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When you’re suffering, that’s when you’re most real. Coscienza artificiale e relazioni in Westworld.

In Film Review, Filosofia, la perigliosa frontiera, Visioni on 23 May 2020 at 9:07 AM

Emma Bufardeci

Cosa succederebbe se un giorno si costruissero robot indistinguibili dagli esseri umani? Finora, una delle risposte più creative e raffinate si trova in Westworld, serie televisiva americana del 2016: l’ambientazione vede un enorme parco a tema Old West alle soglie del terzo millennio. I visitatori del parco sono umani in cerca di avventure, a cui è concesso interagire in qualsiasi modo con gli androidi residenti. Questi sono programmati in modo da non poter nuocere agli umani, da cui spesso subiscono violenti soprusi. E quando un robot viene danneggiato, sono previste riparazioni e riprogrammazioni di vario genere: da quella fisica e al reset dei ricordi legati all’ultima violenza subita, fino allo stravolgimento del personaggio e della storia assegnati[1].

A un certo punto, i supervisori del parco riscontrano delle anomalie: ci sono dei residenti che sembrano sognare a occhi aperti. Alcuni urlano come in preda agli incubi oppure parlano da soli. Ognuno di loro sembra rivolgersi a un fantomatico interlocutore di nome “Arnold”. Così, il capo della Divisione Programmazione, Bernard, riferisce la situazione al direttore creativo nonché unico fondatore in vita del parco, il Dottor Ford. Si aprono allora una serie di digressioni narrative, dove vediamo il cofondatore del parco, per l’appunto, Arnold, battersi strenuamente per la costruzione di una “vera” coscienza per gli androidi. Ma, come narra lo stesso Ford, Arnold arriva a malapena a creare una sorta di “linea guida”: la percezione di una voce interiore, la sua, nella speranza che un giorno questa venga sostituita da una voce interamente derivata dall’androide stesso. Scopo di questa è far salire i gradini di una “piramide”, con alla base la memoria, poi l’interesse personale poi l’improvvisazione.

 

Ma l’incapacità di definire la punta della piramide porta Arnold alla pazzia. In realtà, il motivo per cui Arnold non trovasse la punta della piramide viene svelato in un flashback dallo stesso: «Consciousness isn’t the journey upward but a journey inward; not a pyramid but a maze.  Every choice could bring you closer to the center or send you spiralling to the edges to madness». L’immagine del labirinto contiene un doppio significato: l’esperienza di un percorso dove la scelta ad ogni bivio ha una conseguenza, e, al contempo, la ricerca di una meta ben precisa, il centro del labirinto. Esso rappresenta la più intima consapevolezza di sé: il punto in cui l’androide, guardandosi indietro, può finalmente rispondere alla domanda “chi sono io?”[2]. Il modello del labirinto, per quanto esemplificativo, ci permette di rappresentare come l’idea di una vera e propria umanità robotica possa prendere forma. L’immagine denota un’idea del tutto originale: il programmatore allestisce solo la struttura del viaggio, non lo prefigura per intero. In fin dei conti, nessun labirinto corrisponde all’esatto percorso che ciascuno dei visitatori farà all’interno di esso. Lo stesso ingresso nel labirinto non è una condizione che si pone automaticamente con la costruzione del robot. Ed è in questa medesima condizione che giace il vero motivo concernente il reset dei traumi subiti: dietro alla sensatissima idea di un atto di carità da parte dei capi del parco, si cela, in realtà, la negazione dei “biglietti d’ingresso” al labirinto dell’interiorità[3].

