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Il cibo dell’assenza

In credere, teologia on 8 May 2020 at 7:22 PM

Loredana Zolfanelli

 

Forse adesso sopraggiunge l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare (R. Barthes)

Quando R. A. Alves scriveva Parole da mangiare[1] aveva ben presente l’intimo legame delle parole con il cibo e della capacità dell’uomo di trasformare ciò che è crudo in cotto, mutando la realtà in sogno.
Teologo, poeta, psicanalista, ma soprattutto profeta del bello, Alves nelle pagine citate tenta di delineare la gestazione e la sostanza delle parole, esplorando le possibili variazioni sul tema e immergendosi nel silenzio primordiale, quello in cui tutto è stato portato ad esistenza con l’irrompere sulla scena della Parola creatrice[2], come fosse una poesia recitata davanti al Vuoto.

Ma c’è Vuoto e vuoto; c’è quello in cui si muove il ragno che inaugura il suo universo, danzando su esili fili di una ragnatela, e c’è il vuoto dinnanzi al quale l’uomo trema e scivola quando fa capolino l’assurdo. Ed è proprio allora che le parole, come funi sospese, gli vengono in aiuto come reti di protezione e di connessione con l’altro[3].
Viviamo il tempo della coabitazione delle parole e del silenzio: viviamo immersi in scenari contraddittori, di strade silenziose e appartamenti affollati da suoni, gesti e parole. Dentro il rumore, fuori il silenzio.
Ma è davvero così?

Sentiamo, in questa quotidiana privazione delle relazioni, che le parole sono le sole a infonderci la speranza del domani; parole veicolate ovunque e con ogni mezzo. Quante sillabe, suoni, rumori, siamo in grado di produrre pur di non sostare e ascoltare quel silenzio che ci abita, fedele custode dell’indicibile che è in noi. In questa sospensione della realtà, scegliamo di affidarci alle parole, rassicuranti testimoni del nostro esistere qui e adesso. In questo tempo dai contorni indefiniti, esse ci traghettano un po’ più in là, oltre questa cortina di dolore e incertezza che avvolge la quotidiana periferia del nostro esistere.
Eppure le parole sono territori instabili, inaffidabili vocalizzazioni del nostro sentire, inadatte a raggiungere la vertigine e la pienezza della profondità del silenzio, quella dimensione capace di ri-creare in noi la quiete della bellezza.

Il silenzio assomiglia a quella carezza che aspettavamo da tempo. Sopraggiunge lieve quando le parole hanno il fiato corto davanti alle cose grandi della vita: come quando siamo chiamati a fronteggiare un dolore, l’abbandono o la perdita di una persona cara; ma anche quando facciamo l’esperienza della meravi­glia e dello stupore di fronte alla bellezza.
Sopraggiunge alato il silenzio, complice della nostalgia del non detto, araldo di una dimensione altra che è oltre il tempo presente. Il silenzio evoca l’assenza. Esso è nostalgia di un desiderio che ha il sapore dell’attesa.

Ricordo il film Il grande silenzio[4], pellicola documentario girata nella Grande Certosa nei pressi di Grenoble sulla vita dei monaci certosini, scandita da molto silenzio, pochi dialoghi, intensa preghiera, canto e lavoro. Un film ipnotico, immerso in uno spazio di silenzio quasi estremo, anche quando si condivide la mensa.
Silenzio, preghiera, lavoro, cibo, parole centellinate: eppure in tutto questo non manca il sapore della relazione. Penso alla preghiera: essa è dialogo e desiderio di intimità con il Mistero, sia che si tratti di accorata adorazione del Verbo, sia che intoni una lode polifonica. Preghiera: nostalgia dell’Altro.
E poi il cibo: anche questo è variazione sul tema della relazione. Esso è nutrimento, come le parole, quando sprofondiamo nel buio della solitudine e dello scoramento; è relazione quando inaugura la festa e diviene motivo di condivisione e cura dei desideri dell’altro.
Se, come affermava L. Feuerbach “siamo quel che mangiamo, è ragionevole concludere che cibo e parola sono intimamente legati; e nel corso della vita parlare è un modo altro di mangiare; il cibo diviene sostituto del non detto, ma anche realizzazione del sogno e del desiderio. Ma in Alves è nella teologia che questo legame parola-carne trova il suo compimento: la Parola che irrompe sulla scena all’inizio della creazione anticipa quel cibo di vita eterna che si è donato a noi con un sospiro d’Amore.[5] L’amore: ecco infine l’ingrediente che consente alle parole di farsi corpo.

In questo tempo siamo come acrobati sospesi tra un passato ancora troppo vicino, e per questo non leggibile, e un futuro difficile da decodificare. Le relazioni soffrono l’assenza dei corpi e le parole, con le immagini, sono esse stesse il tentativo di colmare una distanza non desiderata ma imposta. A ben pensarci, questo tempo celebra l’elogio dell’assenza e del distanziamento fisico in tutte le sue declinazioni. Sociale, affettivo, lavorativo, liturgico.
Ci nutriamo di parole impalpabili ed evanescenti, mettendo in parentesi il gesto. La carezza, la stretta di mano, l’abbraccio sono diventati il vero cibo assente alla nostra mensa, vuota di desideri e di sogni. E allora ci viene ancora incontro la ricetta di Alves: forse dovremmo tornare in cucina, luogo utopico in cui avviene la trasformazione di ciò che è crudo (la realtà) in cotto (i sogni), attraverso il calore del fuoco (i desideri, l’immaginazione, l’amore)[6].

Adamo ed Eva (1526) Lucas Cranach il Vecchio

Abbiamo sospeso i desideri, e lo sguardo verso un orizzonte più ampio si è oscurato; ci siamo riscoperti nudi e fragili come nel giardino della creazione. Ma non resteremo a lungo senza luce: nel libro della Genesi ( 3, 21), Adamo ed Eva, cacciati dal giardino per aver tradito l’alleanza con Dio, furono rivestiti di tuniche di pelle. Pelle in ebraico si dice aor; ma questa parola ha anche il significato di “luce”. In quel momento, Dio rivestì Adamo ed Eva della sua stessa luce, avvolgendo la loro fragilità della sua stessa dignità; e questa è per noi una nota di speranza. Questa primordiale esperienza della fragilità, che noi viviamo senza apparente possibilità di nascondimento, ci ha tuttavia rivelato che è proprio il limite ad aprirci alla trascendenza; è questo il tempo della piena umanizzazione e del compimento. Forse dovremmo provare a camminare in questo deserto con la consapevolezza che da qualche parte esso cela un giardino; forse potremmo provare a non rimandare la vita, ma a superare i muri visibili che questa pandemia ha eretto ed elevare lo sguardo verso le stelle; tornare a ripensare alle nostre relazioni, condirle di parole, silenzi e gesti che abbiano il sapore della verità, che è visibile nel silenzio solo con gli occhi dell’amore.

Forse questo è il tempo di disimparare, di prendere il largo dai nostri schemi segnati da una sterile ripetizione, che opacizzano i giorni e ci fanno desistere dalla realizzazione della grandezza che è in noi. Martin Buber ne Il cammino dell’uomo[7] afferma che Adamo sfugge alla responsabilità del proprio cammino particolare (suo proprio) con ogni sorta di congegno di nascondimento, scivolando inesorabilmente nella inautenticità della propria esistenza. Solo quando si fermerà davanti alla voce che gli domanda: Dove sei?[8] egli ammetterà di essersi perduto; ma sarà proprio questa presa di coscienza – mi sono nascosto – a restituirlo alla propria autenticità e pienezza. Solo rispondendo alla domanda che interpella ognuno di noi, in ogni momento e lì dove ci troviamo, sarà possibile tornare al proprio sé, non come meta definitiva, ma come punto di inizio di un viaggio verso la riva dell’altro.

 

 

Bibliografia minima

Alves R.A., Parole da mangiare. Qiqajon edizioni. Comunità di Bose, 2008

Buber M, Il cammino dell’uomo. Qiqajon edizioni. Comunità di Bose

Bibbia Cei, Libro della Genesi capp.1- 2-3

 

Note

[1] R. A. Alves, Parole da mangiare, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, 2008

[2] Ivi p.51 “Cristologia: una poesia recitata davanti al vuoto…e io immagino che si possa riscrivere il Prologo del Vangelo di Giovanni”.

[3] Ivi p.12: “la realtà umana è fatta di parole. In principio era il Verbo. …Mi chiedo se Nietzsche non fosse intento ad osservare un ragno quando disse: l’uomo è una fune su un abisso (PN126)

[4] Die Große Stille, di Philip Gröning, 2005

[5] Prologo del Vangelo di Giovanni, Il Verbo si fece carne (Gv 1, 14)

[6] Ivi p.114,115 “Esiste una metafisica del cibo, forse inaccettabile per un filosofo (per lui la realtà è il crudo); esiste una transustanziazione del crudo in una nuova sostanza.”

[7] M. Buber, Il Cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon. Comunità di Bose

[8] Genesi 3, 9 e ss.

  1. […] innanzitutto un’educazione all’assenza. Non per creare un’abitudine nuova e malsana, ma per insegnare la differenza tra avere e non […]

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