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Il cibo dell’assenza

In credere, teologia on 8 May 2020 at 7:22 PM

Loredana Zolfanelli

 

Forse adesso sopraggiunge l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare (R. Barthes)

Quando R. A. Alves scriveva Parole da mangiare[1] aveva ben presente l’intimo legame delle parole con il cibo e della capacità dell’uomo di trasformare ciò che è crudo in cotto, mutando la realtà in sogno.
Teologo, poeta, psicanalista, ma soprattutto profeta del bello, Alves nelle pagine citate tenta di delineare la gestazione e la sostanza delle parole, esplorando le possibili variazioni sul tema e immergendosi nel silenzio primordiale, quello in cui tutto è stato portato ad esistenza con l’irrompere sulla scena della Parola creatrice[2], come fosse una poesia recitata davanti al Vuoto.

Ma c’è Vuoto e vuoto; c’è quello in cui si muove il ragno che inaugura il suo universo, danzando su esili fili di una ragnatela, e c’è il vuoto dinnanzi al quale l’uomo trema e scivola quando fa capolino l’assurdo. Ed è proprio allora che le parole, come funi sospese, gli vengono in aiuto come reti di protezione e di connessione con l’altro[3].
Viviamo il tempo della coabitazione delle parole e del silenzio: viviamo immersi in scenari contraddittori, di strade silenziose e appartamenti affollati da suoni, gesti e parole. Dentro il rumore, fuori il silenzio.
Ma è davvero così?

Sentiamo, in questa quotidiana privazione delle relazioni, che le parole sono le sole a infonderci la speranza del domani; parole veicolate ovunque e con ogni mezzo. Quante sillabe, suoni, rumori, siamo in grado di produrre pur di non sostare e ascoltare quel silenzio che ci abita, fedele custode dell’indicibile che è in noi. In questa sospensione della realtà, scegliamo di affidarci alle parole, rassicuranti testimoni del nostro esistere qui e adesso. In questo tempo dai contorni indefiniti, esse ci traghettano un po’ più in là, oltre questa cortina di dolore e incertezza che avvolge la quotidiana periferia del nostro esistere.
Eppure le parole sono territori instabili, inaffidabili vocalizzazioni del nostro sentire, inadatte a raggiungere la vertigine e la pienezza della profondità del silenzio, quella dimensione capace di ri-creare in noi la quiete della bellezza.

Il silenzio assomiglia a quella carezza che aspettavamo da tempo. Sopraggiunge lieve quando le parole hanno il fiato corto davanti alle cose grandi della vita: come quando siamo chiamati a fronteggiare un dolore, l’abbandono o la perdita di una persona cara; ma anche quando facciamo l’esperienza della meravi­glia e dello stupore di fronte alla bellezza.
Sopraggiunge alato il silenzio, complice della nostalgia del non detto, araldo di una dimensione altra che è oltre il tempo presente. Il silenzio evoca l’assenza. Esso è nostalgia di un desiderio che ha il sapore dell’attesa.

Ricordo il film Il grande silenzio[4], pellicola documentario girata nella Grande Certosa nei pressi di Grenoble sulla vita dei monaci certosini, scandita da molto silenzio, pochi dialoghi, intensa preghiera, canto e lavoro. Un film ipnotico, immerso in uno spazio di silenzio quasi estremo, anche quando si condivide la mensa.
Silenzio, preghiera, lavoro, cibo, parole centellinate: eppure in tutto questo non manca il sapore della relazione. Penso alla preghiera: essa è dialogo e desiderio di intimità con il Mistero, sia che si tratti di accorata adorazione del Verbo, sia che intoni una lode polifonica. Preghiera: nostalgia dell’Altro.
E poi il cibo: anche questo è variazione sul tema della relazione. Esso è nutrimento, come le parole, quando sprofondiamo nel buio della solitudine e dello scoramento; è relazione quando inaugura la festa e diviene motivo di condivisione e cura dei desideri dell’altro.
Se, come affermava L. Feuerbach “siamo quel che mangiamo, è ragionevole concludere che cibo e parola sono intimamente legati; e nel corso della vita parlare è un modo altro di mangiare; il cibo diviene sostituto del non detto, ma anche realizzazione del sogno e del desiderio. Ma in Alves è nella teologia che questo legame parola-carne trova il suo compimento: la Parola che irrompe sulla scena all’inizio della creazione anticipa quel cibo di vita eterna che si è donato a noi con un sospiro d’Amore.[5] L’amore: ecco infine l’ingrediente che consente alle parole di farsi corpo.

In questo tempo siamo come acrobati sospesi tra un passato ancora troppo vicino, e per questo non leggibile, e un futuro difficile da decodificare. Le relazioni soffrono l’assenza dei corpi e le parole, con le immagini, sono esse stesse il tentativo di colmare una distanza non desiderata ma imposta. A ben pensarci, questo tempo celebra l’elogio dell’assenza e del distanziamento fisico in tutte le sue declinazioni. Sociale, affettivo, lavorativo, liturgico.
Ci nutriamo di parole impalpabili ed evanescenti, mettendo in parentesi il gesto. La carezza, la stretta di mano, l’abbraccio sono diventati il vero cibo assente alla nostra mensa, vuota di desideri e di sogni. E allora ci viene ancora incontro la ricetta di Alves: forse dovremmo tornare in cucina, luogo utopico in cui avviene la trasformazione di ciò che è crudo (la realtà) in cotto (i sogni), attraverso il calore del fuoco (i desideri, l’immaginazione, l’amore)[6].

