Giovanni Scarafile
Lo scorso 11 Maggio, in Vaticano, nel corso di un incontro con le scuole nell’ambito della manifestazione “La fabbrica della pace”, Papa Francesco ha sostenuto che non c’è risposta alla domanda per cui i bambini debbano soffrire. Non intendo entrare nel merito della tipologia della risposta fornita dal Santo Padre. Di fronte a quel bambino sulla sedia a rotelle, non avrei saputo fare di meglio.
Tuttavia, credo che non si possa fare a meno di porsi il problema di come quella specifica risposta possa essere interpretata da ogni coscienza credente e, prima ancora, pensante: davvero, non c’è possibilità alcuna di capire le ragioni per cui il male si presenta nella nostra vita? Oppure, le ragioni ci sono, ma è meglio non parlarne? Insomma, Dio è coinvolto nel male del mondo?
Com’è evidente, si tratta di questioni enormi che fanno tremare i polsi e che, nonostante questo, non smettono di interpellarci. Esse costituiscono l’ambito della teodicea, il tentativo di esonerare Dio dall’essere implicato ad un qualsiasi livello con il problema del male.
La intrinseca plausibilità della risposta per cui non ci sono risposte di fronte al male non dimostra forse il fallimento della stessa teodicea? A mio avviso, no. È vero, però, che di un fallimento è possibile parlare. Mi riferisco, in particolare, al fallimento degli esperti di teodicea di comunicare che il proprio specialismo non è solo materia per addetti ai lavori: chi, infatti, può dirsi estraneo al problema del male ed indifferente rispetto alle possibili risposte a quel problema?
In effetti, gli studiosi di teodicea sembrano rinchiusi in una fortezza dalla quale possono indisturbati scrutare, a distanza di sicurezza, le debolezze del mondo. Proprio quella distanza di sicurezza corrisponde, tuttavia, ad una triste abdicazione. La teodicea, e più in generale la filosofia di cui la teodicea è parte, deve uscire dalle fortezze mediante una estroversione contaminante. In questo modo, facendosi compagna di strada dell’homo patiens, essa potrà essere il volto di una misericordia che ha molto in comune con quella “carità dell’intelligenza” di cui Paolo VI aveva parlato.
Quanto precede, significa che allora esistono risposte belle e pronte al problema del male? No, tutt’altro. Le risposte, quelle definitive che tutti noi cerchiamo, non ci sono. Un conto, però, è di cercarle e non trovarle. Un altro, è di smettere di cercarle. Sul primo versante, infatti, l’uomo esercita la sua missione di uomo. Sul secondo, egli ha invece disertato, aiutato in questo dagli specialisti più interessati alle cerimonie interne ai propri saperi o alle proprie chiese, che al compito di comunicare adeguatamente i risultati delle proprie ricerche.
Ci aiutano a trovare il giusto orientamento nella dinamica appena descritta le lapidarie parole scritte nel 1977 in “Fede e Critica” da Guido Morselli: “Bisogna, ragionando, convincersi che il ragionamento non è sufficiente”.
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