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La mediazione civile: dall’IO al NOI

In diritto on 11 July 2020 at 9:51 AM

Lucia Borlizzi

Nasciamo con un cordone ombelicale che ci lega a quella che sarà la prima e più importante figura di riferimento. Intorno ai due o tre anni inizieremo a dire dei no per il bisogno di percepirci autonomi, la contestazione diventerà un modo per definire la nostra identità e cercheremo di capire fino a che punto potremo spingerci nella nostra indipendenza. In tutta la nostra vita oscilleremo tra la ricerca di appartenere a qualcosa e il bisogno di affermarci come individui. Ex-sistere significa stare fuori, differenziarsi dall’altro, ma il nostro io emerge alimentandosi dalla “comunicazione del noi”, lo stesso agire sociale è conseguenza di una continua contrattazione di significati con l’altro, condizione che ci getta in una costante tensione. Ogni occasione di incontro può condurre a un confronto e un accordo, oppure degenerare in una deriva egocentrica, un soggettivismo esasperato con l’inevitabile rottura della comunicazione. Questa deriva è facilitata da una società che celebra l’Io libero dalle forme sociali tipiche del passato e le istituzioni risultano, pertanto, indebolite nella loro funzione di intermediazione e ordine sociale[1]. In una società che si frantuma, l’Io sembra imporsi, ma è solo un’illusione, l’individualismo incentiva la competitività in cui l’altro è ridotto a mero strumento per soddisfare i nostri bisogni, diviene anonimo, intercambiabile, misconosciuto, ma inevitabilmente lo diventiamo anche noi. L’effetto è l’innescarsi di una lotta all’autoaffermazione incondizionata, che si manifesta anche attraverso un insaziabile bisogno di affermare le proprie prerogative. La crisi dei sistemi di regolazione sociale e il trionfo dell’individualismo conducono a nuove forme di conflittualità che costringono a un ripensamento anche degli strumenti giuridici.

Giovanni Cosi ci ricorda che nella regolazione dei rapporti il diritto rappresenta una radicale alternativa al metodo della violenza, ponendo un freno alle reciproche invasioni, ai nostri egoismi, disegnando i confini della nostra identità civile, diviene cornice necessaria per lo sviluppo delle potenzialità umane ma avverte: “niente impedisce che con il diritto in alcuni casi si continuino a perseguire gli stessi scopi di prevaricante affermazione dell’esserci”[2]. Il processo, lo strumento giuridico tradizionale, rischia in alcuni casi di curare il sintomo, lasciando intatto il focolaio, poiché si limita ad analizzare le pretese giuridiche, guardando a ciò che è avvenuto, distribuendo torti e ragioni, mentre la realtà esige di essere affrontata nella sua complessità anziché essere semplificata in un modello di regolazione formalizzato. La rottura nella comunicazione diventa definitiva, lo strappo nel tessuto sociale non è ricucito, il risentimento delle parti resta al di là degli esiti processuali.

La sfida di oggi è dare al conflitto forme appropriate di comunicazione. Esso non va negato, né rimandato, né banalizzato, perché potrebbe condurre a esiti peggiori. L’istituto della Mediazione Civile e Commerciale introdotta nell’ordinamento italiano[3] rappresenta oggi l’adeguata risposta alla necessità di regolare i rapporti in modo da preservarli. Nelle relazioni familiari, di vicinato, commerciali, nei luoghi di lavoro, in tutti quei casi in cui il rapporto tra le parti è caratterizzato da una forte interdipendenza sociale che proseguirà al di là del conflitto, la mediazione si pone l’obiettivo di gestire il conflitto in senso costruttivo, crea le condizioni per analizzare posizioni, interessi, aspettative di ciascun soggetto coinvolto e di contesti in cui queste si generano, di cui a volte nemmeno le parti sono pienamente consapevoli. Solo così la relazione può farsi autentica e condurre al riconoscimento dell’altro. L’intervento del mediatore, nella sua equi-prossimità, ha lo scopo di riattivare la comunicazione e il confronto in cui le parti possono produrre nuovi comuni orizzonti di senso, giungere a decisioni condivise. Tutto ciò è premessa per lo sviluppo di un maggiore senso di responsabilità, da respondeo, composto dal prefisso re-: tornare indietro, e dal verbo spondeo: promettere, l’atto del preannunciare, garantire, quindi impegnare la propria condotta futura in risposta (re-) alla domanda dell’altro, è impegno che sorge dal patto con l’altro, è su questo impegno che nasce la società. Nella mediazione si passa dal movimento retrospettivo che intende responsabilità come condizione per essere assoggettati ad una pena in conseguenza di una condotta posta in violazione di un dovere giuridico, tipico del diritto, alla responsabilità come impegno futuro. Tutto ciò è possibile alimentando la speranza che apre a possibilità non ancora percorse, stimolando potenzialità del rapporto fino a quel momento inespresse, facendolo progredire su un altro livello. La mediazione civile consente di condurre le parti oltre a ciò che è accaduto e proiettare la relazione nel futuro.

La Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e 21.5.2008 del Consiglio Europeo, considerandum n. 6, afferma che “Gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti”.

Lo scopo è ripristinare la relazione fiduciaria e il senso di fraternità, fondamento della società.

Per Eligio Resta: “la fraternità si è posta sin dalle origini come un insieme di condizioni e di esperienze intese a designare appartenenza, condivisione, identità comuni”[4], è la condizione “dell’essere-in-comune dove un “noi” del plurale è anteriore all’”io” “non perché sia un soggetto primo, ma perché è la spartizione o la partizione che permette di iscrivervi ‘io’”[5]. Il termine fratello, dall’indo-europeo bhrāter,[6]  indica così colui che condivide la mia nascita in quanto identità sociale ed è per questo che nel progetto illuministico la libertà e l’uguaglianza erano legate alla fraternità. Solo nel legame fraterno si può sviluppare quel rapporto che è riconoscimento dell’altro come parte significativa del nostro mondo, capace di generare simmetria nell’asimmetria, l’uguaglianza nella differenza, spingendoci a definire i confini del nostro agire entro una rete di impegni che creano le condizioni per la nostra realizzazione. Si comprende così come la fraternità nell’evoluzione da legame biologico a quello sociale è elemento fondativo della società e questo era chiaro già nell’antichità, prima che il termine fosse relegato alla sfera privata.[7]

La mediazione si può così definire lo spazio in cui si può rinnovare quel patto in cui ogni parte si ri-conosce e ri-conosce l’altro parte di un progetto collettivo e si suggella un nuovo impegno.

[1] Touraine afferma: “Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società – Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia – sono diventate inutilizzabili […]. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno”. https://www.repubblica.it/cultura/2013/10/31/news/cultura_capitalismo_industriale_istituzioni_stato_classe_famiglia_intervista_al_sociologo_francese_societ_alain_touraine-69894444/.

[2] G. Cosi, L’accordo e la decisione. Il conflitto tra giudizio e mediazione, in Le istituzioni del Federalismo. Rivista di studi giuridici e politici, 6/2008, pag.732.

[3] D.Lgs 28/2010.

[4] E.Resta, Ipermodernità, conflitti e diritto fraterno,in  L’epoca dei populismi. Diritti e conflitti, a cura di F. Ciaramelli & F. Mega,volume 2 di “Teoria e Critica della Regolazione Sociale”, Mimesis edizioni, n.11 2015,pp 69-77:70, consultabile in https://mimesisjournals.com/magazine_item_detail_front.php?item_id=250.

[5] Ivi, pag.72.

[6] Phràter, che deriva da bhrater, è il membro della fratria, che riunisce persone con legami non necessariamente parentali in associazioni con finalità politiche e culturali.