Adamo ed Eva (1526) Lucas Cranach il Vecchio

Abbiamo sospeso i desideri, e lo sguardo verso un orizzonte più ampio si è oscurato; ci siamo riscoperti nudi e fragili come nel giardino della creazione. Ma non resteremo a lungo senza luce: nel libro della Genesi ( 3, 21), Adamo ed Eva, cacciati dal giardino per aver tradito l’alleanza con Dio, furono rivestiti di tuniche di pelle. Pelle in ebraico si dice aor; ma questa parola ha anche il significato di “luce”. In quel momento, Dio rivestì Adamo ed Eva della sua stessa luce, avvolgendo la loro fragilità della sua stessa dignità; e questa è per noi una nota di speranza. Questa primordiale esperienza della fragilità, che noi viviamo senza apparente possibilità di nascondimento, ci ha tuttavia rivelato che è proprio il limite ad aprirci alla trascendenza; è questo il tempo della piena umanizzazione e del compimento. Forse dovremmo provare a camminare in questo deserto con la consapevolezza che da qualche parte esso cela un giardino; forse potremmo provare a non rimandare la vita, ma a superare i muri visibili che questa pandemia ha eretto ed elevare lo sguardo verso le stelle; tornare a ripensare alle nostre relazioni, condirle di parole, silenzi e gesti che abbiano il sapore della verità, che è visibile nel silenzio solo con gli occhi dell’amore.

Forse questo è il tempo di disimparare, di prendere il largo dai nostri schemi segnati da una sterile ripetizione, che opacizzano i giorni e ci fanno desistere dalla realizzazione della grandezza che è in noi. Martin Buber ne Il cammino dell’uomo[7] afferma che Adamo sfugge alla responsabilità del proprio cammino particolare (suo proprio) con ogni sorta di congegno di nascondimento, scivolando inesorabilmente nella inautenticità della propria esistenza. Solo quando si fermerà davanti alla voce che gli domanda: Dove sei?[8] egli ammetterà di essersi perduto; ma sarà proprio questa presa di coscienza – mi sono nascosto – a restituirlo alla propria autenticità e pienezza. Solo rispondendo alla domanda che interpella ognuno di noi, in ogni momento e lì dove ci troviamo, sarà possibile tornare al proprio sé, non come meta definitiva, ma come punto di inizio di un viaggio verso la riva dell’altro.

 

 

Bibliografia minima

Alves R.A., Parole da mangiare. Qiqajon edizioni. Comunità di Bose, 2008

Buber M, Il cammino dell’uomo. Qiqajon edizioni. Comunità di Bose

Bibbia Cei, Libro della Genesi capp.1- 2-3

 

Note

[1] R. A. Alves, Parole da mangiare, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, 2008

[2] Ivi p.51 “Cristologia: una poesia recitata davanti al vuoto…e io immagino che si possa riscrivere il Prologo del Vangelo di Giovanni”.

[3] Ivi p.12: “la realtà umana è fatta di parole. In principio era il Verbo. …Mi chiedo se Nietzsche non fosse intento ad osservare un ragno quando disse: l’uomo è una fune su un abisso (PN126)

[4] Die Große Stille, di Philip Gröning, 2005

[5] Prologo del Vangelo di Giovanni, Il Verbo si fece carne (Gv 1, 14)

[6] Ivi p.114,115 “Esiste una metafisica del cibo, forse inaccettabile per un filosofo (per lui la realtà è il crudo); esiste una transustanziazione del crudo in una nuova sostanza.”

[7] M. Buber, Il Cammino dell’uomo, Ed. Qiqajon. Comunità di Bose

[8] Genesi 3, 9 e ss.

Se i profeti irrompessero

In credere, Letteratura, Poesia, teologia, Uncategorized on 5 March 2017 at 10:52 AM
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J. Ensor, L’entrata del Cristo a Bruxelles (1988) | Paul Getty Museum, Malibu

«Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
lo zodiaco dei demoni
come orrida ghirlanda
intorno al capo-
soppesando con le spalle i misteri
dei cieli cadenti e risorgenti
per quelli che da tempo lasciarono l’orrore

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
accendendo di una luce d’oro
le vie stellari impresse nelle loro mani
per quelli che da tempo affondarono nel sonno

Se i profeti irrompessero
Per le porte della notte,
incidendo ferite di parole
nei campi della consuetudine,
riportando qualcosa di remoto
per il bracciante
che da tempo a sera ha smesso di aspettare

Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria

Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini uccisi,
espirasse
l’aria bruciata da grida di martirio
se costruisse un ponte
con gli spenti sospiri dei vecchi

Orecchio degli uomini
attento alle piccolezze,
sapreste ascoltare?

