sono gli attori sociali del conflitto?

Aprendosi al lato ambiguo della realtà, lo scontro non diviene più una lotta tra due contendenti ben definiti, come tra due insiemi geometrici distinti su uno stesso piano, ma acquista i tratti di un conflitto tra più dimensioni. Gli autori suggeriscono con le loro opere di guardare, infatti, le intersezioni, gli incontri possibili quando nell’altro, il nemico, riconosciamo parti di noi. Si tratta di una scoperta che genera spesso in chi la vive conflitti interiori, confusione, turbamento. Sigmund Freud utilizzò il termine tedesco unheimliche, perturbante, per indicare lo sconvolgimento e l’esitazione della coscienza quando siamo di fronte a qualcosa che pur essendo estraneo presenta i caratteri del familiare. Questa dimensione opaca attinge all’inconscio e a sacche profonde del nostro rapporto col mondo, fa traballare gli stereotipi, anche i più saldi, sorprende e svela un lato della realtà che rende meno netta la distinzione tra “amici” e “nemici”, tra tradizione e innovazione, tra cultura di appartenenza e nuovi valori.

In questa dialettica la figura dello straniero interviene come pietra dello scandalo, portatore di un pensiero differente, davanti al quale siamo infastiditi e affascinati, promuove passioni e cambiamenti, costringe a fare i conti con il nostro sistema di norme e valori, mettendo spesso in crisi i paradigmi utilizzati fino a quel momento per interpretare la realtà. La sua stessa condizione la rende una categoria indefinita, come uno specchio o un prisma che devia fasci di luce monocromatica.

Lo storico Carlo Ginzburg ricorda, in un saggio sulla distanza, che dire «tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale, vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa o qualcuno» (Ginzburg 1998: 10). Chi è dunque lo straniero? Rispetto a cosa lo è? E cosa accade quando arriva in una comunità?

La possibilità trasformatrice e conoscitiva evocata da questa figura è evidente quanto più il sistema di appartenenza è chiuso al suo interno e preoccupato di difendere la sua stessa identità. Mentre la Polinesia di Stevenson e la Nigeria di Achebe sembrano luoghi adatti ad accogliere la dimensione perturbante dello straniero, in uno scenario di conflitti sociali, nella nostra società occidentale, come ricorda il naturalista Stephen Jay Gould (cf. Cesarni 1998: 23), un uomo di Neandertal che oggi prendesse la metropolitana a New York non desterebbe alcuno scandalo, talmente nelle metropoli è ormai radicata l’assuefazione indifferente verso il diverso. Tuttavia anche in questo momento storico si fanno strada ripiegamenti particolaristici, lotte e referendum per l’indipendenza, conflitti per l’annessione di Stati, sbarramenti nei confronti degli immigrati. Quel che è tenuto in sordina, sembrerebbe, è la nostra capacità di sorprenderci, di adottare una visione “straniata” sulla realtà, che invece la letteratura rende possibile attraverso il procedimento formale dello straniamento, teorizzato da Viktor Borisovič Šklovskij[i]. La logica straniante, ricordata anche da Ginzburg, permette di non dare per scontata la realtà e di fare come se la si vivesse per la prima volta. Questo procedimento, non solo letterario ma dunque anche conoscitivo, consente di fare un’esperienza più profonda del mondo, recuperando uno sguardo ingenuo e autentico sulla vita.

Da un punto di vista letterario, la logica straniante è stata affidata a personaggi “stranieri”, quali i folli, i bambini, i selvaggi, e alla possibilità di entrare in rapporto con loro. La letteratura, grazie agli stranieri, ha potuto sfidare la morale dominante, mostrare significati inattesi e svelare i fantasmi dell’inconscio, sia dell’individuo che della società, che Calvino riteneva ineliminabili persino in un mondo cibernetico.

Solo attraverso lo spaesamento che costringe a superare le rigide logiche oppositive e a moltiplicare i conflitti e i punti di vista è possibile, dunque, raggiungere nuovi equilibri e attivare cambiamento.

«Sarebbe stata una pazza se non ci avesse creduto»

Quando rinvenni la seconda volta il cielo era completamente terso, ad eccezione di poche nuvole simili a fiocchi di cotone. La luna, la luna dei tropici, era alta. In patria la luna trasforma un bosco in un ammasso tenebroso, ma qui era sufficiente quello spicchio a illuminare la boscaglia di un verde intenso, come di giorno. Gli uccelli notturni, o meglio una sorta di uccelli che annunciavano il giorno, cantavano con note lunghe e cadenti come usignoli (Stevenson 1982:1438)