[7]Serena Teppa  affronta il tema della fraternità nell’antichità come legame degli uomini in un corpo civico , S.TEPPA, Fratello, fratellanza e ‘affratellamento’,”in  Historikά Studi di storia greca e romana by Università degli Studi di Torino”, n. 2 2012, 273-285. Consultabile in https://www.ojs.unito.it/index.php/historika/article/view/767  .

 

 

Dal sex al gender: quale cambiamento per le donne?

In diritto on 15 March 2018 at 6:35 PM

Maurizia Pierri

1. Il tema delle tutele di genere è prioritario nell’agenda politica nazionale ed internazionale da molti anni: si ritiene necessario un cambiamento di prospettiva su vari fronti, transessualità, matrimoni, adozioni, libertà di opinione e via di seguito. Spesso ed erroneamente si ritiene che le politiche di genere, siano politiche in favore delle donne. Il fraintendimento può essere spiegato dalla parziale sovrapposizione delle rivendicazioni ma sarebbe opportuno riflettere anche sulle differenti richieste di garanzia.

Il termine gender, che spesso viene impiegato in alternativaa sex, come se fosse un suo equivalente, è stato utilizzato per la prima volta dal sessuologo John Money nel 1955. A partire dagli anni ’70 ha conosciuto una significativa evoluzione semantica: mentre tradizionalmente si riferiva alle categorie grammaticali di “maschile”, “femminile” e “neutro”, successivamente si è contrapposto dialetticamente con il termine “sesso” e ha confinato quest’ultimo alla descrizione delle caratteristiche biologiche e fisiologiche dell’uomo e della donna.

Secondo Money, l’identità sessuale adulta non si risolverebbe nella conformazione del sesso alla nascita ma dipenderebbe dall’educazione e dunque dai processi di socializzazione. A differenza del sesso, il genere si riferirebbe a ruoli creati artificialmente, che una determinata comunità considera appropriati per un uomo e per una donna.

Le due declinazioni del gender, la gender identity ed il gender role, riassunte nell’acronimo G-I/R si riferiscono rispettivamente al ruolo che «an individual plays to identify itself as male or female» ed a:

all those things that a person says or does to disclose himself or herself as having the status of boy or man, girl or woman, respectively. It includes, but is not restricted to sexuality in the sense of eroticism. Gender role is appraised in relation to the following: general mannerisms, deportment and demeanor; spontaneous topics of talk in unprompted conversation and casual comment; content of dreams, daydreams.

In altri termini la “gender identity” costituisce l’esperienza personale del “gender role”, la consapevolezza intima di sé, a fronte della manifestazione pubblica della propria identità (Money, 1973: 397).

Le teorie di genere sono sintomatiche di una rivoluzione culturale che intende ridefinire i contorni della identità, disancorandola dal dato biologico che è prevalentemente binario. La prospettiva di queste teorie è la costruzione volontaristica del proprio io “disincarnato”, e il trapasso dalla differenza alla in-differenza sessuale nel­la etica sociale ed anche nel diritto.

La conseguenza più significativa della frattura tra la dimensione materiale e culturale che le teorie sul genere hanno provocato è la seguente: se il dato sessuale (biologico) è irrilevante o meglio è recessivo rispetto a ciò che l’individuo vuole e può diventare in funzione della sua storia, della cultura, della società ed inoltre della sua attitudine psicologica ed interiore, allora le differenze sessuali originarie (biologiche) cessano di essere rilevanti. È possibile che un individuo di sesso maschile possa divenire un uomo ed un individuo di sesso femminile possa divenire una donna ma è anche possibile che il dato corporale non corrisponda allo sviluppo psicologico ed al ruolo sociale che l’individuo assume nel tempo: Simone de Beauvoir sosteneva a tal proposito che “donne non si nasce, ma si diventa”. A fronte di una disforia di genere cioè a una condizione di disarmonia tra “l’aspetto fisico ed il vissuto di genere”, l’individuo può scegliere di costruirsi una identità di genere alternativa ovvero di adattare, con gli opportuni interventi medici, il dato corporale a quello psichico.

Le gender theories postmoderne e decostruzioniste, ovvero le post-gender, le trans gender e le multi gender theories vanno ancora oltre. Ritengono che la sessualità sia un ventaglio di possibilità  che spaziano dal maschile al femminile e che possano essere declinate su relazioni etero ed omosessuali ma anche bisessuali. Infine, le cd. queer theories considerano la diversità (che il termine queer connota in senso dispregiativo) un canone comportamentale: da qui l’elogio delle pratiche sessuali tradizionalmente ritenute immorali e spregevoli come il sadomasochismo ed il bondage.

Appare dunque chiaro, che il termine gender può difficilmente sovrapporsi al termine sesso, costituendone anzi una alternativa. Il primo (in latino genus, in greco ghenos, che significano razza, famiglia o specie) è intriso di implicazioni biologiche: è “la realtà materiale dell’aspetto biologico”  che influenza in modo sensibile la condizione di uomini e donne, diversi per capacità e debolezze. Influenza anche il diritto. Infatti il conflitto tra natura e ambiente, si ripropone inizialmente all’interno del dibattito sul contenuto del principio di uguaglianza sostenuto dalle femministe e, successivamente, sui diritti delle persone LGTB, acronimo che riassume le categorie di Lesbian, Gay, Transexual e Bisexual.  Il rapporto tra sesso e genere, tra aspetto biologico e sociale ha  interessato molto il movimento femminista, che ha rintracciato il seme della discriminazione tra sessi nella «trasformazione del dato biologico in differenze di ruoli e in differenze sociali». Quelle differenze, giustificate nella società pre-moderna dal condizionamento subito dalle donne a causa delle continue gravidanze e dai conseguenti obblighi di cura verso i neonati, nella società moderna non «possono più spiegare le evidenti differenze tra partecipazione maschile e femminile alle attività produttive e riproduttive».

Il dibattito femminista sulla uguaglianza/differenza tra uomo e donna è tutt’altro che sopito. Ha anzi avuto una forte influenza sulle teorie giuridiche contemporanee, contribuendo ad arricchire le varie correnti postmoderne del diritto ed imponendo una nuova prospettiva ermeneutica.

In una prima fase il movimento femminista, nelle sue diverse articolazioni, ha combattuto per emancipare la condizione di oppressione sociale della donna attraverso il riconoscimento della sua uguale dignità rispetto al­l’uomo. È questa la fase del femminismo egualitario, della vindication of equality of power, dignity and esteem. Sono emerse tuttavia due diverse riflessioni: da un lato la constatazione dei limiti dell’uguaglianza formale, dall’altro la presa d’atto della crisi del modello “assimilazionistico”, che tendeva ad annullare le specificità femminili. La lotta per il riconoscimento di garanzie calibrate sull’uomo-maschio, poteva avere l’effetto di appiattire le differenze su uno standard di diritti omologato alle esigenze dell’uomo e dunque  inappropriato.