Se i profeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità
se ti lacerassero l’udito con le parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca del cuore dell’amato,
notte degli uomini
avresti un cuore da donare?»

Nelly Sachs, Le stelle si oscurano, 1944-46.

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Nelly Sachs (1891 – 1970), poetessa e scrittrice tedesca, Premio Nobel per la letteratura nel 1966.

La fede di tutti

In credere, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 20 September 2015 at 5:50 AM

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Giovanni Scarafile

«Sa, spesso, durante le omelie, sento il bisogno di mettermi ad urlare», mi confessa candidamente Ermanno, un apparentemente pacato signore di mezza età, durante un lungo volo intercontinentale. «Non l’ho mai fatto», aggiunge sommessamente, decrittando la mia espressione preoccupata.

Ci sono dei momenti nella vita di un uomo – ragiona Ermanno – in cui si ha bisogno di parole calde. Non consolazioni a buon mercato, ma piuttosto la speranza che un senso nella vita possa esserci. Sì, è vero, ci sono gli psicologi che aiutano a cercare dentro di te. Ma questo può non bastare. No, di consulenza filosofica non ha mai sentito parlare. «A cosa alludi – siamo passati al tu molto rapidamente – esattamente?», gli ho infine chiesto.

«Sono un credente sui generis, Gianni. Sì, insomma, non sono mai stato un praticante in piena regola. Ma mi piace, mi è sempre piaciuto sentir parlare di Gesù. Quando accade, sento una pace dentro inimmaginabile altrimenti. E così, qualche volta, vado a sentire le omelie. Entro in una chiesa scelta a caso. Mi siedo come un qualsiasi fedele e aspetto che arrivi il momento giusto. Poi, ascolto. Beh, che ti devo dire? Mi scende il latte alle ginocchia. Non che io abbia gli strumenti teologici per giudicare il grado di preparazione di un prete. No, non è questo. È che non mi sento toccato. Mi chiedo come possa il commento della parola di salvezza non partecipare del senso di ciò che dovrebbe esprimere».

Mentre – annuendo – socchiudo gli occhi, tentando di capire se il mio interlocutore è un convertitore seriale in incognito, sento la mente inondarsi di ricordi della delusione provata a mia volta di fronte all’insipienza dell’ennesima predica “a vuoto”.

 

* * *

Quelle parole che splendevano luminose, «vangelo», «apostolo», «battesimo», «conversione», «eucarestia», sono state svuotate di senso o riempite di un senso diverso, banale e innocuo. «Buona cosa è il sale,» dice Gesù «ma se il sale perde sapore, con che cosa verrà salato?» [4].

 

È vero che stiamo assistendo ad un ritorno alla letteratura religiosa nell’attuale panorama editoriale? Numericamente, non direi. Il numero dei libri a contenuto religioso è infatti fin troppo esiguo anche solo per avviare qualsiasi verifica. Non si può, tuttavia, negare che alcuni libri recenti (Il Regno di Emmanuel Carrère, prima di tutto e poi anche Sottomissione di Michel Houellebecq, Giuda di Amos Oz, La ballata di Adam Henry di Ian McEwan) sollevino il problema del ruolo della religione nella nostra vita, come Lucetta Scaraffia [7] ricorda: «A cosa serve la religione? Quali sono le ragioni per cui val la pena vivere anche senza Dio? Come ci si può mettere al posto di Dio per decidere se una persona deve vivere o morire? Decisioni sempre più difficili e drammatiche, situazioni emotive sempre più dolorose pesano sulle spalle di persone che non sanno più come orientarsi, che hanno perduto ogni punto di riferimento che non sia la loro razionalità».

Si tratta, in realtà, di domande “inattuali”, destinate a non essere superate dalle mode passeggere e che, probabilmente proprio per questo, riaffiorano oggi, testimoniando la centralità della domanda di senso. Eppure, sembra che domanda ed offerta siano destinate a non incontrarsi. Non del tutto, almeno. Come segnalato dalle parole di Carrère ricordate all’inizio e dalla vana ricerca di Ermanno incontrato in aereo, le parole della fede sono inefficaci, spesso desuete, destinate nel migliore dei casi ad essere comprese appieno solo dagli addetti ai lavori.

L’aggiornamento dei contenuti (espressioni, ma anche gesti liturgici) della fede richiede competenze specialistiche, ovviamente. Tuttavia, da un punto di vista opposto, quella stessa attualizzazione dei contenuti della fede si sottrae ad una “esecuzione” riservata a pochi esperti. Essa, è, piuttosto, un compito universalmente rivolto a tutti i credenti. Non so, infatti, immaginare il motivo per cui ogni singola coscienza credente o, prima ancora, pensante, non dovrebbe essere interpellata in merito alla adozione di strumenti più appropriati per comunicare i dati fondamentali di un credo.