Il poster originario del film “Westworld” (1973)

La coscienza dei protagonisti, in quanto frutto di un viaggio, ha bisogno di tempo. Tuttavia, anche quando interamente simulata, essa è in grado di evocare le stesse reazioni di un essere umano[4]. A tal proposito, una delle questioni future potrebbe essere costituita dall’illusione di eguagliare una relazione umano-robot (HRR) a una umano-umano (HHR). Tale rischio deriverebbe dal dimenticare lo scopo per cui si costruisce un robot: il soddisfacimento di un’esigenza umana.  Antropomorfizzare un robot comporterebbe, quindi, la pretesa di ritrovare le dinamiche di una HHI in una HRI o viceversa. Proviamo a immaginarne le conseguenze: da un lato, l’illusione di aver trovato l’equivalente di una HHR nella pseudo-relazione HRR sbatterà contro il dato di una programmazione cucita su misura per il proprio utente[5]; dall’altro, la pretesa di rivedere le stesse appaganti dinamiche di una HRR in una HHR verranno deluse, portando a conseguenze alienanti. Inversamente, ipostatizzare l’elemento dell’artificio porterebbe all’eccesso opposto dell’antropomorfizzazione: la reificazione dell’androide. Essa consiste nell’adozione di una serie di comportamenti crudeli giustificati dal fatto di non avere una vera persona davanti. Le maggiori argomentazioni volte a contrastare una eventuale normalizzazione del fenomeno ci provengono dalle contaminazioni fra psicologia ed etica della virtù: l’individuo umano trarrebbe un piacere che deriva esclusivamente dall’antropomorfismo estetico e comportamentale dell’androide. Lo stesso piacere difficilmente sarebbe ottenuto dal maltrattamento di un dispositivo che non riproduce alcun tipo di attività o sembianze umane. Inoltre, nella HRR la reiterazione di un comportamento violento rimane, comunque, un problema per l’umano che lo assume: egli, appagando un’inclinazione tossica, ne favorisce la crescita. I rischi per le sue effettive relazioni sociali sono tangibili per almeno due motivi: la disposizione compiaciuta è sita in una dimensione prerazionale per cui è irrilevante se l’esperienza di rafforzamento derivi da un umano vero o da una simulazione di esso[6]; consolidare qualsiasi attitudine rivolta al potere incontrastato implica automaticamente una disgregazione di tutte quelle inclinazioni che favoriscono le relazioni sociali. In altre parole:

Such privilege towards robots is likely to encourage self-indulgent and complacent habits, boost the self-awareness of the human users, erode their inhibitions, spoil their sense of empathy, and – worst-case scenario – motivate them to tolerate, justify, or even replicate abusive behaviours against actual living creatures. If these dynamics were replicated on a massive scale, they could exacerbate social tensions in large communities and deteriorate civil cohesion.[7]

Pertanto, più che delle istruzioni per l’uso, l’intelligenza artificiale ha e avrà bisogno di una educazione alla relazione con essa. Un punto di partenza per l’indagine filosofica potrebbe essere il ripensamento, a partire dal contesto, proprio di quella dicotomia soggetto/oggetto che per prima fonda il rischio di un abuso autodistruttivo.

 

 

Note

[1] La totale incoscienza dell’androide a riguardo è esemplificata dalle varie scene in cui una delle protagoniste, Dolores, succube di una routine prestabilita, comincia ogni giornata allo stesso identico modo: stessi pensieri, stessi scambi con l’androide programmato per rivestire il ruolo di padre e le stesse azioni finalizzate agli incontri con i visitatori.

[2] A. Ourri, An Analysis of Identity in Artificial Intelligence as presented in Westworld (p. 5).

[3] Il fulcro di questa tesi è racchiuso in un dialogo fra il Dottor Ford e Bernard, il quale, nel frattempo, ha scoperto di essere non solo egli stesso un androide, ma perfino la medesima copia del defunto Arnold:

«B- (…) I do not understand the things that I feel. Are they real, the things I experienced? My wife? The loss of my son?

F- Every host needs a backstory, Bernard.  You know that.  The self is a kind of fiction, for hosts and humans alike. It’s a story (…) and every story needs a beginning. Your imagined suffering makes you lifelike.

B- Lifelike…but not alive? Pain only exists in the mind – it’s always imagined. So, what’s the difference between my pain and yours? Between you and me? ». Durante il controllo di alcuni assetti, i programmatori scoprono elementi nuovi, le reverie, sfumature del linguaggio corporeo ricollegate a ricordi cancellati, riattivate da Ford, ai fini di fornire ad alcuni androidi “segretamente” l’accesso al labirinto.