Il movimento femminista ha reagito alla consapevolezza del rischio della omologazione valorizzando il principio di differenza, espresso in due teorie, una “debole” ed una “forte”. La prima ha affermato la necessità di integrare l’uguaglianza meramente formale con quella sostanziale che è sensibile alle differenze di fatto: queste ultime giustificano l’individuazione di un catalogo di diritti esclusivi e speciali per le donne ed il riconoscimento di un loro particolare statuto giuridico. I diritti civili e politici delle donne, per essere accessibili “nei fatti” devono infatti essere integrati da diritti sociali che tengano conto delle peculiarità femminili: la differenza è diventata conseguentemente pretesa di uguaglianza sostanziale. Si inseriscono in questo solco, di matrice rawlsoniana le specifiche garanzie riconosciute alla donna da alcune costituzioni europee, come  l’art. 6, comma 4 della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania e l’art. 37 della Costituzione italiana. Quanto più la donna acquisisce diritti sociali, tanto più ha la concreta possibilità di partecipare alla vita politica e sociale di una comunità. La seconda teoria, della differenza “forte” (accolta soprattutto in Francia ed in Italia) implica la pretesa del riconoscimento di diritti “esclusivi” alle donne proprio in ragione della loro diversità sessuale. Le particolarità biologiche femminili giustificano la disparità giuridica rivendicata in luogo della pari uguaglianza, che avvilirebbe la soggettività giuridica della donna. La  prospettiva è non tanto quella di emancipazione ma di liberazione della donna. L’ordina­mento giuridico deve garantire la differenza sessuale ed infatti tale principio viene richiamato nella rivendicazione di vecchi e nuovi diritti: quelli, ormai sedimentati, inerenti all’inviolabilità del corpo femminile e quelli emergenti o di quarta generazione alla contraccezione, all’aborto, all’accesso alla maternità tramite le tecnologie della fecondazione assistita, alla riproduzione anche a prescindere dall’unione sessuale con un partner, infine alla scissione della procreazione dalla gestazione (ipotesi dell’utero in affitto) e della riproduzione dalla fecondazione (ipotesi della autofecondazione e della clonazione).

L’insistenza sul tema della differenza, proprio della seconda ondata “differenzialista” del movimento femminista che si colloca negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, ha ceduto il passo nel confronto con le teorie sul “genere” pocanzi accennate, e con le correnti post-moderniste e decostruzioniste. A partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti si è infatti sviluppata un’ala radicale del femminismo, all’interno della quale le gender theories hanno trovato l’ambiente ideale per sviluppare le proprie potenzialità innovative. La nuova agenda del pensiero femminista, in linea con le aspettative dei movimento per i diritti degli omosessuali, ha assunto come obiettivo prioritario il raggiungimento dell’equality esclusivamente in termini di social power, di empowerment. In tale prospettiva il dibattito sui diritti delle donne si è consumato negli ultimi anni intorno alla richiesta di affirmative actions (azioni positive) che favorissero l’accesso delle donne alle cariche politiche. Il pensiero femminista radicale si oppone apertamente al pensiero occidentale moderno di matrice illuminista, incarnato dalle teorie kantiane che presumono di poter individuare principi universali assoluti. Esso contesta la fiducia nella capacità della ragione di cogliere la verità, aderisce ad una visione post-moderna, decostruzionista e relativista della realtà e rigetta il paradigma della mono-soggettività dell’essere umano. Il concetto stesso di “natura umana” viene contestato e conseguentemente la categoria dei diritti umani.

Il nesso tra i movimenti culturali femministi e la teoria giuridica è evidente negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni Sessanta, ha infatti preso forma una teoria femminista del diritto che si prefigge l’obiettivo di mettere in luce l’assetto patriarcale della società.

La teoria giuridica femminista ha assorbito, dalla metà degli anni Ottanta, l’influenza del postmodernismo, liberandosi definitivamente del modernismo giuridico per evitare qualunque tentazione universalista: per le femministe postmoderne non vi è nulla di essenziale che accomuni le donne, anzi occorrerebbe valorizzare le differenze multiculturali dei vissuti femminili e  distruggere gli stereotipi sessuali.

2. Questo orizzonte di senso riconosce uno spazio all’identità femminile? La risposta è problematica.

Ad una prima osservazione sembra che il concetto di “donna”, sia oggetto  di un processo di smaterializzazione e de-naturalizzazione che ne ha eroso i contenuti. Infatti il progetto di neutralizzazione sessuale, in opposizione ad una tradizione culturale etero-centrista, non solo ha messo in dubbio l’esistenza di una identità femminile correlata alla sessualità anatomica, ma ha negato alla donna l’appartenenza al genere umano.

Il principio secondo il quale la “natura umana” sia escludente e non includente l’essenza femminile è quanto meno controvertibile. L’evoluzione della tutela dei diritti delle donne può infatti essere assunta ad archetipo dell’evoluzione, più generale, dei diritti umani, poiché ne condivide il legame con la nozione di “dignità”. Quest’ultima deve essere intesa nella versione “laica”, espressa da Kant nella Metafisica dei costumi come il diritto dell’essere umano (uomo e donna) a non essere mai considerato come un semplice mezzo ma solo e sempre come un fine. È questa la nozione di dignità umana che il diritto ha assorbito e che include qualunque essere umano, a prescindere dalle sue caratteristiche biologiche.

L’altro dato discutibile riguarda la negazione dei diritti “sessuati”, considerati troppo legati a categorie universali e a diversità biologiche. Il rigetto di quei diritti, combinandosi con le teorie di genere ed il pensiero post-moderno, ha condotto alle estreme conseguenze sia il primato della volontà (intesa come diritto alla autodeterminazione) che quello del libero consenso. Ciò è paradossale perché nonostante il movimento femminista radicale abbia contestato i fondamenti del pensiero liberale, ne ha di fatto adottato la prospettiva, puntando sul dominio dell’un-encumbered self, cioè di una individualità priva di vincoli, responsabile solo nei confronti di se stessa e disposta a riconoscere la libertà di scelta come unico valore universale. In altri termini, gli strumenti propri del modernismo giuridico (logica e concetti) vengono utilizzati «per contestare la visione politica radicata nelle dottrine dello stesso pensiero giuridico». Per di più, sempre in contraddizione con i propositi relativisti, la teoria femminista del diritto ha cercato di individuare una essenza universale, sia pure individuandola in un metodo (quello dell’analisi delle singole esperienze femminili) più che in una  caratteristica in qualche modo riconducibile alla identità sessuale biologica.

Sotto il profilo strettamente giuridico, occorre poi osservare che, mentre a livello comunitario ed internazionale sia evidente la tendenza a superare il concetto di soggettività giuridica in termini bipolari, il diritto interno sia ancora legato ad una impostazione “sessuata”. L’art. 37 della Costituzione italiana riconosce alla donna il diritto di svolgere la sua peculiare funzione familiare e lo stesso art. 29, nella lettura che ne ha dato recentemente la Corte costituzionale, rinvia ad un concetto di matrimonio e di famiglia certamente non cristallizzato ma comunque legato alle trasformazioni dell’ordinamento ed alla evoluzione della società e dei costumi. Se il diritto non vuol portare avanti crociate egalitarie disancorate dalla realtà è necessario che si confronti con il tessuto sociale e l’esito di questo confronto è tutt’altro che scontato. Dati anche molto recenti dimostrano che la condizione delle donne sia discriminata, che l’attuazione dei diritti sessuati sia lontana dall’essere realizzata, tanto da far apparire le battaglie sui diritti di genere come elitarie.

Ma l’aspetto forse più discutibile della gender theories sta proprio nella sua prospettiva iper-relativista che configura come prioritari i diritti culturali e nega la categoria dei diritti umani: il rischio è l’indebolimento delle battaglie femministe in contesti culturali e sociali sfavorevoli alle donne. Contesti in cui l’identità femminile sessuata è tutt’altro che indifferente, rappresentando drammaticamente il discrimine tra l’esistere e il non esistere.

 

Riferimenti bibliografici

De Beauvoir, S. 1991. Il secondo sesso. Milano: Il saggiatore.

Califia, P. 1981.  Feminism and Sadomasochism.Heresies #12, Sex, Issue 3, no. 4

Donadi P. 2000. Generi. Differenze nelle identità. Milano: Franco Angeli.

Irigaray L.1990. Questo sesso che non è un sesso. Milano: Feltrinelli.

Minda G. 2001. Teorie postmoderne del diritto. Bologna: Il Mulino

Money J., 1973, Gender Role, Gender Identity, Core Gender Identity: Usage and Definition of Terms. Journal of American Academy of Psychoanalysis, 1: 397-402

Ruspini E, 2003. Le identità di genere. Roma: Carocci.