È strano, no? La fede è per tutti, è di tutti, non è certo una proprietà privata. Proprio per questo, dovrebbe essere formulata in un linguaggio ordinario comprensibile a tutti. In cosa crede chi crede se il linguaggio della fede è incomprensibile?

 

1. Le ragioni di una crisi

Le parole iniziali di Carrère parlano di una crisi. Ci sono – spiega lo scrittore francese – parole della massima importanza che, tuttavia, non sono più in grado di farsi comprendere da coloro cui sono destinate. In questi casi, ciò che viene meno non è tanto la possibilità di riferirsi alla realtà ordinaria indicata dalle parole che utilizziamo più spesso. No, nella misura in cui a perdere “peso” sono le parole fondamentali di una religione, ciò che rischia di venir meno è il grado di incisività dell’appello alla salvezza inizialmente veicolato da quelle parole.

Per rendersi conto del danno, è bene ricordare come ogni religione proponga ai suoi fedeli una via verso la pienezza del senso. Le vie possono essere diverse, a seconda delle religioni, sebbene non vi sia unanimità su tale assunto[1]. Nella molteplicità delle vie, il dato costante è comunque rappresentato dall’attestazione che il senso, molto spesso un senso ultraterreno, sia conseguibile o, prima ancora, che un senso vi sia. In questa vita, possono esserci molte cose di cui non comprendiamo appieno o non comprendiamo affatto il senso. Non importa, dice la religione. Questa eclissi del senso è solo una condizione temporanea, dovuta alla nostra natura mortale. Superata la fase delle mortalità, il senso del tutto potrà finalmente essere contemplato ed anzi, perché ciò accada, è bene che già in questa vita si adottino determinati comportamenti. Nel momento in cui le parole sono svuotate, come dice Carrère e molti altri al suo fianco, è la stessa dinamica di conseguimento del senso ad implodere. Ecco perché discutere dell’attualità del linguaggio religioso riguarda tutti.

 

2. La consunzione delle strutture segniche

Il nostro consueto comunicare è spesso accompagnato dal tacito convincimento che le parole di cui ci serviamo abbiano il potere pressoché eterno di riferirsi ai significati delle cose. In realtà, esse rappresentano forme di significazione “a tempo”. Rinviano a ciò che rappresentano, ma solo a determinate condizioni. La durata rappresenta una di queste condizioni: con il passare del tempo, i modi del dire diventano desueti.

Quando una parola non conduce più nei pressi di ciò che indica, ma anzi disorienta o lascia indifferenti, allora ci troviamo di fronte al fenomeno della consunzione delle strutture segniche. Nella vita di una parola, come si arriva a tale consunzione? La domanda è importante, perché se comprendiamo la genesi della consunzione possiamo sperare di trovarle un antidoto.

Nel corso della sua esistenza, una parola oscilla tra due poli: originalità e stereotipia.

Esiste, com’è noto, un serbatoio linguistico dentro il quale troviamo la gran parte delle parole di cui ci serviamo ogni giorno. Di solito, per dare un nome alle cose o alle situazioni, il nostro compito consiste nel combinare le parole esistenti oppure nel fare uso di espressioni linguistiche già preformate. La differenza tra il primo ed il secondo approccio è sostanziale.

Nel primo caso, nel processo di creazione o combinazione creativa di termini desunti dalla tradizione, noi facciamo appello alla parte più intima di noi, l’individualità essenziale. La parola o l’espressione che scaturisce è il risultato della nostra meraviglia di fronte a ciò che è da nominare. Si tratta di una esperienza fondante ed originaria che, non a caso, la tradizione di pensiero occidentale fa coincidere con l’inizio del senso.

Nel secondo caso, quella della parola prêt-à-porter, il ricorso all’individualità essenziale è ridotto al minimo. Si tratta, infatti, per lo più di mutuare e fare propria una parola o espressione già costituita. Ecco, dunque, i due poli cui accennavo. Sul primo versante, l’originalità di una espressione scaturita dalla parte più intima di noi stessi; sul secondo, la stereotipia inevitabile conseguente l’uso di «gettoni verbali» [8] convenzionali.

A questo punto, la fisiologia della parola è quasi del tutto determinata. Manca solo un ultimo passaggio. Infatti, una volta individuata, un’espressione linguistica non mantiene inalterato il suo potere di rinvio al significato. Tutt’altro. È possibile, anzi, riferire un naturale decadimento che accompagna la vita delle espressioni. Si tratta di una parabola discendente, che dal momento della nascita, acme della significatività, conduce fino all’insignificanza.

La dinamica della parola fin qui accennata ha conseguenze dirette per il nostro discorso. Infatti, proprio perché una parola non permane nella sua iniziale significatività, se non si vuole smarrire ciò cui essa rinvia, occorre che sia aggiornata, ovvero resa nuovamente adeguata al contesto. “Comunicare in tempo”, allora, significa avvalersi di strutture segniche non desuete, ma adeguate al contesto: i segni del mutamento richiedono un mutamento dei segni.

 

3. Tornare a cercare la verità

Le parole di Carrère, citate all’inizio, si riferiscono ad un caso particolarmente significativo di questo processo: come rendere di nuovo attuali, cioè incisive, vincolanti ed irrinunciabili, parole fondamentali della fede cristiana oggi considerate obsolete?

Prima di rispondere a questa domanda, occorre mettere in conto una scontata obiezione: ma come – si dice – non sono le parole del cristianesimo valide in eterno? Che bisogno c’è di “aggiornarle”? Oppure – si obietta – non si corre il rischio che con l’aggiornamento di quelle parole si relativizzi il loro significato?

L’assunto, molto spesso inconsapevole, su cui poggiano tali obiezioni è che le parole possano indicare in eterno, secondo una procedura già confutata nel paragrafo precedente. Consapevolmente o meno, infatti, si continua a ritenere che la lingua originariamente scelta per veicolare il cristianesimo sia immutabile, sottraendole quel carattere di storicità che invece ed incontrovertibilmente le appartiene. In aggiunta, si potrebbe ricordare con il gesuita Pierre Gibert [5] che «Già per le prime generazioni cristiane, quelle provenienti da un paganesimo saturo di racconti mitici quanto di cinici racconti di guerra e violenza, solo l’allegorizzazione di tutte le loro figure dava ad esse un senso conforme alla fede in Cristo».

Alle obiezioni appena richiamate, si dovrebbe rispondere, che è senz’altro vero che il messaggio di Cristo è eterno. Tuttavia, non è meno vero che tale messaggio, per essere efficacemente conosciuto ed applicato, deve essere espresso nella lingua degli uomini. È stato fatto così agli inizi del cristianesimo. Perché non dovrebbe essere così, oggi? O si vuole forse sostenere che sia meglio una fede abitudinaria in cui l’accesso al significato sia fondato sulla tradizione o sulle pratiche devozionali e non sulla Parola? O si vuole auspicare una fede basata sull’ossequio all’autorità e non sulla Parola? O si vuole difendere una fede fondata sulla paura di affrontare il proprio destino e non sulla Parola?

Si tratta allora di eliminare ogni possibile incrostazione (linguistica, ideologica o di altro tipo) per fare in modo che quel messaggio possa risuonare nel pieno della sua efficacia anche agli uomini di questo tempo. Senza necessariamente fare proprie tutte le sue tesi, basti qui ricordare che nel 1985 il Jesus Seminar[2] ha osservato che l’attribuzione dell’84% delle parole di Gesù non è fondata.

Ora, la sola eventualità che si continui a ritenere vero ciò che vero non è, dovrebbe spingerci, come credenti, ad intraprendere ogni sforzo perché questo genere di questioni possa essere almeno dibattuto.

Il mio timore è che una delle principali ragioni per cui questo non accada o non accada con la stessa forza con cui dovrebbe accadere secondo il buon senso, è che si è forsennatamente impegnati a gestire l’esistente. Inutile dirlo: la gestione dello status quo non sembra operazione di particolare assennatezza. Per intendersi: nell’ambito della vita ecclesiale, di fronte al rischio di credere in ciò che potrebbe essere non vero, si continua – come se nulla fosse – ad organizzare processioni e comitati feste patronali, a scendere nelle piazze per cantare in coro a squarciagola canti in cui Dio stesso è divenuto un oggetto di cui sbandierare il possesso o a fare il “trenino” – sì, anche questo – sulle note di “Ho visto Gesù Cristo, ho visto Gesù Cristo, eh mammà, innamorato sono”.

In questo scenario, nel migliore dei casi, nell’ambito della pastorale, la routine ha sostituito la ricerca della verità. Qualche tempo fa, il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong, sostenne che i membri del clero fossero impegnati a nascondere ogni conoscenza sul reale Gesù Cristo «per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale», concludendo che «Ogni divinità che ha bisogno di protezione nei confronti della verità, da qualunque fonte provenga, è già morta» [1]. Quella previsione, che comunque presupponeva un atteggiamento avveduto, critico e consapevole da parte del clero, sembra oggi fin troppo ottimistica. È difficile, a questo punto, non essere d’accordo con Ermanno, l’uomo dell’aereo: basta ascoltare la maggior parte delle omelie oggi per rendersi conto che il cristianesimo proposto ai fedeli sembra sprofondato in una sorta di melassa insapore.

 

4. La fede di tutti

In diversi momenti del suo libro, Carrère ricorda di non essere credente, pur essendolo stato. Questa sua condizione non lo legittima di meno a parlare della fede e della fede cristiana in particolare. Perché la fede e la fede cristiana, cioè la  proposta di un senso specifico per la vita dell’uomo, è fede di tutti. Non soltanto di un gruppo di uomini autorizzati a parlare perché in possesso di una particolare patente, ma di tutti.

Perché ciò accada, però, è necessario che si torni a proporre quei contenuti nel linguaggio degli uomini di questo tempo. Questo è il principale merito de Il Regno, anche quando sembra allontanarsi dalla ortodossia. Esso rimane comunque la testimonianza di un’anima in ricerca.

