Maurizia Pierri
1. Il tema delle tutele di genere è prioritario nell’agenda politica nazionale ed internazionale da molti anni: si ritiene necessario un cambiamento di prospettiva su vari fronti, transessualità, matrimoni, adozioni, libertà di opinione e via di seguito. Spesso ed erroneamente si ritiene che le politiche di genere, siano politiche in favore delle donne. Il fraintendimento può essere spiegato dalla parziale sovrapposizione delle rivendicazioni ma sarebbe opportuno riflettere anche sulle differenti richieste di garanzia.
Il termine gender, che spesso viene impiegato in alternativaa sex, come se fosse un suo equivalente, è stato utilizzato per la prima volta dal sessuologo John Money nel 1955. A partire dagli anni ’70 ha conosciuto una significativa evoluzione semantica: mentre tradizionalmente si riferiva alle categorie grammaticali di “maschile”, “femminile” e “neutro”, successivamente si è contrapposto dialetticamente con il termine “sesso” e ha confinato quest’ultimo alla descrizione delle caratteristiche biologiche e fisiologiche dell’uomo e della donna.
Secondo Money, l’identità sessuale adulta non si risolverebbe nella conformazione del sesso alla nascita ma dipenderebbe dall’educazione e dunque dai processi di socializzazione. A differenza del sesso, il genere si riferirebbe a ruoli creati artificialmente, che una determinata comunità considera appropriati per un uomo e per una donna.
Le due declinazioni del gender, la gender identity ed il gender role, riassunte nell’acronimo G-I/R si riferiscono rispettivamente al ruolo che «an individual plays to identify itself as male or female» ed a:
all those things that a person says or does to disclose himself or herself as having the status of boy or man, girl or woman, respectively. It includes, but is not restricted to sexuality in the sense of eroticism. Gender role is appraised in relation to the following: general mannerisms, deportment and demeanor; spontaneous topics of talk in unprompted conversation and casual comment; content of dreams, daydreams.
In altri termini la “gender identity” costituisce l’esperienza personale del “gender role”, la consapevolezza intima di sé, a fronte della manifestazione pubblica della propria identità (Money, 1973: 397).
Le teorie di genere sono sintomatiche di una rivoluzione culturale che intende ridefinire i contorni della identità, disancorandola dal dato biologico che è prevalentemente binario. La prospettiva di queste teorie è la costruzione volontaristica del proprio io “disincarnato”, e il trapasso dalla differenza alla in-differenza sessuale nella etica sociale ed anche nel diritto.
La conseguenza più significativa della frattura tra la dimensione materiale e culturale che le teorie sul genere hanno provocato è la seguente: se il dato sessuale (biologico) è irrilevante o meglio è recessivo rispetto a ciò che l’individuo vuole e può diventare in funzione della sua storia, della cultura, della società ed inoltre della sua attitudine psicologica ed interiore, allora le differenze sessuali originarie (biologiche) cessano di essere rilevanti. È possibile che un individuo di sesso maschile possa divenire un uomo ed un individuo di sesso femminile possa divenire una donna ma è anche possibile che il dato corporale non corrisponda allo sviluppo psicologico ed al ruolo sociale che l’individuo assume nel tempo: Simone de Beauvoir sosteneva a tal proposito che “donne non si nasce, ma si diventa”. A fronte di una disforia di genere cioè a una condizione di disarmonia tra “l’aspetto fisico ed il vissuto di genere”, l’individuo può scegliere di costruirsi una identità di genere alternativa ovvero di adattare, con gli opportuni interventi medici, il dato corporale a quello psichico.
Le gender theories post–moderne e decostruzioniste, ovvero le post-gender, le trans gender e le multi gender theories vanno ancora oltre. Ritengono che la sessualità sia un ventaglio di possibilità che spaziano dal maschile al femminile e che possano essere declinate su relazioni etero ed omosessuali ma anche bisessuali. Infine, le cd. queer theories considerano la diversità (che il termine queer connota in senso dispregiativo) un canone comportamentale: da qui l’elogio delle pratiche sessuali tradizionalmente ritenute immorali e spregevoli come il sadomasochismo ed il bondage.
Appare dunque chiaro, che il termine gender può difficilmente sovrapporsi al termine sesso, costituendone anzi una alternativa. Il primo (in latino genus, in greco ghenos, che significano razza, famiglia o specie) è intriso di implicazioni biologiche: è “la realtà materiale dell’aspetto biologico” che influenza in modo sensibile la condizione di uomini e donne, diversi per capacità e debolezze. Influenza anche il diritto. Infatti il conflitto tra natura e ambiente, si ripropone inizialmente all’interno del dibattito sul contenuto del principio di uguaglianza sostenuto dalle femministe e, successivamente, sui diritti delle persone LGTB, acronimo che riassume le categorie di Lesbian, Gay, Transexual e Bisexual. Il rapporto tra sesso e genere, tra aspetto biologico e sociale ha interessato molto il movimento femminista, che ha rintracciato il seme della discriminazione tra sessi nella «trasformazione del dato biologico in differenze di ruoli e in differenze sociali». Quelle differenze, giustificate nella società pre-moderna dal condizionamento subito dalle donne a causa delle continue gravidanze e dai conseguenti obblighi di cura verso i neonati, nella società moderna non «possono più spiegare le evidenti differenze tra partecipazione maschile e femminile alle attività produttive e riproduttive».
Il dibattito femminista sulla uguaglianza/differenza tra uomo e donna è tutt’altro che sopito. Ha anzi avuto una forte influenza sulle teorie giuridiche contemporanee, contribuendo ad arricchire le varie correnti postmoderne del diritto ed imponendo una nuova prospettiva ermeneutica.
In una prima fase il movimento femminista, nelle sue diverse articolazioni, ha combattuto per emancipare la condizione di oppressione sociale della donna attraverso il riconoscimento della sua uguale dignità rispetto all’uomo. È questa la fase del femminismo egualitario, della vindication of equality of power, dignity and esteem. Sono emerse tuttavia due diverse riflessioni: da un lato la constatazione dei limiti dell’uguaglianza formale, dall’altro la presa d’atto della crisi del modello “assimilazionistico”, che tendeva ad annullare le specificità femminili. La lotta per il riconoscimento di garanzie calibrate sull’uomo-maschio, poteva avere l’effetto di appiattire le differenze su uno standard di diritti omologato alle esigenze dell’uomo e dunque inappropriato.
Il movimento femminista ha reagito alla consapevolezza del rischio della omologazione valorizzando il principio di differenza, espresso in due teorie, una “debole” ed una “forte”. La prima ha affermato la necessità di integrare l’uguaglianza meramente formale con quella sostanziale che è sensibile alle differenze di fatto: queste ultime giustificano l’individuazione di un catalogo di diritti esclusivi e speciali per le donne ed il riconoscimento di un loro particolare statuto giuridico. I diritti civili e politici delle donne, per essere accessibili “nei fatti” devono infatti essere integrati da diritti sociali che tengano conto delle peculiarità femminili: la differenza è diventata conseguentemente pretesa di uguaglianza sostanziale. Si inseriscono in questo solco, di matrice rawlsoniana le specifiche garanzie riconosciute alla donna da alcune costituzioni europee, come l’art. 6, comma 4 della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania e l’art. 37 della Costituzione italiana. Quanto più la donna acquisisce diritti sociali, tanto più ha la concreta possibilità di partecipare alla vita politica e sociale di una comunità. La seconda teoria, della differenza “forte” (accolta soprattutto in Francia ed in Italia) implica la pretesa del riconoscimento di diritti “esclusivi” alle donne proprio in ragione della loro diversità sessuale. Le particolarità biologiche femminili giustificano la disparità giuridica rivendicata in luogo della pari uguaglianza, che avvilirebbe la soggettività giuridica della donna. La prospettiva è non tanto quella di emancipazione ma di liberazione della donna. L’ordinamento giuridico deve garantire la differenza sessuale ed infatti tale principio viene richiamato nella rivendicazione di vecchi e nuovi diritti: quelli, ormai sedimentati, inerenti all’inviolabilità del corpo femminile e quelli emergenti o di quarta generazione alla contraccezione, all’aborto, all’accesso alla maternità tramite le tecnologie della fecondazione assistita, alla riproduzione anche a prescindere dall’unione sessuale con un partner, infine alla scissione della procreazione dalla gestazione (ipotesi dell’utero in affitto) e della riproduzione dalla fecondazione (ipotesi della autofecondazione e della clonazione).