Sandel, M.J. 1984. The procedural Republic and the unencumbered self. Political Theory, Vol. 12, 1: 81-96.

Vaccaro S., M. Coglitore. 1997. Michel Foucault e il divenire donna. Milano: Mimesis Edizioni

Maurizia Pierri, dal 2010 è  professore aggregato di diritto pubblico comparato dell’Università del Salento. È dottore di ricerca in Sistemi giuridici e politico-sociali comparati ed esperto di servizi pubblici per l’attività di consulenza svolta presso la Commissione di garanzia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. È autrice di monografie e saggi sui temi della democrazia deliberativa, del federalismo, del welfare e della tutela delle categorie svantaggiate.

 

Dal sex al gender: quale cambiamento per le donne?

In diritto on 16 June 2014 at 3:35 PM

Maurizia Pierri

Maurizia Pierri

The protection of gender equality has been a priority in the national and international political agenda for many years. It is often assumed that gender policies are in favor of women, but they are not. The term gender was used for the first time by sexologist John Money in 1955 and it has a different meaning from sex: the second refers to biological characteristics while the first has two implications, gender identity and gender role, summarized in the acronym GI / R. They refer respectively to the role that “an individual plays to identify itself as evil or female” and “all those things that a person says or does to disclose himself or herself as having the status of boy or man, girl or woman, respectively. It includes, but is not restricted to sexuality in the sense of eroticism. Gender role is appraised in relation to the following: general mannerisms, deportment and demeanor; spontaneous topics of talk in casual conversation and unprompted comment; content of dreams, daydreams”. The perspective of gender theories is the construction of a voluntary self “un-encumbered,” and the transition from the difference in the sex to the in-difference in social ethics and even in law. The postmodern, deconstructionist gender theories (or the post-gender, trans-gender and multi-gender theories) go even further. They envision that sexuality is a range of possibilities ranging from male to female and it may be expressed in heterosexual, homosexual or bisexual relationships. Finally, the “queer” theories consider the diversity of sexual expression as a positive value, hence the praise of the sexual practices traditionally considered to be immoral and despicable, such as sadomasochism and bondage . The feminist movement was initially interested in the vindication of sexual rights: in a second phase it has absorbed the hyper-relativist tendency of the gender movement. The effects of this encounter between these cultural movements fighting for a change of perspective are not entirely positive for women. In fact, the denial of the existence of universal categories such as human dignity, or the denial of the woman belonging to “mankind” (or humankind) conceived as inclusive of male and female identity, inevitably leads to the erosion of female identity and its marginalization. The prevalence attributed to cultural rights, as a result of the relativism of values​​, harms the struggle for women’s rights in contexts characterized by high levels of discrimination and is contrary to the principles of law guaranteed in some countries.

1. Il tema delle tutele di genere è prioritario nell’agenda politica nazionale ed internazionale da molti anni: si ritiene necessario un cambiamento di prospettiva su vari fronti, transessualità, matrimoni, adozioni, libertà di opinione e via di seguito. Spesso ed erroneamente si ritiene che le politiche di genere, siano politiche in favore delle donne. Il fraintendimento può essere spiegato dalla parziale sovrapposizione delle rivendicazioni ma sarebbe opportuno riflettere anche sulle differenti richieste di garanzia.

Il termine gender, che spesso viene impiegato in alternativaa sex, come se fosse un suo equivalente, è stato utilizzato per la prima volta dal sessuologo John Money nel 1955. A partire dagli anni ’70 ha conosciuto una significativa evoluzione semantica: mentre tradizionalmente si riferiva alle categorie grammaticali di “maschile”, “femminile” e “neutro”, successivamente si è contrapposto dialetticamente con il termine “sesso” e ha confinato quest’ultimo alla descrizione delle caratteristiche biologiche e fisiologiche dell’uomo e della donna.

Secondo Money, l’identità sessuale adulta non si risolverebbe nella conformazione del sesso alla nascita ma dipenderebbe dall’educazione e dunque dai processi di socializzazione. A differenza del sesso, il genere si riferirebbe a ruoli creati artificialmente, che una determinata comunità considera appropriati per un uomo e per una donna.

Le due declinazioni del gender, la gender identity ed il gender role, riassunte nell’acronimo G-I/R si riferiscono rispettivamente al ruolo che «an individual plays to identify itself as male or female» ed a:

all those things that a person says or does to disclose himself or herself as having the status of boy or man, girl or woman, respectively. It includes, but is not restricted to sexuality in the sense of eroticism. Gender role is appraised in relation to the following: general mannerisms, deportment and demeanor; spontaneous topics of talk in unprompted conversation and casual comment; content of dreams, daydreams.

In altri termini la “gender identity” costituisce l’esperienza personale del “gender role”, la consapevolezza intima di sé, a fronte della manifestazione pubblica della propria identità (Money, 1973: 397).

Le teorie di genere sono sintomatiche di una rivoluzione culturale che intende ridefinire i contorni della identità, disancorandola dal dato biologico che è prevalentemente binario. La prospettiva di queste teorie è la costruzione volontaristica del proprio io “disincarnato”, e il trapasso dalla differenza alla in-differenza sessuale nel­la etica sociale ed anche nel diritto.

La conseguenza più significativa della frattura tra la dimensione materiale e culturale che le teorie sul genere hanno provocato è la seguente: se il dato sessuale (biologico) è irrilevante o meglio è recessivo rispetto a ciò che l’individuo vuole e può diventare in funzione della sua storia, della cultura, della società ed inoltre della sua attitudine psicologica ed interiore, allora le differenze sessuali originarie (biologiche) cessano di essere rilevanti. È possibile che un individuo di sesso maschile possa divenire un uomo ed un individuo di sesso femminile possa divenire una donna ma è anche possibile che il dato corporale non corrisponda allo sviluppo psicologico ed al ruolo sociale che l’individuo assume nel tempo: Simone de Beauvoir sosteneva a tal proposito che “donne non si nasce, ma si diventa”. A fronte di una disforia di genere cioè a una condizione di disarmonia tra “l’aspetto fisico ed il vissuto di genere”, l’individuo può scegliere di costruirsi una identità di genere alternativa ovvero di adattare, con gli opportuni interventi medici, il dato corporale a quello psichico.

Le gender theories postmoderne e decostruzioniste, ovvero le post-gender, le trans gender e le multi gender theories vanno ancora oltre. Ritengono che la sessualità sia un ventaglio di possibilità  che spaziano dal maschile al femminile e che possano essere declinate su relazioni etero ed omosessuali ma anche bisessuali. Infine, le cd. queer theories considerano la diversità (che il termine queer connota in senso dispregiativo) un canone comportamentale: da qui l’elogio delle pratiche sessuali tradizionalmente ritenute immorali e spregevoli come il sadomasochismo ed il bondage.

Appare dunque chiaro, che il termine gender può difficilmente sovrapporsi al termine sesso, costituendone anzi una alternativa. Il primo (in latino genus, in greco ghenos, che significano razza, famiglia o specie) è intriso di implicazioni biologiche: è “la realtà materiale dell’aspetto biologico”  che influenza in modo sensibile la condizione di uomini e donne, diversi per capacità e debolezze. Influenza anche il diritto. Infatti il conflitto tra natura e ambiente, si ripropone inizialmente all’interno del dibattito sul contenuto del principio di uguaglianza sostenuto dalle femministe e, successivamente, sui diritti delle persone LGTB, acronimo che riassume le categorie di Lesbian, Gay, Transexual e Bisexual.  Il rapporto tra sesso e genere, tra aspetto biologico e sociale ha  interessato molto il movimento femminista, che ha rintracciato il seme della discriminazione tra sessi nella «trasformazione del dato biologico in differenze di ruoli e in differenze sociali». Quelle differenze, giustificate nella società pre-moderna dal condizionamento subito dalle donne a causa delle continue gravidanze e dai conseguenti obblighi di cura verso i neonati, nella società moderna non «possono più spiegare le evidenti differenze tra partecipazione maschile e femminile alle attività produttive e riproduttive».

Il dibattito femminista sulla uguaglianza/differenza tra uomo e donna è tutt’altro che sopito. Ha anzi avuto una forte influenza sulle teorie giuridiche contemporanee, contribuendo ad arricchire le varie correnti postmoderne del diritto ed imponendo una nuova prospettiva ermeneutica.

In una prima fase il movimento femminista, nelle sue diverse articolazioni, ha combattuto per emancipare la condizione di oppressione sociale della donna attraverso il riconoscimento della sua uguale dignità rispetto al­l’uomo. È questa la fase del femminismo egualitario, della vindication of equality of power, dignity and esteem. Sono emerse tuttavia due diverse riflessioni: da un lato la constatazione dei limiti dell’uguaglianza formale, dall’altro la presa d’atto della crisi del modello “assimilazionistico”, che tendeva ad annullare le specificità femminili. La lotta per il riconoscimento di garanzie calibrate sull’uomo-maschio, poteva avere l’effetto di appiattire le differenze su uno standard di diritti omologato alle esigenze dell’uomo e dunque  inappropriato.

Il movimento femminista ha reagito alla consapevolezza del rischio della omologazione valorizzando il principio di differenza, espresso in due teorie, una “debole” ed una “forte”. La prima ha affermato la necessità di integrare l’uguaglianza meramente formale con quella sostanziale che è sensibile alle differenze di fatto: queste ultime giustificano l’individuazione di un catalogo di diritti esclusivi e speciali per le donne ed il riconoscimento di un loro particolare statuto giuridico. I diritti civili e politici delle donne, per essere accessibili “nei fatti” devono infatti essere integrati da diritti sociali che tengano conto delle peculiarità femminili: la differenza è diventata conseguentemente pretesa di uguaglianza sostanziale. Si inseriscono in questo solco, di matrice rawlsoniana le specifiche garanzie riconosciute alla donna da alcune costituzioni europee, come  l’art. 6, comma 4 della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania e l’art. 37 della Costituzione italiana. Quanto più la donna acquisisce diritti sociali, tanto più ha la concreta possibilità di partecipare alla vita politica e sociale di una comunità. La seconda teoria, della differenza “forte” (accolta soprattutto in Francia ed in Italia) implica la pretesa del riconoscimento di diritti “esclusivi” alle donne proprio in ragione della loro diversità sessuale. Le particolarità biologiche femminili giustificano la disparità giuridica rivendicata in luogo della pari uguaglianza, che avvilirebbe la soggettività giuridica della donna. La  prospettiva è non tanto quella di emancipazione ma di liberazione della donna. L’ordina­mento giuridico deve garantire la differenza sessuale ed infatti tale principio viene richiamato nella rivendicazione di vecchi e nuovi diritti: quelli, ormai sedimentati, inerenti all’inviolabilità del corpo femminile e quelli emergenti o di quarta generazione alla contraccezione, all’aborto, all’accesso alla maternità tramite le tecnologie della fecondazione assistita, alla riproduzione anche a prescindere dall’unione sessuale con un partner, infine alla scissione della procreazione dalla gestazione (ipotesi dell’utero in affitto) e della riproduzione dalla fecondazione (ipotesi della autofecondazione e della clonazione).

L’insistenza sul tema della differenza, proprio della seconda ondata “differenzialista” del movimento femminista che si colloca negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, ha ceduto il passo nel confronto con le teorie sul “genere” pocanzi accennate, e con le correnti post-moderniste e decostruzioniste. A partire dagli anni ’80, negli Stati Uniti si è infatti sviluppata un’ala radicale del femminismo, all’interno della quale le gender theories hanno trovato l’ambiente ideale per sviluppare le proprie potenzialità innovative. La nuova agenda del pensiero femminista, in linea con le aspettative dei movimento per i diritti degli omosessuali, ha assunto come obiettivo prioritario il raggiungimento dell’equality esclusivamente in termini di social power, di empowerment. In tale prospettiva il dibattito sui diritti delle donne si è consumato negli ultimi anni intorno alla richiesta di affirmative actions (azioni positive) che favorissero l’accesso delle donne alle cariche politiche. Il pensiero femminista radicale si oppone apertamente al pensiero occidentale moderno di matrice illuminista, incarnato dalle teorie kantiane che presumono di poter individuare principi universali assoluti. Esso contesta la fiducia nella capacità della ragione di cogliere la verità, aderisce ad una visione post-moderna, decostruzionista e relativista della realtà e rigetta il paradigma della mono-soggettività dell’essere umano. Il concetto stesso di “natura umana” viene contestato e conseguentemente la categoria dei diritti umani.

Il nesso tra i movimenti culturali femministi e la teoria giuridica è evidente negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni Sessanta, ha infatti preso forma una teoria femminista del diritto che si prefigge l’obiettivo di mettere in luce l’assetto patriarcale della società.

La teoria giuridica femminista ha assorbito, dalla metà degli anni Ottanta, l’influenza del postmodernismo, liberandosi definitivamente del modernismo giuridico per evitare qualunque tentazione universalista: per le femministe postmoderne non vi è nulla di essenziale che accomuni le donne, anzi occorrerebbe valorizzare le differenze multiculturali dei vissuti femminili e  distruggere gli stereotipi sessuali.

2. Questo orizzonte di senso riconosce uno spazio all’identità femminile? La risposta è problematica.

Ad una prima osservazione sembra che il concetto di “donna”, sia oggetto  di un processo di smaterializzazione e de-naturalizzazione che ne ha eroso i contenuti. Infatti il progetto di neutralizzazione sessuale, in opposizione ad una tradizione culturale etero-centrista, non solo ha messo in dubbio l’esistenza di una identità femminile correlata alla sessualità anatomica, ma ha negato alla donna l’appartenenza al genere umano.

Il principio secondo il quale la “natura umana” sia escludente e non includente l’essenza femminile è quanto meno controvertibile. L’evoluzione della tutela dei diritti delle donne può infatti essere assunta ad archetipo dell’evoluzione, più generale, dei diritti umani, poiché ne condivide il legame con la nozione di “dignità”. Quest’ultima deve essere intesa nella versione “laica”, espressa da Kant nella Metafisica dei costumi come il diritto dell’essere umano (uomo e donna) a non essere mai considerato come un semplice mezzo ma solo e sempre come un fine. È questa la nozione di dignità umana che il diritto ha assorbito e che include qualunque essere umano, a prescindere dalle sue caratteristiche biologiche.

L’altro dato discutibile riguarda la negazione dei diritti “sessuati”, considerati troppo legati a categorie universali e a diversità biologiche. Il rigetto di quei diritti, combinandosi con le teorie di genere ed il pensiero post-moderno, ha condotto alle estreme conseguenze sia il primato della volontà (intesa come diritto alla autodeterminazione) che quello del libero consenso. Ciò è paradossale perché nonostante il movimento femminista radicale abbia contestato i fondamenti del pensiero liberale, ne ha di fatto adottato la prospettiva, puntando sul dominio dell’un-encumbered self, cioè di una individualità priva di vincoli, responsabile solo nei confronti di se stessa e disposta a riconoscere la libertà di scelta come unico valore universale. In altri termini, gli strumenti propri del modernismo giuridico (logica e concetti) vengono utilizzati «per contestare la visione politica radicata nelle dottrine dello stesso pensiero giuridico». Per di più, sempre in contraddizione con i propositi relativisti, la teoria femminista del diritto ha cercato di individuare una essenza universale, sia pure individuandola in un metodo (quello dell’analisi delle singole esperienze femminili) più che in una  caratteristica in qualche modo riconducibile alla identità sessuale biologica.

Sotto il profilo strettamente giuridico, occorre poi osservare che, mentre a livello comunitario ed internazionale sia evidente la tendenza a superare il concetto di soggettività giuridica in termini bipolari, il diritto interno sia ancora legato ad una impostazione “sessuata”. L’art. 37 della Costituzione italiana riconosce alla donna il diritto di svolgere la sua peculiare funzione familiare e lo stesso art. 29, nella lettura che ne ha dato recentemente la Corte costituzionale, rinvia ad un concetto di matrimonio e di famiglia certamente non cristallizzato ma comunque legato alle trasformazioni dell’ordinamento ed alla evoluzione della società e dei costumi. Se il diritto non vuol portare avanti crociate egalitarie disancorate dalla realtà è necessario che si confronti con il tessuto sociale e l’esito di questo confronto è tutt’altro che scontato. Dati anche molto recenti dimostrano che la condizione delle donne sia discriminata, che l’attuazione dei diritti sessuati sia lontana dall’essere realizzata, tanto da far apparire le battaglie sui diritti di genere come elitarie.

Ma l’aspetto forse più discutibile della gender theories sta proprio nella sua prospettiva iper-relativista che configura come prioritari i diritti culturali e nega la categoria dei diritti umani: il rischio è l’indebolimento delle battaglie femministe in contesti culturali e sociali sfavorevoli alle donne. Contesti in cui l’identità femminile sessuata è tutt’altro che indifferente, rappresentando drammaticamente il discrimine tra l’esistere e il non esistere.

 

Riferimenti bibliografici

De Beauvoir, S. 1991. Il secondo sesso. Milano: Il saggiatore.

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Sandel, M.J. 1984. The procedural Republic and the unencumbered self. Political Theory, Vol. 12, 1: 81-96.

Vaccaro S., M. Coglitore. 1997. Michel Foucault e il divenire donna. Milano: Mimesis Edizioni

Maurizia Pierri, dal 2010 è  professore aggregato di diritto pubblico comparato dell’Università del Salento. È dottore di ricerca in Sistemi giuridici e politico-sociali comparati ed esperto di servizi pubblici per l’attività di consulenza svolta presso la Commissione di garanzia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. È autrice di monografie e saggi sui temi della democrazia deliberativa, del federalismo, del welfare e della tutela delle categorie svantaggiate.

 

 

Insignificanza nel diritto o insignificanza del diritto?

In diritto on 23 March 2014 at 6:00 PM

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Il brano di Milan Kundera che esprime l’intenzione tematica di questo numero di YOD Magazine, descrive l’insignificanza in chiave positiva: non come assenza di significato ma come emancipazione dal perseguimento di scopi ulteriori rispetto alla semplice libertà  di esistere.

Questo concetto può essere declinato anche in ambito giuridico? Può cioè il diritto essere insignificante, ossia non tendere al perseguimento di uno scopo che ecceda l’essere  positum?

Il diritto è il prodotto di atti e fatti che secondo l’ordinamento (lo Stato) sono abilitati ad esprimere regole giuridiche. Limitiamo l’attenzione agli atti che generano diritto: essi sono volontari, cioè “riferibili a soggetti determinati e da questi posti in essere nell’esercizio di un potere ad essi attribuito”.  L’elemento volontaristico è quindi incluso nell’atto di produzione del diritto (volontà dell’atto), ma vi è di più. Una volta posto (positum, da cui diritto positivo) l’atto è in grado di esprimere  una sua volontà (ovviamente non in termini psicologici), diretta al conseguimento di determinati risultati. Ciò è possibile perché il diritto che scaturisce da atti si esprime attraverso disposizioni scritte, ossia formulazioni linguistiche dalla cui interpretazione si evincono le norme, ovvero le regole giuridiche alle quali occorre conformarsi. La dottrina dominante afferma che le regole del diritto appartengono al mondo del dover essere (sollen) ed infatti utilizzano un linguaggio prescrittivo, che si distingue dal mondo dell’essere (sein), che ricorre ad un linguaggio descrittivo o espressivo. Dovrebbe dunque concludersi che esiste sempre nel diritto positivo uno scopo ulteriore che le norme intendono realizzare, ed è insito nel loro contenuto prescrittivo.

Tuttavia, anche dalle poche considerazioni fin qui proposte scaturiscono numerose riflessioni, proprio  nella prospettiva della insignificanza.

La prima. L’elemento della volontarietà è certamente insito nell’atto produttivo del diritto (atto-fonte). Una legge approvata dal Parlamento è voluta dalla maggioranza che l’ha votata, esattamente come il contenuto di un contratto è voluto dai contraenti che lo stipulano. Ma si è accennato ad un diritto che scaturisce da fatti, che l’ordinamento prende in considerazione nella loro oggettività. Non rileva, è cioè insignificante (nel diritto) la circostanza che siano o non siano voluti e neppure che necessitino della intermediazione delle disposizioni, perché comunque da essi scaturiscono effetti giuridici.

La seconda. Esistono atti positivi non normativi, in due differenti accezioni: in quanto non utilizzano il linguaggio prescrittivo, o in quanto non producono norme. Il primo è il caso delle dichiarazioni didascaliche, delle invocazioni alla divinità o ancora delle previsioni economiche presenti in alcune atti. Si tratta di disposizioni insignificanti dal punto di vista della prescrittività (insignificanza del diritto). Il secondo è il caso delle leggi meramente formali: l’esempio di scuola è quello della legge di approvazione del rendiconto consuntivo dello Stato, che non introduce alcuna novità normativa. Anche questa è una ipotesi di diritto insignificante.

La terza. Intorno alla interpretazione delle disposizioni e dunque alla individuazione (scoperta? enunciazione? creazione?) delle norme, cioè del significato prescrittivo che scaturisce dalla interpretazione delle disposizioni, si sono aperte varie dispute e proposti diversi modelli teorici, che non è possibile dettagliatamente esaminare ma solo grossolanamente riassumere. Secondo alcuni studiosi esiste una verità normativa precostituita che può essere raggiunta attraverso un procedimento logico di tipo storico-scientifico (teoria normativa). Tale verità è collocata al di fuori dell’atto e corrisponde alla volontà dell’autorità che lo ha posto in essere (originalismo, intenzionalismo) o è insito nell’atto stesso (verità immanente). Secondo altri la verità non può essere semplicemente scoperta ed enunciata dal giudice ma spetta proprio a lui e dunque alla giurisprudenza, attribuire significato alle disposizioni da interpretare (teorie non normative)[1]. Presupposto della prima impostazione, sia nella versione che ritiene rilevante la volontà dell’autorità[2] che ha prodotto il diritto, sia in quella apparentemente opposta, è che esista sempre un significato ulteriore insito nelle norme, un fine, uno scopo significativo che l’interprete deve “scoprire”. Sembra andare nella direzione dell’intenzionalismo il testo dell’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, premesse al Codice civile: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Le teorie qualificate riassuntivamente come “non normative” soltanto in apparenza escludono l’esistenza di una significanza ulteriore del diritto. La differenza è nel ruolo attribuito all’interprete: nella prospettiva non-normativa egli partecipa attivamente alla ri-costruzione dello scopo perseguito dal diritto, inserendosi con una sua scelta di valore nell’insopprimibile vuoto cognitivo che si crea tra disposizione e norma.

La quarta. Esiste uno spazio in cui il diritto deve essere insignificante? Uno spazio in cui il suo linguaggio deve smettere di essere prescrittivo ed adeguarsi ai canoni della descrizione, dell’espressione? Negli Stati Uniti ma anche in Europa si sta imponendo il tema dell’ expressive law[3], ovvero (molto grossolanamente) del diritto non autoritativo, che si limita ad esprimere l’esistente, a sua volta esito di un accordo consensuale tra parti. Del resto è stato autorevolmente sostenuto che l’intervento autoritativo su alcune sfere sociali possa essere inefficace, se non controproducente.

Ma è sul versante del diritto naturale che l’insignificanza trova una spazio ideale. Non è un caso se il testo internazionale che ha segnato la storia della tutela dei diritti umani non si appella “legge” o “costituzione” ma “dichiarazione”. Il testo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale  delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948  adotta un linguaggio prescrittivo solo al fine di garantire l’esistente, il cui valore è già dato. Anche la Costituzione italiana, nell’articolo 2 dichiara che la “Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Si riconosce ciò che già esiste ed il diritto ha il solo compito di garantire la pienezza di quell’esistenza. In questo senso l’insignificanza del diritto diventa un valore desiderabile, nel suo riconoscere l’uomo come fine, l’uomo in sé, nel suo esistere per sé, in una sintesi perfetta di essere e dover essere.

 

 

Riferimenti bibliografici

Cooter, R. 1998. Expressive Law and Economics. Journal of Legal Studies, 27: 585 – 608

Crisafulli,V. 1984. Lezioni di diritto costituzionale, Vol. 2. Padova: Cedam

Dogliani, M. 1993. Il “posto” del diritto costituzionale. Giurisprudenza costituzionale: 525 – 544.

Dworkin, E. 1986. Law’s Empire. Cambridge: Harvard University Press

Scalia, A. 1988-1989. Originalism: The Lesser Evil. University of Cincinnati Law Review: 849-865.

Teubner, G. 1987. Il Trilemma regolativo. A proposito della polemica sui modelli giuridici post-strumentali. Politica del diritto, 18: 85-118.

Maurizia Pierri

2 Sulla diverse impostazioni interpretative la bibliografia è sterminata, in particolare sulla ermeneutica costituzionali. Per avere un quadro semplice e riassuntivo delle varie posizioni si legga (Dogliani 1993).

3 Il dibattito sull’originalismo, anche detto intenzionalismo del legislatore è particolarmente significativo negli Stati Uniti dove il pensiero di (Scalia 1988-1989) si scontra con la posizione diametralmente opposta di (Dworkin 1986).

4 Si vedano gli studi di (Cooter 1998).

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Maurizia Pierri, dal 2010 è  professore aggregato di diritto pubblico comparato dell’Università del Salento. È dottore di ricerca in Sistemi giuridici e politico-sociali comparati ed esperto di servizi pubblici per l’attività di consulenza svolta presso la Commissione di garanzia del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. È autrice di monografie e saggi sui temi della democrazia deliberativa, del federalismo, del welfare e della tutela delle categorie svantaggiate.

Paradossi dell’insignificanza espressiva

In diritto on 28 February 2014 at 8:22 PM

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La libertà di manifestazione del pensiero è costituzionalmente riconosciuta e tutelata come elemento essenziale della stessa libertà dell’uomo. Di conseguenza le limitazioni ulteriori rispetto agli argini poste a tutela dell’onorabilità, divengono delle camicie di forza.

Si intende far cenno ai casi di finalizzazione della modalità di espressione ovvero alla sua limitazione all’interno di uno schema prefissato. Anche queste, infatti, sono delle limitazioni alla libertà.

L’insignificanza, quindi, dovrebbe condurre alla eliminazione di qualsivoglia vincolo anche lessicale, in modo da rendere scevro da gabbie (esplicite o recondite) il pensiero, oltre che la sua manifestazione.

I vincoli sociali ai quali il ragionamento umano da sempre è legato, oggi hanno trovato un ulteriore paletto, che si è insinuato nell’agire quotidiano sotto forma di modalità espressiva ed ha finito per determinare il merito di ogni riflessione. Ci si riferisce al “Politicamente Corretto”: una sorta di decalogo linguistico diventato, ormai, un frasario pre-confezionato imprescindibile.

Ciò che nacque nel ’900 con intenti progressisti, addirittura con la volontà di sradicare delle consuetudini linguistiche, oggi ha finito per essere un cliché lessicale[1]. Il “Politically Correct” era nato per dare un impulso nuovo e viene oggi utilizzato come una sorta di tirranìa espressiva utile ad imporre un conformismo collettivo.

Con questa riflessione iniziale non si vuole di certo avallare alcuna intolleranza verbale o assecondare una degenerazione espressiva che molto (troppo) spesso ha intaccato il lessico istituzionale. Non sfugge, infatti, il concetto che un linguaggio edulcorato ha anche una “funzione civilizzatrice” (Elster 1993: 78), ma questo non può consentire addirittura di imbrigliare ogni modalità e merito espressivi.

Per altro verso non si può affermare una bocciatura tout court dell’evoluzione linguistica politicamente corretta.

A tal proposito, si può far riferimento riferimento al campo socio – assistenziale.

L’ingresso alla parola “assistito” rispetto a quella “malato” non solo ha edulcorato il concetto basilare, ma addirittura risulta maggiormente rispondente alla realtà.

Venendo alle disabilità, sino a pochi anni fa non era comune confrontarsi con l’espressione “handicappato”, alludendo in maniera cruda (se non crudele) alle difficoltà fisiche o sensoriali. Oggi la locuzione “diversamente abile” non è un tentativo di mascherare la realtà, ma evidenzia che non ci si trova dinanzi ad un individuo nel quale ricercare delle “mancanze”, ma si è davanti ad una persona che ha abilità e potenzialità ulteriori.

Queste modificazioni del linguaggio rispecchiano, quindi, anche un differente approccio legislativo.

Una dimostrazione evidente sono le riforme sanitarie susseguitesi dal 1992 al 1999, i Piani Sanitari Nazionali e i Patti per la Salute siglati tra le Regioni ed il Governo, nei quali oltre ad una ridefinizione dell’organizzazione sanitaria, si è attuata una rivoluzione copernicana nell’approccio al diritto alla tutela della salute, mettendo al centro il paziente. Che ciò sia realmente avvenuto può essere oggetto di diversa riflessione, ma che il percorso sia stato avviato è indubbio.

Di portata innovatrice anche la legislazione sui diversamente abili. Si deve pensare non solo all’approccio urbanistico legato all’abbattimento delle barriere architettoniche, ma, ancor di più si pensi alla pietra miliare della legge 104 del 1992 per l’assistenza e l’integrazione sociale, che ha avuto delle ricadute normative che oggi continuano a produrre i loro effetti.

Il mutamento lessicale, quindi, è stato il riflesso positivo di altrettante modificazioni sostanziali.

Un esempio ancor più temporalmente vicino è dato dalla legislazione sulla famiglia. Con il decreto legislativo 154/2013 è stata portata a compimento la più radicale modifica del diritto di famiglia dopo quella del 1975, con riferimento al tema della filiazione. Anche in questo caso l0 innovazioni lessicali sono state essenziali. Si è passati dai termini “figlio legittimo” e “figlio naturale” a quelli di “figlio nato nel matrimonio” e “figlio nato fuori dal matrimonio”. Di eccezionale importanza è stata poi la mutazione dal termine “potestà” in quello di “responsabilità genitoriale condivisa”[2]. Non possono essere classificati come “vezzi lessicali”, ma sottendono profonde evoluzioni giuridiche trasposte sul piano del linguaggio.

A questo punto, però, è necessario passare al paradosso negativo del “politicamente corretto” al quale si faceva riferimento inizialmente.