Nella sua opera, lo scrittore francese “offre se stesso” come materia di narrazione. Tale implicazione personale ha fatto parlare, forse un po’ enfaticamente, di «rito eucaristico» [2]. Tuttavia, ancor più che nei romanzi precedenti (uno su tutti, L’avversario), la scelta formale dello scrittore di implicarsi non è aliena dalla sostanza di ciò che è narrato. Questo mi sembra debba essere sottolineato. Attraverso tale espediente, si realizza ciò che Baumgarten [3] definiva «grandezza estetica», ovvero la perfetta corrispondenza ed adeguatezza tra pensieri ed oggetti. Il risultato è l’invito alla immedesimazione rivolto implicitamente al lettore: «Il lettore depone progressivamente le armi, non tanto sedotto dalla parola che non potrebbe dominare, ma perché sorpreso nel riconoscere se stesso in bagliori diversi […] che gli permetteranno di andare oltre per ritrovarsi un po’ più lontano, toccato personalmente» [5]. Tale merito è riconosciuto anche da Scaraffia: «Ma la domanda sulla resurrezione, fondamentale, è vera, e percorre tutto il libro a domandarci, a nostra volta, se ci crediamo veramente. Ci costringe a prendere atto che se ne parla pochissimo, perfino da parte della Chiesa stessa, come se fosse un argomento leggermente sconveniente» [7].

* * *

 

– «Quante volte nell’ultimo mese hai pronunciato la parola “misericordia” nei tuoi discorsi?». Intuendo dove conducessero le sue parole, ho esitato qualche istante prima di rispondere al mio interlocutore a 11000 metri d’altezza.

– «Mah… Nessuna, mi pare».

– «E non ti sembra un autogol che, per indicare un evento rivolto all’umanità intera come un anno santo, si sia fatto ricorso ad un termine obsoleto, del tutto caduto in disuso nel linguaggio ordinario? Usando parole da “addetti ai lavori” non si continua a vanificare la forza di una fede per tutti, della fede di tutti?»

 

 

Riferimenti bibliografici

  1. Adista documenti, n. 28 del 21/07/2012.
  2. Bajani, A. 2015. Storia di Gesù al filtro del proprio Io. Il Manifesto. 01.03.2015
  3. Baumgarten, A.G. 2000. Palermo: Aesthetica Edizioni
  4. Carrère, E. 2015. Il Regno. Milano: Adelphi
  5. Gibert, P. 2015. Da Lui a noi: qual è il «Regno» di Emmanuel Carrère?. La Civiltà Cattolica 3963-3964, pp. 308-317
  6. Intervento del cardinale prefetto Joseph Ratzinger In occasione della presentazione della dichiarazione “Dominus Iesus”, reperibile su: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000905_dominus-iesus-ratzinger_it.html
  7. Scaraffia, L. 2015. Nuovi romanzi ‘religiosi’. Sul ritorno del cristianesimo nella narrativa contemporanea. La Rivista del Clero italiano, 5/2015, pp. 362-372.
  8. Steiner, G. 2001. Linguaggio e silenzio. Milano: Garzanti

 

[1] Basti ricordare quanto scriveva l’allora cardinale Ratzinger [6]: «Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell’opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall’orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo».

[2] Il Jesus Seminar fu fondato nel 1985 da Robert Funk e John Dominic Crossan e riuniva un gruppo di 150 studiosi specializzati nell’ambito degli studi biblici. Cf. [1].

La sensibilità al nascondimento di Dio

In credere, editoriale, Filosofia, teologia on 29 May 2015 at 2:17 PM

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Francesca Drago

La sensibilità al nascondimento di Dio dà origine a un’attenzione creativa per i luoghi in cui Dio si rivela in maniera più autentica: nella croce, nella negatività, nel conflitto, nella sofferenza; la lotta con il nascondimento di Dio non deve cedere alla tentazione di trovare una spiegazione teoretica al problema del male o di giustificare razionalmente l’esistenza di Dio. Soccombendo a questa tentazione, le forme moderne di teismo eludono troppo spesso la realtà dell’infelicità, nonostante, o forse a causa, di soluzioni moderne, argomentative al problema del male o “teodicea”. Muovendoci lungo queste linee,  le forme moderne di teodicea sono spesso sotterfugi idolatrici che distraggono e distolgono il nostro sguardo dall’infelicità umana. La distruzione di tali idoli fa di una lotta col male nella storia e nella natura da un lato, e con Dio stesso dall’altro, un momento necessario del pensiero teologico e filosofico. La lotta con il nascondimento di Dio è, dunque, tutt’altra cosa che apatia e indifferenza anzi è il sentiero privilegiato che porta al contatto con lui, così come afferma la Weil: “Mi pareva infatti – e lo credo ancora oggi – che non si resista mai abbastanza a Dio, se lo si fa per puro scrupolo di verità. Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è verità. Se ci si allontana da lui per andare verso la verità, non si farà molta strada senza cadere tra le sue braccia”. Nella sua lettura della tragedia greca, la Weil sosterrà che la sapienza nasce soltanto dalla sofferenza, dal dolore, dalla lotta; la grazia viene con violenza.