Questa immagine visiva e uditiva che enfatizza il rapporto con la natura e attribuisce particolari qualità alla luna, a seconda dei luoghi (elemento centrale anche in Achebe, come vedremo), mette già in crisi le certezze che in genere separano il giorno dalla notte: la luna permette di avere luce nelle tenebre e di creare chiaroscuri inaspettati. Siamo nella scena in cui il protagonista, Wilthshire, un mercante inglese trasferitosi a Falesà (presumibilmente un’isola del Pacifico, di pura invenzione stevensoniana), ha appena trafitto con due coltellate il suo nemico, Case, un farabutto mercante inglese, elegante e spregiudicato, vestito a pyjama a strisce e cappello di paglia in testa, il cui nome, come ricorda l’autore, può voler dire straniero, straordinario, ma anche “mela marcia”. Quest’ultimo ha raggirato Wilthshire facendogli sposare un’indigena senza dirgli che era stata dichiarata tabù dalla comunità, dunque inavvicinabile, allo scopo di danneggiarlo economicamente e sottrargli clienti. Aveva ingannato inoltre tutti gli abitanti di Falesà, prendendosi gioco di loro con meschini trucchi da prestigiatore a scopi commerciali, fabbricando marionette nel bosco e spacciandole per spiriti maligni. La sua morte in seguito ad una lite violenta avviene in una scena in cui i personaggi non sono solo Case e Wilthshire, ma c’è anche Uma, la donna tabù, venuta a soccorrere il marito, che le aveva dichiarato a sua volta fedeltà e amore. Se l’atteggiamento di Wilthshire verso i nativi è sempre di sprezzante superiorità, quando si rende conto di aver sposato Uma con un certificato di matrimonio falso, redatto da Case, l’uomo si vergogna profondamente. E’ solo il contrasto tra la falsità della sua proposta di matrimonio e l’autenticità delle emozioni che prova per la donna a far traballare le sue certezze e a fargli difendere i nativi, fino a contaminarsi con loro, come in una danza. Ed è proprio Uma, straniera a Falesà a sua volta, proveniente da un altro villaggio, a creare turbamento: «Nulla mi era apparso così vicino come quella ragazza bruna» (Stevenson 1982: 1387), dichiara sorpreso Wilthshire. Per comprendere i kunaka, ossia i polinesiani, il protagonista, che pure viene descritto come un bianco rozzo e semianalfabeta, orgoglioso della sua origine britannica, capisce che occorre tornare a quando si aveva dieci o quindici anni, adottare dunque la lente del regard d’enfant (o per meglio dire lo sguardo adolescenziale) che permette di entrare in contatto con la parte più profonda e vera di noi stessi. Ecco come si era rivolto ai nativi all’inizio del romanzo:

“Bene, da me non caveranno tanti bonjour”, dissi. “riferite loro chi sono: un bianco, un suddito britannico e un gran capo del mio paese; che sono venuto qui per fare loro del bene e portare la civiltà; ma che appena ho messo su bottega mi hanno fatto tabù e nessuno osa avvicinarsi a casa mia! […] Loro non hanno né un vero governo, né specifiche leggi, ecco quel che dovete inculcare nelle loro capocce; e anche se le avessero, sarebbe ridicolo pretendere di applicarle all’uomo bianco. Sarebbe buffo che venissimo da tanto lontano per non fare poi quel che ci pare e piace (Stevenson 1982: 1380-1381).

Il mondo dei bianchi è descritto da Stevenson come corrotto, pieno di loschi traffici di fucili e liquori, truffe e raggiri, bottiglie di gin. Anche i missionari sono messi in ridicolo, evidenziando il contrasto tra cattolici e protestanti e il loro ruolo nei conflitti per il potere e la supremazia morale sulla comunità del villaggio. E tuttavia il racconto rivela due zone d’ombra. Da un lato il pastore del luogo Namu dichiarerà: «Case è la mia scuola» (Stevenson 1982: 1400), rivelando il fascino che lo straniero – il bianco– poteva rivestire per un indigeno e la voglia di imparare che i nativi avevano, anche a costo di giungere a compromessi. Dall’altra, lo stesso protagonista non perderà mai l’ambivalenza nei confronti delle popolazioni polinesiane: concluderà dicendo che sì, Falesà è il luogo in cui ha gettato l’àncora con moglie e figlie, abbandonando il suo antico proposito di aprire una taverna in Inghilterra, ma:

[…] quel che mi preoccupa sono le ragazze. Sono solo delle meticce, è ovvio, lo so quanto voi, e non c’è nessuno che tenga in minor conto le meticce di me; eppure sono mie ed è il meglio che ho. Non riesco ad assuefarmi all’idea che vadano in moglie a dei kanaka ma dove vado a scovare dei bianchi? (Stevenson 1982: 1442)

Pur continuando ad essere ambivalente verso i polinesiani e affermando la sua superiorità razziale, il protagonista rivela tuttavia in tutto il racconto una sensibilità e un’onestà di sentimenti che lo distinguono dagli altri bianchi. Wilthshire realizza una contaminazione di culture che sopravvivono in un movimento di circolarità e compresenza, che rende familiari anche credenze superstiziose, cui Uma doveva credere per non essere ritenuta pazza dalla sua gente e verso le quali alla fine egli assumerà uno sguardo benevolo.

Lo sguardo di Stevenson è in realtà quello dello scozzese che ha vissuto il contrasto tra gli Highlander celtici e selvaggi e i Lowlander anglicizzati e civilizzati: il mondo polinesiano, per lo scrittore, dunque, è lo specchio di contrasti già conosciuti in patria.

Tuttavia, il limite di Stevenson, come ricorda la critica (Ambrosini 2001: 343), è quello di aver approfondito poco nei racconti il punto di vista dei nativi. Pur avendo reso problematica l’immagine idealizzata dell’uomo bianco e quella deformata degli isolani, di cui studiò lingua e tradizioni, non riuscì a restituire la psicologia di quella popolazione, anche a causa dei limitati sviluppi dell’antropologia vittoriana, secondo la quale i popoli sottomessi agli europei appartenevano al gradino più basso della civiltà, che li avrebbe portati ad un percorso di evoluzione lineare verso il progresso occidentale. Il fallimento di questa concezione antropologica inizia ad avvertirsi e vacillare quando anche l’Occidente scopre i suoi “diavoli in patria”, come direbbe Uma, producendo terribili rappresentazioni sul doppio, come quella di Dorian Gray (1890), di Mr Hyde (1886), di Dracula (1897). Accadeva, infatti, che, mentre in Europa si diffondeva l’idea dei colonizzati come esseri irrazionali, dediti alla magia e alla stregoneria, proprio negli anni in cui Stevenson scriveva, aveva inizio la pratica del mesmerismo, fenomeno che tanto preoccupò l’Académie des Sciences: Mesmer, rifacendosi all’antica pratica dell’esorcismo, istituiva strane pratiche collettive in cui i partecipanti al rito, prendendosi per mano, sottoposti all’influsso delle stelle, davano inizio ad una crisis, con attacchi di urla e pianto, per ristabilire l’equilibrio e allontanare le malattie. Varianti che ebbero credito nella società furono il sonnambulismo e l’ipnotismo. In quel periodo di scoperte scientifiche e espansioni imperialistiche si faceva strada, in sostanza, anche in Occidente, l’idea dell’esistenza di parti irrazionali dell’uomo. 

«La luna uccide la gente?»

Ad una crisi interiore è condotto anche uno dei protagonisti della nostra seconda storia, il sommo sacerdote Ezeulu, intermediario tra il dio Ulu e la comunità degli uomini Igbo in Nigeria: alla fine del romanzo la magia da cui era stato protetto in battaglia con i bianchi lo abbandona senza preavviso, lasciandolo solo e impotente, uomo tra gli uomini. Il suo co-protagonista, il colonnello Winterbottom, soprannominato “distruttore di fucili” dalla gente del posto, disinteressato alle usanze degli africani e indignato dalla loro crudeltà, si innamorerà della dottoressa che lo ha in cura e continuerà ad esercitare il suo potere.

La freccia di Dio ha una “doppia focalizzazione”, cui corrispondono due diversi registri linguistici. Il narratore Achebe mostra, infatti, sia il punto di vista degli africani che quello dei bianchi colonizzatori, ambientando la storia nei primi anni del Novecento, all’epoca in cui gli insediamenti britannici si andavano consolidando.

Lo scenario che si delinea in questa forzata convivenza tra bianchi e nativi è quello del sovvertimento dei paradigmi locali: la comunità di cui è sacerdote Ezeulu è formata da sei diversi clan, in lotta tra loro per la terra: sarà il bianco arrivato da lontano a separare e disarmare i clan, fingendo di portare la pace nel territorio e in realtà imponendo così la sua egemonia. La quiete tra villaggi è resa possibile solo grazie all’intervento di un altro attore sociale, che in realtà è in lotta con tutti i clan e ambisce a detenere il potere attraverso la strategia del divide et impera. […]

Leggi l’intero articolo, facendo il download del numero di YM dedicato al conflitto.
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[i] Viktor Borisovič Šklovskij (San Pietroburgo, 24 gennaio 1893Mosca, 6 dicembre 1984) è stato uno scrittore e critico letterario russo. Fece parte del gruppo dei “Formalisti Russi”, un insieme di critici letterari interessati alla struttura delle narrazioni, di cui face parte anche V. Propp, che studiò i meccanismi narrativi alla base della fiaba. Il contributo più interessante di Šklovskij fu la teorizzazione del concetto di “straniamento”, un procedimento letterario che consiste nel mostrare la realtà abituale come se la si vedesse da stranieri, per la prima volta.

Silvia Potì ha studiato Psicologia e Letteratura. Ha vissuto a Lecce, Roma, Parigi e Bologna. Dopo aver discusso una tesi di Dottorato in Psicologia Clinica, ha ottenuto una borsa di perfezionamento all’École des hautes études en sciences sociales, presso il Laboratoire de Psychologie Sociale -Centre Edgar Morin di Parigi. E’ autrice di articoli scientifici e contributi in opere collettanee nel campo della psicologia clinica e sociale e della critica letteraria. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e lavora come psicologa clinica a Lecce.

 

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