Basta spostarsi sul campo delle differenze di genere per rendersi conto che si è creato un frasario distorcente, se non artificioso. Una sorta di eugenetica negativa del lessico.

Nel corso degli ultimi anni, la crescente consapevolezza e affermazione femminile nei vari campi (istituzioni, management e, più in generale, delle professioni), è stata accompagnata da una proliferazione delle parole declinate al femminile. Si sentiva di definire una “sindaca”o una “ministra”? La trasposizione “in rosa” di questi vocaboli ha forse aggiunto un valore ulteriore a quelle stesse decisioni locali o alle iniziative ministeriali?

Si badi, però, che non si è in presenza di un puntiglio lessicale. Qualora, infatti, fossimo dinanzi ad una opzione espressiva, potremmo farla rientrare nella varietà della libertà di manifestazione del pensiero. Nel momento in cui, invece, il “politicamente corretto” assume la veste di un diktat al quale uniformarsi al fine di evitare di essere messi all’indice, allora si è in presenza di un conformismo che incide sul pensiero stesso, oltre che sulla sua forma espressiva.

Allargando la riflessione con uno sguardo comparativo, si può accennare al concetto di “democrazia”. Oggi non sembra possibile parlarne senza pronunciare locuzioni come “democrazia partecipativa” o “democrazia web”. Anche in questo caso se ci si fermasse al linguaggio, sarebbe un male contenuto, ma, in verità l’espressione finisce per toccare e modificare la sostanza delle cose. È sufficiente un cenno alla cronaca.

Dal dicembre 2010 gli obbiettivi mediatici sono stati puntati verso i rivolgimenti del mondo arabo tutti classificati da subito come “Primavere Arabe”. Senza troppo approfondimento e con un buon grado di approssimazione rispetto alle transizioni democratiche[3], si intendeva affermare che erano in corso delle rivoluzioni realizzate grazie al web lungo percorsi democratici, laici e partecipati.

Si guardi ora, a titolo d’esempio, alla realtà egiziana. Al Cairo nel 2011 furono innegabili gli effetti delle onde d’urto dei rivolgimenti tunisini contro Ben Ali che portarono i primi rigagnoli di movimentismo giovanile nei confronti del regime di Mubarak. Ciò che, però, fu definita come la “Rivoluzione 2.0” dettata interamente dal contagio democratico via web, in realtà ha avuto una evoluzione ben più complessa fatta di legami internazionali e dinamiche politico-religiose.

Il Presidente Egiziano Mubarak, sostenuto sin dal 1981 dalla sponda di Washington, aveva ormai perso i suoi punti di forza internazionali ed era divenuto preda ambita per il jihadismo. Peraltro, l’esercito egiziano non si è mosso a difesa dello status quo anche tutela della propria popolarità. Pertanto, i giovani rivoluzionari laici e guidati da internet che la vulgata voleva alla testa e nell’anima della primavera egiziana, in realtà si sono dimostrati una rappresentazione di comodo che aveva un ruolo reale molto parziale.

La riprova la si è avuta, prima con la vittoria elettorale post regime da parte Fratelli Musulmani guidati da Mohamed Morsi e successivamente con la destituzione violenta del presidente eletto e l’ascesa del maresciallo Abdel Fattah Sisi.

Se ciò non bastasse per sfatare il feticcio politicamente corretto della rivoluzione per mano digitale, è sufficiente richiamare alcuni elementi empirici. Nonostante la regione araba abbia assistito ad una crescita esponenziale nel numero di utenti Internet negli ultimi anni, occorre anche notare che nel complesso la penetrazione dei social media, in relazione al totale della popolazione, resta piuttosto bassa e lo era ancor di più nel 2011. Inoltre, i prezzi delle connessioni internet erano inaccessibili per buona parte della popolazione[4]. Infine, le rivolte sono scoppiate anche in quei Paesi, come la Libia, in cui il governo deteneva un forte controllo di Internet e gli strumenti online erano quasi completamente oscurati, così come le proteste in Egitto sono continuate anche dopo il blocco totale delle connessioni ad Internet voluto dal regime di Mubarak.

A suggello del nostro ragionamento è opportuno richiamare le parole dello stesso fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, in occasione dell’E-G8 tenutosi a Parigi nel maggio 2011: “Facebook non è stato né necessario né sufficiente perché nessuna di queste cose accadesse […] Nessun ruolo politico chiave per il social network; quello che è successo è che alcune popolazioni si sono prese per mano. Può darsi che Facebook abbia dato un contributo e apportato alcuni vantaggi, ma questa è un’altra cosa”.[5]

Oggi la mitologia della rivoluzione araba ha lasciato spazio ad una riflessione più profonda sulle ragioni per le quali il modello egiziano si stia avviluppando in una spirale para-democratica che, almeno per ora, è lontana dall’agognata transizione democratica[6]Una valutazione non vincolata da definizioni pre-confezionate che hanno limitato spesso le prospettive visuali, avrebbe potuto anche far cogliere prima e meglio l’essenza ed il significato delle dinamiche medio orientali. Imbrigliare le parole può, quindi, portare ad ingabbiare l’essenza stessa dei pensieri che dovrebbero veicolare. Per questo è bene essere desti alla ricerca dell’insignificanza: il sonno “politicamente corretto” genera mostri.

 

Riferimenti bibliografici

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Elster, J. 1993. Argomentare e negoziare. Milano: Anabasi, p. 78.

Kurzweil, E., W. Phillips W. 1995. Our Country, Our Culture. The Politics of Political Correctness. Boston: Partisan-Review.

Miller, L.E., J. Martini, F.S. Larrabee et al. 2012. Democratization in the Arab World: Prospects and Lessons from Around the Globe. Santa Monica: Rand Corporation. National Defense Research Institute.

Rescigno, G.U. 1988. Responsabilità. Enciclopedia del Diritto, XXXIX. Milano: Giuffrè.

Carlo Ciardo


[1] Per un approfondimento sul concetto di “Politicamente Corretto” soprattutto con riferimento al diffondersi di questa espressione all’interno delle università americane cf. (Angiò 1997), (Berman 1992), (Kurzweil, Phillips 1995).

[2] Nel concetto di potestà è insito il potere di disporre delle attività altrui e, quindi è ineliminabile, dallo stesso, una connotazione di «subordinazione» del soggetto in potestate rispetto all’altro. L’espressione “responsabilità”, invece
afferisce ad una qualità di un soggetto (cioè la capacità che si attribuisce a un soggetto di essere in grado e perciò di dover dare risposta a causa dei suoi comportamenti, o comunque di un fatto a lui ricollegabile secondo criteri accertati) ed al processo che si sta svolgendo in forza di tale qualità. Per una riflessione più ampia sulla responsabilità cf. (Rescigno 1988: 1342).

[3] Le transizioni democratiche affrontate da (De Vergottini 1998).

[4] Internet World Stats: Usage and Population Statistics http://www.internetworldstats.com/stats1.htm#africa

[6] Si peccherebbe del medesimo errore di approssimazione se si definisse come completamente fallito e fallimentare il percorso intrapreso nel 2011, perché i cambiamenti profondi e sistematici richiedono tempo. Sul punto si è espressa eminente dottrina cf (Miller, L.E., J. Martini, F.S. Larrabee et al. 2012).

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Carlo Ciardo è Assegnista di ricerca in Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università del Salento, dopo aver conseguito il Dottorato di ricerca in “Diritto dell’Economia e del Mercato” presso ISUFI – Università del Salento. Ha svolto attività di studio e ricerca sul tema dell’organizzazione sanitaria anche in chiave comparata, sfociati in diverse pubblicazioni giuridiche. Svolge l’attività di avvocato amministrativista.