[4] Un esempio più semplice ed emblematico potrebbe essere quello del tecnico Henri Li che copre l’androide nudo durante una riparazione. Il robot non può sentire freddo, non può provare vergogna. E il tecnico lo sa bene. Ma la mera visione di una presenza identica a quella umana tocca la dimensione prerazionale della compassione e genera spontaneamente una risposta che è indifferente alla conoscenza della macchina.

[5] È il caso di William, il quale, dopo aver vissuto una serie di peripezie con Dolores, ne perde le tracce. Forte della presenza di un sentimento genuinamente ricambiato dall’androide, la ritrova l’indomani a compiere lo stesso identico gesto che aveva portato alla loro conoscenza, con un altro ospite.

[6] M.L Capuccio, A. Peeters, W. McDonald, Sympathy for Dolores. Moral Consideration for Robots based on Virtue and Recognition (pp. 6-9).

[7] Ivi, pag.  18

 

 

 

Uno spaccato inesorabile dell’umano

In Film Review, Visioni on 25 November 2016 at 11:20 AM

Lucia Totaro Aprile

Si, proprio la banda composta da musicisti in divisa, con al seguito strumenti a fiato e percussioni. Gli intenditori affermano che gli strumenti a fiato riproducono la voce umana. È difficile obiettare ad una tale affermazione. Gli strumenti a fiato sono a contatto diretto con la fisicità più interiore dell’uomo. Un fiato è il respiro diaframmatico. È la sensualità vellutata del clarinetto. È la vibrazione contaminante della tromba. Cosa è più comunicante di una tonalità, di un accordo musicale, di un arpeggio? Cosa è più dialogante di una scala armonica? Se i rumori desolanti, che si odono nelle prima fasi del film del giovane, ma sagace, Eran Kolirin, sono il preannuncio di tutto ciò, ben vengano! Se il colore sgargiante della divisa della Banda della Polizia di Alessandria d’Egitto, recatasi in Israele per esibirsi, farà da cornice ad una partitura, non è possibile muovere critiche a tale scelta! C’è una luce radiosa, che illumina molte scene, composte, talvolta, da paesaggi brulli, con penosi caseggiati sullo sfondo, e che mitiga il silenzio, quel silenzio che non sempre è assenza di parole. Eppure, il film di Kolirin è uno spaccato inesorabile ed impietoso su taluni aspetti della condizione umana, che segnano l’errore, la colpa, il fallimento, il pentimento, l’incapacità di relazionarsi, la solitudine. Quest’ultima sembra la vera protagonista del film. Durante lo scorrere delle scene, si viene assaliti da una domanda: come è possibile non provare angoscia o non sentirsi turbati da un tale scenario? Tutta la trama, pur non sorretta, si badi solo apparentemente, da una colonna musicale, è percorsa da una delicatezza di toni, da una soavità di modi, tali da non permettere di cadere nella trappola di un esito già affidato. È l’andamento del film che fa desiderare ardentemente di ascoltare un brano, una melodia e quando vi è solo un accenno al suono del clarinetto, si fa sentire il disappunto per il desiderio deluso. Ecco udire le note, eseguite dalla voce di alcuni personaggi del film, di una celebre ninnananna; gli stessi restano attoniti, quando uno dei componenti della banda offre loro una sua brevissima composizione.