La lotta con Dio e l’esperienza concreta della sofferenza umana sono incontri indispensabili per far luce sul conflitti fra Dio e la sofferenza umana. La riflessione sulla questione del male non può essere isolata dal confronto esistenziale con la sofferenza. La questione del male si oppone a soluzioni teoretiche e mette in ginocchio l’intelletto. Il solo contatto con gli afflitti è la via più significativa per giungere al contatto con Dio. E’ qui che l’assenza apparente di Dio manifesta una presenza nascosta. E’ nei volti degli afflitti che scopriamo che il vuoto di Dio è una pienezza più grande della presenza di tutte le entità mondane. Il contatto con Dio ci è dato attraverso il suo nascondimento. “Il contatto con le creature umane ci è dato attraverso il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato attraverso il senso dell’assenza. Paragonata a questa assenza, la presenza diventa più assente dell’assenza”.

GvCroce

Come nella “notte oscura” di Giovanni della Croce, quando affronta l’infelicità, la memoria si perde e si svuota. “La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità del mondo è la croce di Cristo”. Ciò non implica che il mistero del male abbia una soluzione teoretica, fosse pure nella foggia della croce di Cristo. Quest’ultima è, piuttosto, una risposta divina al male ed il modello per la nostra risposta alla presenza dell’infelicità. E’ una risposta contrassegnata dalla solidarietà, senza un perché per la sofferenza. Essa rimane silenziosa.

La croce di Cristo non è soltanto una redenzione del peccato, ma comprende come suo significato centrale l’abbraccio della infelicità e la trasformazione del male radicale in gioia piena.

 

 

Papa Francesco ed il problema del male

In credere, editoriale, Filosofia on 24 May 2015 at 10:17 AM

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Giovanni Scarafile

Lo scorso 11 Maggio, in Vaticano, nel corso di un incontro con le scuole nell’ambito della manifestazione “La fabbrica della pace”, Papa Francesco ha sostenuto che non c’è risposta alla domanda per cui i bambini debbano soffrire. Non intendo entrare nel merito della tipologia della risposta fornita dal Santo Padre. Di fronte a quel bambino sulla sedia a rotelle, non avrei saputo fare di meglio.

Tuttavia, credo che non si possa fare a meno di porsi il problema di come quella specifica risposta possa essere interpretata da ogni coscienza credente e, prima ancora, pensante: davvero, non c’è possibilità alcuna di capire le ragioni per cui il male si presenta nella nostra vita? Oppure, le ragioni ci sono, ma è meglio non parlarne? Insomma, Dio è coinvolto nel male del mondo?

Com’è evidente, si tratta di questioni enormi che fanno tremare i polsi e che, nonostante questo, non smettono di interpellarci. Esse costituiscono l’ambito della teodicea, il tentativo di esonerare Dio dall’essere implicato ad un qualsiasi livello con il problema del male.

La intrinseca plausibilità della risposta per cui non ci sono risposte di fronte al male non dimostra forse il fallimento della stessa teodicea? A mio avviso, no. È vero, però, che di un fallimento è possibile parlare. Mi riferisco, in particolare, al fallimento degli esperti di teodicea di comunicare che il proprio specialismo non è solo materia per addetti ai lavori: chi, infatti, può dirsi estraneo al problema del male ed indifferente rispetto alle possibili risposte a quel problema?

In effetti, gli studiosi di teodicea sembrano rinchiusi in una fortezza dalla quale possono indisturbati scrutare, a distanza di sicurezza, le debolezze del mondo. Proprio quella distanza di sicurezza corrisponde, tuttavia, ad una triste abdicazione. La teodicea, e più in generale la filosofia di cui la teodicea è parte, deve uscire dalle fortezze mediante una estroversione contaminante. In questo modo, facendosi compagna di strada dell’homo patiens, essa potrà essere il volto di una misericordia che ha molto in comune con quella “carità dell’intelligenza” di cui Paolo VI aveva parlato.

Quanto precede, significa che allora esistono risposte belle e pronte al problema del male? No, tutt’altro. Le risposte, quelle definitive che tutti noi cerchiamo, non ci sono. Un conto, però, è di cercarle e non trovarle. Un altro, è di smettere di cercarle. Sul primo versante, infatti, l’uomo esercita la sua missione di uomo. Sul secondo, egli ha invece disertato, aiutato in questo dagli specialisti più interessati alle cerimonie interne ai propri saperi o alle proprie chiese, che al compito di comunicare adeguatamente i risultati delle proprie ricerche.

Ci aiutano a trovare il giusto orientamento nella dinamica appena descritta le lapidarie parole scritte nel 1977 in “Fede e Critica” da Guido Morselli: “Bisogna, ragionando, convincersi che il ragionamento non è sufficiente”.

Sull’assenza di significato

In credere on 6 March 2014 at 5:07 PM

de santisNella produzione letteraria di Milan Kundera è presente come elemento fisso, la sua riflessione intorno al senso della vita, tramite il vissuto dei personaggi presenti nei suoi romanzi. Un possibile comune denominatore presente nelle sue opere, può consistere nella continua ricerca di un eventuale significato per cui valga la pena vivere la vita. Per realizzare tale intento, con occhio critico, l’autore analizza l’inquietudine e l’insoddisfazione della persona riguardo a quello che il mondo ha da offrirgli.

Kundera, nel suo ultimo romanzo è ritornato, a mio parere, nuovamente ad analizzare tale tematica, che rimane sempre attuale nonostante le varie rivoluzioni culturali che in quest’ultimo tempo abbiamo attraversato, sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello politico che sociale. La festa dell’insignificanza, – detto in modo molto generale – ci racconta del non senso vissuto dai protagonisti riguardo alla loro esistenza. L’insignificanza viene ad identificarsi come un movimento interiore che conduce l’uomo a non trovare significato soddisfacente nelle realtà che lo circondano. L’uomo dunque si manifesta insoddisfatto non solo verso le vicende che possono essere definite banali ma, – ed è questo l’elemento sconvolgente – tale sentimento è avvertito in egual misura anche nei confronti di aspetti essenziali o centrali della vita, oggetto di fede e alto sacrificio per gran parte dell’umanità.

Il non senso trattato nel La festa dell’insignificanza non ha un valore nichilistico riguardo all’esistenza, ma anzi una funzione essenziale: l’uomo non trovando significato in alcuni aspetti dell’esistenza, sembra quasi spogliare la vita, mondarla da tutti quegli elementi di insignificanza, per poi arrivare a contemplare il frutto, il senso per cui e su cui poggiare e investire la propria esistenza: «L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in situazioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome».

Quanto sostenuto nell’analisi di Kundera non si presenta indifferente ad una possibile riflessione di fede. Al fondo della natura umana di ogni uomo è presente un’insopprimibile inquietudine che lo spinge alla ricerca di qualcosa che soddisfi questo suo anelito. L’uomo intuisce che la realizzazione dei suoi desideri più profondi, possono dare a lui l’opportunità di realizzarsi, di diventare realmente se stesso. In questo procedimento, da essere relazionale quale è, la persona umana è conscia di non poter trovare risposte a tali desideri in modo solitario, ma deve necessariamente basarsi su dei punti di riferimento che lo aiutino a raggiungere e compiere quanto desiderato. Lungo il corso della storia, e ancora oggi, nella nostra contemporaneità – sembra dire Kundera – l’uomo ha costruito il suo agire e la sua esistenza sulla sabbia delle ideologie, del potere, del denaro e del successo. In tutti questi aspetti ha creduto di trovare stabilità e risposta al suo profondo desiderio di felicità, recato nel profondo della sua anima. Nonostante vi siano dei segnali che sembrano dire il contrario, è ben visibile nell’attuale crisi di valori e principi, di come l’uomo si interroghi continuamente su che cosa sia il bene, e questo lo porta a confrontarsi con qualcosa che sia altro da sé, non frutto del pensiero umano, ma realtà che si è chiamati a riconoscere. Questo desiderio profondo manifesta una certa alternatività nei confronti di una cultura esclusivamente esperienziale o concreta, che reca sempre come il romanzo cerca di dirci, la delusione di un significato solo apparente. Credo che l’esperienza capace di saziare in modo primario il desiderio di significato dell’uomo possa consiste nell’amore: movimento dell’estasi, di uscita da sé, momento in cui l’uomo viene attraversato da un desiderio che lo supera. Se davvero voglio bene all’altro e ciò non si manifesta come un’illusione, questo mi porterà necessariamente a decentrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. Si può essere d’accordo con Kundera, il quale trova il senso dell’esistenza nella virtù della coerenza, ma a condizione che questa virtù sia ripiena d’amore verso il prossimo. Si parla di coerenza dell’amore, in quanto esso non si manifesta solo come desiderio, ma dopo la primaria estasi, come un vero e proprio cammino per approfondire l’iniziale amore provato. L’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è l’esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e trovarsi nel mistero che avvolge l’intera esistenza.

Quanto appena detto vale anche per altro, come ad esempio l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato.

Abbiamo già avuto modo di dire che nella sua esperienza l’uomo è in grado di comprendere ciò che è per lui privo di significato, ma non può definire l’inverso. Per questo quanto finora detto può solamente aprire ad un discorso di fede, anche se non è possibile all’uomo dare una definizione di Dio solo partendo da quello che è il suo desiderio di significato.

Luca De Santis

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Luca De Santis è laureato in teologia presso la Pontificia Facoltà dell’Italia meridionale a Molfetta. Nel 2011 si è specializzato presso l’Università del Laterano in Dottrina Sociale della Chiesa con la tesi: “La funzione e l’idea di città in Giorgio La Pira” e attualmente è ricercatore presso la stessa Università e impegnato nella stesura del lavoro tesi dal titolo “Il federalismo municipalista secondo nel pensiero di Don Luigi Sturzo”. Svolge il ministero di Parroco a Corsano ed è direttore dell’Ufficio Antiusura della Diocesi di Ugento Santa Maria di Leuca.