L’insistenza sul tema della differenza, proprio della seconda ondata “differenzialista” del movimento femminista che si colloca negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, ha ceduto il passo nel confronto con le teorie sul “genere” pocanzi accennate, e con le correnti post-moderniste e decostruzioniste. A partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti si è infatti sviluppata un’ala radicale del femminismo, all’interno della quale le gender theories hanno trovato l’ambiente ideale per sviluppare le proprie potenzialità innovative. La nuova agenda del pensiero femminista, in linea con le aspettative dei movimento per i diritti degli omosessuali, ha assunto come obiettivo prioritario il raggiungimento dell’equality esclusivamente in termini di social power, di empowerment. In tale prospettiva il dibattito sui diritti delle donne si è consumato negli ultimi anni intorno alla richiesta di affirmative actions (azioni positive) che favorissero l’accesso delle donne alle cariche politiche. Il pensiero femminista radicale si oppone apertamente al pensiero occidentale moderno di matrice illuminista, incarnato dalle teorie kantiane che presumono di poter individuare principi universali assoluti. Esso contesta la fiducia nella capacità della ragione di cogliere la verità, aderisce ad una visione post-moderna, decostruzionista e relativista della realtà e rigetta il paradigma della mono-soggettività dell’essere umano. Il concetto stesso di “natura umana” viene contestato e conseguentemente la categoria dei diritti umani.
Il nesso tra i movimenti culturali femministi e la teoria giuridica è evidente negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni Sessanta, ha infatti preso forma una teoria femminista del diritto che si prefigge l’obiettivo di mettere in luce l’assetto patriarcale della società.
La teoria giuridica femminista ha assorbito, dalla metà degli anni Ottanta, l’influenza del postmodernismo, liberandosi definitivamente del modernismo giuridico per evitare qualunque tentazione universalista: per le femministe postmoderne non vi è nulla di essenziale che accomuni le donne, anzi occorrerebbe valorizzare le differenze multiculturali dei vissuti femminili e distruggere gli stereotipi sessuali.
2. Questo orizzonte di senso riconosce uno spazio all’identità femminile? La risposta è problematica.
Ad una prima osservazione sembra che il concetto di “donna”, sia oggetto di un processo di smaterializzazione e de-naturalizzazione che ne ha eroso i contenuti. Infatti il progetto di neutralizzazione sessuale, in opposizione ad una tradizione culturale etero-centrista, non solo ha messo in dubbio l’esistenza di una identità femminile correlata alla sessualità anatomica, ma ha negato alla donna l’appartenenza al genere umano.
Il principio secondo il quale la “natura umana” sia escludente e non includente l’essenza femminile è quanto meno controvertibile. L’evoluzione della tutela dei diritti delle donne può infatti essere assunta ad archetipo dell’evoluzione, più generale, dei diritti umani, poiché ne condivide il legame con la nozione di “dignità”. Quest’ultima deve essere intesa nella versione “laica”, espressa da Kant nella Metafisica dei costumi come il diritto dell’essere umano (uomo e donna) a non essere mai considerato come un semplice mezzo ma solo e sempre come un fine. È questa la nozione di dignità umana che il diritto ha assorbito e che include qualunque essere umano, a prescindere dalle sue caratteristiche biologiche.
L’altro dato discutibile riguarda la negazione dei diritti “sessuati”, considerati troppo legati a categorie universali e a diversità biologiche. Il rigetto di quei diritti, combinandosi con le teorie di genere ed il pensiero post-moderno, ha condotto alle estreme conseguenze sia il primato della volontà (intesa come diritto alla autodeterminazione) che quello del libero consenso. Ciò è paradossale perché nonostante il movimento femminista radicale abbia contestato i fondamenti del pensiero liberale, ne ha di fatto adottato la prospettiva, puntando sul dominio dell’un-encumbered self, cioè di una individualità priva di vincoli, responsabile solo nei confronti di se stessa e disposta a riconoscere la libertà di scelta come unico valore universale. In altri termini, gli strumenti propri del modernismo giuridico (logica e concetti) vengono utilizzati «per contestare la visione politica radicata nelle dottrine dello stesso pensiero giuridico». Per di più, sempre in contraddizione con i propositi relativisti, la teoria femminista del diritto ha cercato di individuare una essenza universale, sia pure individuandola in un metodo (quello dell’analisi delle singole esperienze femminili) più che in una caratteristica in qualche modo riconducibile alla identità sessuale biologica.
Sotto il profilo strettamente giuridico, occorre poi osservare che, mentre a livello comunitario ed internazionale sia evidente la tendenza a superare il concetto di soggettività giuridica in termini bipolari, il diritto interno sia ancora legato ad una impostazione “sessuata”. L’art. 37 della Costituzione italiana riconosce alla donna il diritto di svolgere la sua peculiare funzione familiare e lo stesso art. 29, nella lettura che ne ha dato recentemente la Corte costituzionale, rinvia ad un concetto di matrimonio e di famiglia certamente non cristallizzato ma comunque legato alle trasformazioni dell’ordinamento ed alla evoluzione della società e dei costumi. Se il diritto non vuol portare avanti crociate egalitarie disancorate dalla realtà è necessario che si confronti con il tessuto sociale e l’esito di questo confronto è tutt’altro che scontato. Dati anche molto recenti dimostrano che la condizione delle donne sia discriminata, che l’attuazione dei diritti sessuati sia lontana dall’essere realizzata, tanto da far apparire le battaglie sui diritti di genere come elitarie.
Ma l’aspetto forse più discutibile della gender theories sta proprio nella sua prospettiva iper-relativista che configura come prioritari i diritti culturali e nega la categoria dei diritti umani: il rischio è l’indebolimento delle battaglie femministe in contesti culturali e sociali sfavorevoli alle donne. Contesti in cui l’identità femminile sessuata è tutt’altro che indifferente, rappresentando drammaticamente il discrimine tra l’esistere e il non esistere.
Riferimenti bibliografici
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Califia, P. 1981. Feminism and Sadomasochism.Heresies #12, Sex, Issue 3, no. 4
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Money J., 1973, Gender Role, Gender Identity, Core Gender Identity: Usage and Definition of Terms. Journal of American Academy of Psychoanalysis, 1: 397-402
Ruspini E, 2003. Le identità di genere. Roma: Carocci.
Sandel, M.J. 1984. The procedural Republic and the unencumbered self. Political Theory, Vol. 12, 1: 81-96.
Vaccaro S., M. Coglitore. 1997. Michel Foucault e il divenire donna. Milano: Mimesis Edizioni
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Maurizia Pierri, dal 2010 è professore aggregato di diritto pubblico comparato dell’Università del Salento. È dottore di ricerca in Sistemi giuridici e politico-sociali comparati ed esperto di servizi pubblici per l’attività di consulenza svolta presso la Commissione di garanzia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. È autrice di monografie e saggi sui temi della democrazia deliberativa, del federalismo, del welfare e della tutela delle categorie svantaggiate.
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