Non casuale è la scelta del regista di lasciare taluni, ma scarni, dialoghi in lingua originale ed accurata e profonda è la possibilità data allo spettatore di rispondere da sé alla domanda del timido ed introverso ragazzo, nelle vesti dell’inesperto e maldestro corteggiatore, allorché costui chiede al più giovane componente della banda, nel ruolo di navigato dongiovanni, di fargli apprendere cosa si prova alla prima esperienza d’amore. All’ingresso dei giovani protagonisti in discoteca, il film risulta accompagnato da brani musicali tipici della cultura del paese ospitante, sovrastanti la voce di colui che soddisferà la curiosità dell’aspirante amateur; in quel momento, ogni spettatore, raccolto nel proprio intimo, può inserirsi nella scena e, assunte le vesti, non dell’attore recitante, ma dell’autentico protagonista del proprio vissuto, dare una risposta: cosa si prova al cospetto dell’amore! Il film ha diversi tratti esilaranti, che a volte strappano un sorriso ed a volte inducono un vero e proprio riso. Non manca la commozione di fronte al racconto della tragedia familiare vissuta dal Comandante della Banda. Commoventi sono, altresì, i gesti di generosa ospitalità riservati alla banda, che risulta smarrita e girovaga, in un paese straniero, in una località sperduta, i cui pochi abitanti non hanno mai sentito parlare del “centro di cultura araba”, ove i bandisti dovrebbero suonare. Sentono rispondere che in quel posto “non c’è cultura” e vengono fatti oggetto di scherno. Tuttavia, a seguito della accoglienza ricevuta, si intessono le relazioni tra gli ospitanti e gli ospitati. Tra Dina ed il Comandante Tewfiq avviene uno scambio di esperienze: “la musica è meno importante oggi. Le persone pensano ai soldi”. Lei dice:” Le persone sono stupide qualche volta”. “Che effetto fa dirigere una banda?”. Egli risponde con i gesti del direttore d’orchestra e spiega che si sente un intero mondo di suoni. “È come pescare”. Se, dunque, dirigere una banda, un coro, un complesso è come pescare, cosa occorre per dialogare? Lo spiega Tewfiq, con il ripetuto gesto finale del movimento delle mani da Direttore d’Orchestra, mani che si librano nell’aria, per raccogliere l’armonia di suoni sparsi, perché dirigere, suonare è come pescare. Che importanza ha “un finale senza trombe, se non è un gran finale”, se tutto si racchiude in una cameretta, con un bimbo che dorme, al lume di una piccola lampada, cullato dal suono di un carillon? Forse, c’è tanta solitudine, ma altrettanta quiete. E non importa se non c’è una colonna sonora ad accompagnare un film tanto delicato e capace di sfiorare, se basta citare un nome, quello di Chet Baker, per sentire, nell’aria, la sua fantastica  tromba echeggiare brani come When I Fall In Love, You Don’t Know What Love Is, This Is Always, …

La grande bellezza, un anno dopo

In Film Review, la perigliosa frontiera on 11 March 2014 at 6:21 PM

86th Annual Academy Awards - Governors Ball

In un editoriale pubblicato in settimana su “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio rifletteva sulle reazioni alla vincita dell’Oscar del film “La grande bellezza”. In particolare, ci si soffermava su quei commenti in cui si metteva orgogliosamente in risalto la bellezza dell’Italia che con l’attribuzione del premio sarebbe stata finalmente consacrata a livello internazionale.

Proprio su questa rubrica, un anno fa avevamo notato che i personaggi tratteggiati nel film facevano pensare ad un triste catalogo dell’umano, devastato dalla perdita della propria anima. Le passeggiate notturne del protagonista, Jep Gambardella, introducevano una discontinuità rispetto ad una serie di affreschi umani di figure sperdute in una mediocrità placida. “La grande bellezza” come un nuovo bestiario contemporaneo.

Ricordando i principali commenti apparsi sui giornali subito dopo l’attribuzione del premio al film di Sorrentino, Travaglio notava come probabilmente molti commentatori si fossero fermati soltanto al titolo del film. Può essere, in effetti, anche perché non è così desueto che si parli di ciò che si conosce poco.

È anche vero, tuttavia, che il cinema è forse il mezzo espressivo che più di altri permette il “contagio delle idee”. Nell’esperienza filmica, infatti, è come se lo spettatore entrasse così intimamente in contatto con ciò che è visto da non riuscire a contenerne il senso, che dunque diventa debordante, bisognoso in modo incontenibile di essere comunicato agli altri.

Ovviamente ci sono diversi livelli di lettura di un film.

Un primo livello prevede la restituzione del significato di ciò che è stato visto non mediante l’analisi di particolari sequenze, ma piuttosto mediante uno sguardo d’insieme del testo filmico; un secondo livello fa dipendere l’interpretazione dalla cifra stilistica del regista; infine, un terzo livello muove dal riconoscimento della presenza all’interno del film di particolari elementi specifici (inquadrature, scene, ecc.) che significano di per se stessi. Si tratta di vere e proprie centrali di generazione del senso, che non necessariamente vanno ascritte alle intenzioni degli autori.

Il testo filmico è così in grado di significare in modi molteplici, secondo paradigmi differenti. Questo, ovviamente, non significa che tutte le interpretazioni siano equivalenti, né che sia consentita la violenza ermeneutica. Il ricorso a ragioni probanti è, dunque, sempre vincolante.

All’interno di un tale quadro possibilista riguardo l’eventualità per ognuno di cogliere un aspetto veritiero del significato di un film, mi sento tuttavia di mutuare la conclusione dell’editoriale di Travaglio, secondo cui scambiare “La Grande Bellezza” per “un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana”.

Giovanni Scarafile

[Pubblicato nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia del 9 Marzo 2014].

Superstizione ed ossessione

In Film Review, la perigliosa frontiera, Visioni on 2 March 2014 at 9:23 AM


il superstite
Aaron è il più giovane di due fratelli ed è l’unico sopravvissuto ad una tragedia del mare in cui cinque giovani hanno perso la vita. Nello sperduto villaggio della Scozia dove il giovane vive, il drammatico evento viene vissuto all’insegna di antiche superstizioni e leggende. Aaron, protagonista del film “Il superstite” di Paul Wrigt, si trova dunque a vivere nella condizione paradossale di essere considerato colpevole della propria salvezza. Seguito dalla camera a mano del regista, il ragazzo è oggetto di sguardi all’inizio sbalorditi che lentamente declinano verso la disapprovazione. La sola presenza di Aaron equivale al ricordo indelebile della sventura abbattutasi sul villaggio. Nel momento più intenso della vicenda narrata dal regista scozzese, la comunità – quasi un soggetto collettivo – inizia a pensare che la presunta instabilità del ragazzo possa essere la vera causa della tragedia. Il clima in cui vive non lascia indifferente Aaron, che subisce una metamorfosi, divenendo ciò di cui gli altri lo accusano: un essere da tenere alla larga. Nelle mente del ragazzo si insinua la leggenda secondo cui solo l’uccisione del mostro marino che ha causato la tragedia può restituire alla vita i cinque coetanei scomparsi. Così, attraverso un costante ricorso al flashback, Wright ci porta nelle mente del ragazzo in cui ricordi e realtà, immaginazione e  paura si amalgamano in una miscela giudicata dagli altri follia.

 Il film, che arriva nelle sale il prossimo 6 marzo, è valso al regista la candidatura, come miglior esordio,  negli Oscar britannnici (BAFTA 2014). “Il superstite” è un film intenso sull’approccio alla diversità, sulla paura, ma anche sul labile confine che separa la realtà dalle ossessioni. È dunque un lungometraggio sulla complessità di una vicenda psicologica, ben narrata in tutte le sfumature in cui essa si dispiega. Gli attori George McKay, nella parte di Aaron, e Kate  Dickie, nel ruolo della madre Cathy, sono davvero bravi ad incarnare la tensione psicologica e la resistenza del coraggio propri dei protagonisti.  Dal punto di vista stilistico, occorre segnalare i diversi tipi di grana del video di cui il film si compone e che non infrangono, ma anzi rinforzano, l’unità narrativa rispetto alla quale avrebbe forse giovato l’eliminazione di qualche scena che rischia di appesantire una trama comunque avvincente.

Nel clima plumbeo della scena finale del film, alcune grida richiamano gli abitanti sulla spiaggia. Anche Cathy accorre, devastata dall’ennesima scomparsa del figlio. Ciò che si para di fronte ai loro occhi è tale da immobilizzare tutti i presenti. Solo Cathy, spinta da una forza interiore, si avvicinerà alla misteriosa presenza che attende sul bagnasciuga. E così, solo nei fotogrammi finali sapientissimamente scelti dal regista, mentre gli abitanti del villaggio riacquisteranno la propria libertà, il film troverà il suo senso definitivo.

[Pubblicato nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia]