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L’invisibile parte degli esseri

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 3 January 2017 at 7:11 PM

Giovanni Scarafile

 

1. «Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri».

Nelle parole scritte da Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione si fa riferimento ad uno dei primi referti dell’attività percettiva. Per certi versi, quanto rivelato nelle parole del filosofo francese e, prima di lui, in quelle del movimento della psicologia della forma, è sorprendente per diverse ragioni.

Prima di tutto, perché quel referto riguarda il modo in cui è possibile vedere tutto ciò che ci sta intorno. L’esperienza del vedere è una attività talmente costitutiva di ciò che siamo che difficilmente si è disposti ad ammettere che possa essere diversa da come l’abbiamo sempre direttamente esperita. Il vedere è la nostra prima fonte di informazioni e se si scoprisse che le cose stanno in modo diverso rispetto a come ce le aspettiamo, allora saremmo costretti a trarne le conseguenze su molti livelli.

i-segreti-della-scogliera-di-marco-esposito-188x300L’indicazione di Merleau-Ponty sta, dunque, lì come un monito, alludendo ad un rapporto non aggirabile tra visibile ed invisibile. Il nostro vedere, dicono quelle parole, è possibile perché si istituisce una relazione tra la figura e lo sfondo. La figura è l’oggetto su cui di volta in volta dirigiamo lo sguardo. È ciò che vogliamo vedere quando vediamo. È ciò che mettiamo a fuoco. Tale visto è individuato tramite le relazioni che lo collegano a ciò che gli sta intorno.

Si tratta di dinamica inavvertita. Si compie ogni giorno in modo del tutto automatico ed è quindi inevitabile che ad essa non solo non si presti alcuna consapevole attenzione, ma che sotto silenzio cadano le sue implicazioni: alla identificabilità di qualcosa (ciò che vogliamo vedere) noi giungiamo per il tramite di ciò che si oppone a quella stessa identità in costituzione. Per dirla altrimenti, si individua l’essere per il tramite del non essere, o in termini più figurati, la luce per il tramite del buio. Queste entità, pur rimanendo opposte, sono dunque molto meno separate di quanto solitamente si pensi [1].

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Marco Esposito, autore de I segreti della scogliera.

 

2. Giuseppe Scrimieri, lo scrittore protagonista de I segreti della scogliera di Marco Esposito, si rifugia a Torre del Fiume, una località marina sulla costa salentina, per cercare di trovare l’ispirazione giusta per scrivere il suo ultimo libro.

La scelta del luogo non è casuale. Venti anni prima, infatti, il successo del romanzo precedente, ambientato nello stesso posto, era stato in gran parte dovuto alle storie surreali ed inquietanti degli abitanti del paesino. Modificare ad arte i loro nomi, tuttavia, non era stato sufficiente per evitare che si potessero riconoscere come protagonisti della storia narrata. A spiegare l’atmosfera che attende Giuseppe ci pensa lo stesso Esposito:

«Per anni, il male strisciante era cresciuto e si era alimentato sotto di loro, nutrendosi della calunnia come un parassita silenzioso. Le conseguenze del libro l’avevano portato alla luce, svelandolo in tutto il suo orrore. […]. Avevano nutrito il male tutto quel tempo, divenendo inconsapevolmente carne da macello, e ormai era quello il loro destino».

Giunto a destinazione, Giuseppe dovrà ben presto abbandonare l’ingenuità che all’inizio, forse eccessivamente, lo connotava e rendersi conto che la realtà è diversa rispetto alle attese.

Il vecchio Joe, per esempio, con cui nel passato aveva trascorso molto tempo a giocare a scacchi, ora inspiegabilmente gli riserva una accoglienza fredda e distaccata. Maria Cipressi, le vicende del cui figlio Pasquale erano state al centro del precedente libro di Giuseppe, si rivela glaciale, nonostante il garbo apparente. Nadia Cataldo, la pescivendola, con cui lo scrittore aveva avuto un fugace flirt, decide di non farsi trovare.

Nonostante tali diffidenze, Giuseppe si ambienta nella casa sulla scogli9788806129705_0_0_324_80.jpgera dove, ispirato dal mare, ritrova la liturgia della scrittura, fatta di silenzi e concentrazione. Tale ricercata solitudine, tuttavia, non lo isola dalla vita della comunità in cui è tornato a vivere. E così, gradualmente ed inesorabilmente, le vicende dei personaggi del romanzo iniziano ad incastrarsi e Giuseppe comincia a rendersi conto dell’esistenza di fili invisibili che li legano. La vicenda assume un ritmo vertiginoso nella parte finale del libro. Simile ad un lampeggiante di una sirena che, ruotando su se stesso, proietti la sua luce su ciò che gli sta intorno, la scrittura di Esposito con agilità inizia a mostrare i lineamenti di una realtà che, a lungo sopita, si risveglia lentamente. Tanto erano reali le descrizioni dei posti e delle persone nella prima parte del libro, tanto ora nella seconda parte quella accuratezza delle descrizioni lascia spazio ad una inversione delle matrici del reale. Ciò che sembrava normale, si rivela patologico.

Certo, nel libro di Esposito non mancano alcune distonie, come un caminetto acceso in piena estate e forse l’eccessiva ingenuità di Giuseppe. Tuttavia, esse non inficiano il valore di una scrittura che riesce nel difficile compito di rivelare come l’invisibile sia costitutivo delle nostre esperienze, molto più di quanto saremmo soliti aspettarci.

Varcata la soglia della plausibilità dell’invisibile, la stessa realtà assume connotati prima inimmaginabili. Ne I segreti della scogliera tale mutazione viene misteriosamente incarnata da un’anziana donna, che, riconoscibile anche per la presenza di un dente giallo lungo fino al mento, è presente nei momenti salienti in cui la vicenda si dipana. L’identità della vecchina, vestita di nero, seduta su una sedia bianca di plastica in compagnia di un grosso cane nero (richiamo a Cani neri di McEwan?) sarà rivelata solo nelle ultime pagine del romanzo.

3.

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H.P. Lovercraft

Lovercraft, Poe, King, ma anche il cinema di Argento, Cronenberg, Carpenter rappresentano la dichiarata fonte di ispirazione di Marco Esposito, il quale riesce nel tentativo di delineare un affresco della vita di una piccola comunità, ritratta nel momento in cui essa viene a contatto con un agente patogeno in grado di stravolgerne la più intima natura. In assenza di antidoti efficaci (si veda in proposito la timida figura di don Gino, il prete, alla cui assistenza spirituale la comunità di Torre del Fiume è vanamente affidata), una coltre di silenzio e forzato quieto vivere si impossessa di quella comunità, corrodendo dall’interno l’anima dei suoi abitanti.

 

Il libro di Esposito è anche una celebrazione della forza della scrittura, sia perché essa è la materia stessa della narrazione, sia perché lo stesso libro scaturisce, come spiegato dallo stesso Esposito nei Ringraziamenti alla fine del volume, dall’indomita volontà del suo autore di vedere pubblicato il suo manoscritto che lo porta nel febbraio del 2013 a dare inizio ad una felice campagna di crowdfunding.

In conclusione, mentre i personaggi de I segreti della scogliera si congedano, tornando nell’ombra, noi siamo abitati da una certezza nuova: quella invisibilità, infatti, non è tanto una destinazione lontana, frutto della fervida fantasia di un giovane scrittore, ma – in virtù della stretta interconnessione tra visibile ed invisibile – un esito sempre attuale, a seconda dello sguardo di noi lettori. De te fabula narratur.

 

[1] Uno dei modi più convincenti e profondi di pensare le conseguenze di un tale rapporto è dato dagli scritti di Virgilio Melchiorre. In particolare, si vedano i volumi Essere e parola: idee per una antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1992; Figure del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1994 ed il saggio Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, introduzione all’edizione italiana di Finitudine e colpa.

 

La filosofia nelle organizzazioni

In Uncategorized on 22 December 2016 at 9:40 AM

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Giovanni Scarafile

1. Il SAS Institute è una società statunitense produttrice di software, dichiarata da Fortune la migliore azienda del mondo per l’attenzione riservata ai suoi dipendenti. I lavoratori del SAS Institute non hanno un limite ai giorni di malattia, possono pranzare e cenare con le proprie famiglie ed hanno un medico a loro disposizione 24 ore su 24. Ogni mese, inoltre, il CEO incontra i dipendenti nell’ambito di un evento chiamato Conversation over Coffee, per discutere di ogni eventuale problematica emersa nell’ambiente di lavoro [1].

Dagli asili per i figli dei dipendenti di Google, al programma di finanziamento degli studi per i dipendenti di Starbucks, gli esempi relativi alla promozione delle istanze dei lavoratori sono molteplici, anche se – superata la meraviglia iniziale – non sfugge che in molti casi si tratti di abili strategie funzionali al miglior perseguimento del profitto più di autentica attenzione alle persone. Indipendentemente dalla valenza che possiamo loro attribuire, tali dinamiche segnalano una trasformazione in atto nei contesti lavorativi, dove si affaccia, talvolta in modo prepotente, la possibilità di un lavorare bene, per il tramite del coinvolgimento delle risorse della filosofia.

Ad indagare i molteplici aspetti di una tale trasformazione interviene La filosofia nelle organizzazioni (Carocci 2016), il volume di Stefania Contesini, filosofa e counselor filosofica, da anni impegnata a riflettere su queste tematiche. In termini generali, il merito del libro è di fornire la cornice teorica ed alcuni strumenti di metodo perché la filosofia possa essere ritenuta credibile come sapere di riferimento affianco agli approcci teorici, ritenuti – a torto o a ragione – più accreditati.

2. La consulenza filosofica rientra nell’ambito della filosofia applicata. A scanso di equivoci, tuttavia, un tale applicabilità non è sinonimo di secondarietà in relazione ai compiti della stessa filosofia. In altri termini, sarebbe errato concepire i contesti come meri contenitori di idee pensate eminentemente in un altrove puro ed incontaminato. In ambito filosofico, la riscontrabile persistenza di tale pregiudizio è principalmente ascrivibile alla confusione tra rigore ed esattezza. Spesso, infatti, si tende a far coincidere la filosofia tout court con la sua distanza dal reale. Secondo questo modello, più questa distanza è accentuata più la filosofia può cogliere esattamente l’essenza delle cose. È senz’altro vero che la filosofia è sapere dell’immutabile. Tale constatazione, tuttavia, non fa della filosofia un sapere esatto. L’esattezza, propriamente detta, infatti, è più appropriatamente riferibile alle scienze il cui oggetto è statico, mentre nel caso della filosofia l’oggetto di pertinenza – pur nei limiti e con tutte le riserve insite in una tale attribuzione – è dinamico. In tal senso, andrebbe ricordata l’indicazione di Rickert secondo il quale, a differenza dei saperi particolari il cui obiettivo è di produrre conoscenze specialistiche di singoli ambiti del reale, la filosofia è quel sapere al cui interno deve essere assegnata una posizione anche all’io, cioè all’uomo. In virtù di tale specifica configurazione, l’ambito di pertinenza del filosofare non può che essere pensato come dinamico, senza con questo incorrere nell’errore di ritenere che tale dinamicità sia sinonimo di mancanza di rigore.

Del resto, già Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea, con il riferimento al regolo di Lesbo, l’unità di misura flessibile, simile al metro oggi utilizzato dai sarti, aveva proposto una delle più efficaci metafore per indicare la specificità di un sapere filosofico che rimane universale ed oggettivo in virtù della sua specificità di conformarsi ai contesti, per quanto non lineari essi possano essere. L’applicabilità è valore aggiunto, dunque. Del resto, l’idea di giustizia, senza l’equità, che della giustizia rappresenta la declinazione ai casi particolari per il tramite della phronesis, rischierebbe di diventare una idea disincarnata e decontestualizzata. In anni più recenti rispetto ad Aristotele, e sulla scia del movimento della Rehabilitierung der praktischen Philosophie, è stato Gadamer in Verità e metodo, a ricordare che «il sapere morale non può mai, per principio, avere il carattere di un sapere insegnabile tutto compiuto prima dell’applicazione» [2].

L’operatore morale, cioè, può trovare il valore non prescindendo dalla situazione in cui quello stesso valore dev’essere perseguito. Il contesto, dunque, costituisce non un ambito derivato, ma essenziale per lo stesso costituirsi del sapere morale. Conseguentemente, anche la filosofia che si confronta con i contesti non può essere sdegnosamente derubricata ad una esercitazione, secondaria rispetto ad una presunta attitudine filosofica pura.

Stefania Contesini, autrice del volume La filosofia nelle organizzazioni

Stefania Contesini, autrice del volume La filosofia nelle organizzazioni

3. All’interno delle organizzazioni, le prime richieste rivolte al filosofo sono di individuare e fornire strumenti operativi originali per conseguire nel modo più efficace possibile gli obiettivi che il management si pone. Ovviamente, già nella definizione di una tale richiesta, è operante una sorta di retorica del management che, in base al presunto valore taumaturgico assegnato alle soluzioni prêt-à-porter, intende canalizzare le competenze filosofiche in una direzione specifica. Se, dunque, una delle condizioni poste al filosofo è di essere concreto e non astratto, perché è solo al livello della concretezza che si pongono i fatti, il lavoro del filosofo nelle organizzazioni mira invece, senza demonizzare gli strumenti, a far cogliere il valore di una risemantizzazione delle stesse nozioni di astratto e concreto. Con l’avversione per la teoria, spiega Contesini, «si perde di vista il fatto che ognuno di noi agisce sulla base di teorie, o abbozzi e frammenti di esse, che rimangono spesso impliciti e che costituiscono quel sapere tacito attraverso cui formuliamo i nostri giudizi sul mondo e prendiamo le nostre decisioni».

Nella esaltazione dei fatti, contrapposti alla teoria, si dimentica «il loro intrinseco legame con il pensiero che li significa, con le emozioni che li qualificano e con la comunicazione che li scambia e li trasforma». Il risultato paradossale è che «le aziende, nonostante la loro dichiarata avversione per l’astratto, finiscono per praticare l’astrazione molto più di quanto non credano».

4. A questo punto, la filosofia può mettere in campo almeno cinque grandi competenze.

1) Competenze di concettualizzazione. Corrispondono all’abilità di assumere una distanza dalla immanenza fusionale, la corrente continua che ci lega alle cose, per fare in modo che le cose stesse ed il nostro modo di riferirci ad esse possano diventare oggetto di uno sguardo critico;

2) Competenze di argomentazione. È una vera e propria «postura etica», corrispondente al confronto di ragioni mediante le forme espressive utilizzate per comunicare. È anche vero – e puntualmente segnalato dall’Autrice – che questo genere di competenze nelle attuali prassi lavorative, sempre più connotate dall’incremento della velocità con cui produrre risultati e dalla riduzione dei tempi a disposizione, rischiano di sembrare desuete. A maggior ragione, il ricorso al loro uso costituisce una scelta qualificante per un approccio autenticamente filosofico.

3) Competenze di giudizio. Non solo la capacità di unire universale e particolare, ma anche di considerare, rendere tematica e confrontare i criteri in base ai quali si giudica.

4) Competenze di valutazione morale. Corrispondono al necessario orientamento comportamentale in una determinata situazione: «Valutare razionalmente la moralità di un’azione significa metterla in questione, cioè effettuare un’indagine critica delle argomentazioni che vengono presentate a sostegno dell’azione medesima».

5) Competenze di sensibilità morale. Consistono nel fare uso e corretto riferimento al mondo degli affetti, considerate dall’autrice alla stregua di precondizioni per la vita etica. L’Autrice sembra così prendere le distanze dall’etiche sentimentalistiche che considerano il sentimento «la fonte normativa del giudizio morale».

Dopo il loro richiamo, tali competenze vengono calate nel contesto delle organizzazioni in modo da coinvolgere le persone in «scenari culturali nuovi, chiamate a recidere, anche se per poco, il rapporto diretto con il quotidiano e a sperimentare un effetto di estraniamento, di spiazzamento cognitivo ed emotivo». Scopo di tale distanziazione è di consentire un reingresso nelle situazioni lavorative alla luce di un nuovo sguardo sull’esistente. Ovviamente, una tale operazione non può riguardare solo i singoli, coinvolti in un percorso di formazione, ma deve trovare la disponibilità delle stesse organizzazioni al cui interno i singoli operano, «perché se è vero che le persone sono in grado di fare massa critica e modificare dal basso le prassi lavorative, è altrettanto vero, e purtroppo più ricorrente, che una cultura organizzativa dissonante ha un forte potere inibitore rispetto a qualsiasi cambiamento si chiede ai soggetti».

5. Un ulteriore aspetto esaminato dall’A. sono le soft skills, competenze trasversali a più figure professionali, fondamentali per la corretta gestione del ruolo lavorativo. Assertività, autovalutazione ed ascolto fanno parte di tali competenze. Ad ognuna di esse, l’Autrice dedica specifici paragrafi, ricostruendone la genesi e gli sviluppi possibili. Nel caso dell’ascolto, non si tratta soltanto di individuare una serie di pratiche in cui esso può essere praticato. Richiamando il pensiero di Jean-Luc Nancy, Contesini ricorda come l’ascolto sia tensione verso un senso possibile, anche se non immediatamente dato. L’effettivo accoglimento della proposta filosofica dell’ascolto, con i tempi richiesti da una sua attuazione, è anche il discrimine per distinguere quei contesti lavorativi in cui l’intervento del filosofo non sia vissuto come semplice operazione di maquillage da parte del management. Riconoscere tali istanze di subordinazione della filosofia è fondamentale anche per scongiurare e disinnescare il sempre operante snobismo dei puristi del pensare i quali, ricordando Foucault, ritengono che la formazione nelle organizzazioni sia funzionale al mantenimento degli equilibri di potere sussistenti. Di fronte ai due approcci confliggenti, l’esaltazione del management da un lato e la rivendicazione della specificità di una presunta filosofia pura dall’altro, l’A. cerca una terza via, non prima di aver opportunamente segnalato che il rifiuto sdegnato ad occuparsi dei contesti tristemente consegna questi ultimi all’anomia vera e propria. Scrive, in proposito, Contesini: «lavorare per un miglioramento di capacità e atteggiamenti non esime dal continuare a battersi per realizzare, con altri metodi e interventi, quei cambiamenti in grado di portare maggiore equità, diritti e sicurezza nell’ambito lavorativo».

6. Muovendo dall’ottimo libro di Stefania Contesini, in conclusione, sia consentito di riflettere in termini più generali sulla stessa consulenza filosofica.

Essa sembra fronteggiare una sorta di cortocircuito: per poter essere accolto, il counseling richiede nei destinatari quell’attitudine all’ascolto la cui palese assenza è lo stesso presupposto per l’invocazione del counseling. Da tale inaggirabile prospettiva, sembrerebbe allora che ogni possibile proposta di counseling sia destinata, a causa dell’assenza di una grammatica comune con i suoi potenziali beneficiari, a sortire effetti blandi nelle realtà alle quali si rivolge.

In altri termini, il rischio è che si convincano della bontà della consulenza filosofica coloro che ne sono già convinti. Lo spazio della persuasione razionale mediante cui si cerca con buoni argomenti e fondate ragioni di convincere i propri interlocutori può non essere sufficiente.

Più convincente appare l’indicazione contenuta nella parole di Adam Smith, il quale ne La ricchezza delle nazioni [4] aveva osservato che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal lor rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza». Di fatto, quelle parole suggeriscono un paradigma diverso che, certo, non rinunciando alla persuasione razionale e all’attitudine all’ascolto degli interlocutori, faccia leva sulla loro convenienza: «Perseguendo il proprio interesse – osserva ancora Smith – un individuo spesso fa progredire la società più efficacemente di quando intende davvero farla progredire». Nel richiamo alla convenienza, il filosofo ed economista scozzese individua un movente interno, effettivamente presente negli interlocutori e non semplicemente auspicato.

A mio avviso, oggi noi ci troviamo in una posizione per certi versi analoga. Il cambiamento che cerchiamo richiede risorse e leve che non possono essere soltanto auspicate o ritenute esistenti di fronte all’evidenza della loro assenza. A maggior ragione, quindi, la formulazione di proposte cogenti costituisce ancora di più un ideale regolativo irrinunciabile con il quale il counseling non può fare a meno di confrontarsi quale condizione della sua stessa efficacia.

 

 Riferimenti bibliografici

 

  1. D. D’Acquisto, 5 grandi aziende che hanno reso i propri dipendenti felici, http://www.ninjamarketing.it/2015/06/10/5-grandi-aziende-che-hanno-reso-i-propri-dipendenti-felici/, visitato il 12 dicembre 2016.
  2. H-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1992.
  3. Rickert, Filosofia, valori teoria della definizione, a cura di M. Signore, Milella, Lecce 1987.
  4. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 2005.

 

Kierkegaard: vivere nella realtà negata

In Uncategorized on 11 August 2016 at 12:16 PM

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Igor Tavilla

Stig Dalager, L’uomo dell’istante. Un romanzo su Søren Kierkegaard, tr. it. a cura di Ingrid Basso, Iperborea, Milano 2016

«La vita può essere capita solo all’indietro [ma va vissuta in avanti]». Questa sentenza, tratta dal Diario di Søren Kierkegaard, sembra aver ispirato la scelta di Stig Dalager di percorrere a ritroso la biografia del filosofo danese, a partire dagli ultimi giorni di vita trascorsi presso il Frederickshospital di Copenaghen dove Kierkegaard si ricovera dopo essere stato colto da un malore per strada. Costretto a letto da un’infermità di cui nessuno riesce a diagnosticare la causa, il filosofo appare già rassegnato alla morte e più che attendere a un lucido bilancio della propria esistenza, rivive una serie di ricordi che affiorano alla coscienza tra il sogno e la veglia.

Come nota Ingrid Basso, traduttrice e curatrice del romanzo, Dalager propone al lettore il ritratto inedito di un uomo fragile, incapace di reggersi sulle proprie gambe, con una testa troppo pesante in proporzione al corpo, indice di una contraddizione profonda tra la dimensione dell’ideale, alla quale Kierkegaard si è consacrato, e il piano concreto di realtà. Più che una condizione transitoria, la ‘malattia’ si presenta dunque come la cifra che contrassegna dolorosamente l’intera esistenza del filosofo danese, e al cui debole lume si consuma la storia d’amore con Regine Olsen – la giovane donna che il filosofo abbandona dopo appena un anno di fidanzamento, ma a cui non smetterà mai di pensare come all’unico amore della sua vita.

La decisione di rompere con Regine matura, com’è noto, dalla sofferta consapevolezza che la malinconia, di cui Kierkegaard si sente prigioniero, avrebbe inevitabilmente reso infelice l’amata e trasformato il matrimonio in una continua e quotidiana tortura. Pur di restituire a Regine la propria libertà, Kierkegaard cerca dunque di passare ai suoi occhi per una canaglia e un poco di buono, ma la fidanzata, che subodora questa macchinazione, si rifiuta di lasciarlo. Alla fine, dovrà arrendersi di fronte all’irremovibile fermezza di lui, malgrado gli sforzi compiuti per convincerlo a restare. Anche quando, però, la relazione si è ormai ufficialmente interrotta, l’attrazione tra i due non si esaurisce. I loro sguardi continueranno a incrociarsi lungo le strade della cittadina danese, fino alla partenza di Regine per le Indie Occidentali al seguito del marito Fritz Schlegel.

La ragione profonda di questa condotta apparentemente incomprensibile risiede nell’incapacità di Kierkegaard di amare la giovane fidanzata hic et nunc, nella pienezza dell’istante. Il filosofo può soltanto ricordare e cantare l’amore – come la forza seduttiva dell’epistolario s’incarica di dimostrare – e può farlo a una condizione: che l’amata sia lontana. Infatti, da vero poeta, quale egli si considera, l’unico elemento in cui si sente a proprio agio è l’idea, cioè la realtà negata: il fantasma della realtà. A quest’ultima s’interessa, semmai, solo per trarne spunti da offrire alla sua fervida immaginazione, come accadeva quando era bambino e, mano nella mano con il padre Michael Pedersen, compieva lunghe passeggiate virtuali tra le quattro mura dell’appartamento di Nytorv.

La stessa produzione letteraria e le categorie che improntano la filosofia del Danese risultano pertanto segnate dalla sua tormentata esperienza interiore. Così, se attraverso l’aut-aut Kierkegaard certifica l’impossibilità di armonizzare le contraddizioni del proprio essere, la categoria del singolo ipostatizza l’isolamento in cui egli si trova confinato. Allo stesso modo, la malattia per la morte (descritta nell’omonima opera del 1849) rappresenta la disperazione – che Kierkegaard ben conosce – di volere essere se stessi e non poterlo diventare, mentre l’angoscia è il sentimento paralizzante della libertà di potere che pure il filosofo ha dolorosamente sperimentato in prima persona. In quest’ottica, anche gli autori fittizi, ai quali Kierkegaard aveva attribuito la paternità delle proprie opere allo scopo di promuovere nel lettore una scelta responsabile di vita, finiscono per apparire, in realtà, come altrettante maschere dietro le quali si agita una personalità frammentata e in conflitto con se stessa.

Sapendosi privo del coraggio necessario per diventare marito e riconoscendosi inadatto a svolgere il servizio pastorale, a Kierkegaard non resta che interpretare la propria impotenza come un segno profetico, ritenendosi chiamato da Dio a un compito speciale: risvegliare l’esigenza della fede nei propri contemporanei. Non siamo troppo lontani dalla spiegazione genealogica del cristianesimo, alla cui origine Nietzsche poneva il risentimento dell’uomo debole nei confronti della vita. Nell’opera di Dalager – su cui ci sembra aver inciso in misura determinante la monumentale e documentatissima biografia di Joakim Garff (Castelvecchi 2013) – il cristianesimo si presenta infatti come un elemento tutto sommato secondario, indotto dall’educazione paterna e via via radicalizzato nella polemica con l’autorità religiosa del tempo. A tale proposito è dato notare come, nelle quasi quattrocento pagine di cui consta il romanzo, Kierkegaard non prenda mai in mano la Bibbia («il libro – aveva fatto dire al famoso ‘qualcuno’ degli Stadi sul cammino della vita – che leggo più spesso, sta sempre sul mio tavolo») e non si raccolga in preghiera nemmeno una volta. Il filosofo si dimostra, al contrario, un distratto frequentatore di chiese, completamente assorbito dalla propria vicenda amorosa, persino quando proclama la parola di Dio dal pulpito di Kastelskirke.

Un romanzo su Kierkegaard non poteva che essere anche un romanzo su Copenaghen, la città in cui il filosofo ha trascorso l’intera esistenza e alla quale lo legava un rapporto simbiotico paragonabile a quello che univa Socrate ad Atene. Passeggiare all’aria aperta, percorrere in carrozza i viali della capitale e chiacchierare con la gente del popolo offriva, per altro, a Kierkegaard un valido diversivo per sfuggire alla propria malinconia. Il lirismo dei paesaggi, descritti da Dalager con la semplicità e l’immediatezza del ‘colpo d’occhio’ (questo il significato etimologico del termine danese øjeblik, ‘istante’) fa da controcanto a una prosa sorvegliata ma scorrevole, che il lettore italiano ha il piacere di leggere nella traduzione esperta di Ingrid Basso. Il ricorso insistito al flash-back, la forza misurata dei dialoghi, l’uso della soggettiva libera indiretta, la studiata alternanza di interni ed esterni, la scansione del romanzo in lunghi piani sequenza anziché in capitoli, contribuiscono a rendere la biografia di Dalager un interessante ‘esperimento’ cinematografico, dove la vita di Kierkegaard scorre sotto i nostri occhi come un’ininterrotta successione di istanti mancati su cui la morte stende infine il suo pietoso sipario.

Immagini alla velocità della luce (o quasi)

In Uncategorized on 4 August 2016 at 9:32 PM

Roberto Greco, Giovanni Scarafile

 

Quanto siamo veloci a percepire un’immagine? Quali conseguenze può avere una tale domanda nelle attività che svolgiamo ogni giorno?

Mary Potter, Professoressa Emerita di Psicologia del Massachusetts Institute of Technology, autrice di un recentissimo studio al riguardo, ci aiuta ad orientarci nell’ambito del primo quesito.

Il cervello umano – scrive la scienziata –  è in grado di processare un’immagine in soli tredici millisecondi. Si tratta di un vero e proprio record, considerando che in studi precedenti si era sostenuto che fossero necessari almeno cento millisecondi.

Secondo la Potter, dunque, ciò che il cervello compie tutto il giorno (tra le altre cose) è una reazione continua a stimoli visivi altrettanto continui. In altre parole, ogni persona cerca solo di vedere ciò che ha di fronte, scegliendo, tra ciò che vede, solo le informazioni necessarie ad una comprensione, perlomeno, sommaria.

Gli occhi spostano lo sguardo circa tre volte al secondo e una capacità “allenata” nel processare le informazioni viste può sicuramente portare lo sguardo su un nuovo target in modo più dinamico. Quando lo sguardo “colpisce” qualcosa, la retina invia le informazioni al cervello, che ne elabora forma, colore ed orientamento.

L’esperimento della professoressa Potter si è svolto con l’utilizzo di una risonanza magnetica funzionale, aumentando gradualmente la velocità di presentazione su schermo di alcune immagini, in precedenza non mostrate ai partecipanti. Studi precedenti (Del Cul, A., Baillet, S., & Dehaene, S. 2007) avevano mostrato come il cervello impiegasse circa cinquanta millisecondi per spedire l’informazione visiva dalla retina alla corteccia visuo-temporale, per poi spedire l’informazione ad altre aree cerebrali per “confermare” ciò che l’occhio aveva percepito (con un’ulteriore tempistica da considerare).

In questo modo si è dimostrato invece come l’elaborazione delle immagini non viaggi su tempistiche così “lunghe” ed articolate. Diminuendo progressivamente il tempo di percezione, l’ipotesi di un tempo percettivo inferiore per le immagini è stata confermata.

Non solo, un costante allenamento visivo ha ampiamente aumentato i risultati conseguiti dai partecipanti all’esperimento.

Lo studio ha inoltre dimostrato che l’informazione visiva, per essere processata, ha bisogno di un solo canale di elaborazione. Si tratta del canale che parte dalla retina e arriva al lobo temporale, zona cerebrale adibita al riconoscimento visivo.

A sua volta, lo sguardo necessiterà di ulteriore tempo per decidere sull’obiettivo su cui rimanere concentrato.

Nonostante la brevissima durata di presentazione, il cervello continua il processo di elaborazione e l’informazione continua ad essere trattenuta in memoria. Com’è stato possibile provarlo? Al partecipante veniva mostrata la lista di immagini che aveva visto durante l’esperimento. Se ne ricordava la presenza, aveva sicuramente richiamato alla memoria gli stimoli, nonostante la velocità estrema con cui erano stati presentati.

Prima di illustrare la specificità pratica di quanto illustrato finora, si pensi alla visione di un fulmine. Osservare un fulmine equivale a sfruttare le stesse caratteristiche visive e di memoria descritte sopra. Siamo in grado di vedere la forma del fulmine – ed eventualmente di ricordarla – nonostante esso compaia nel cielo per pochissimi decimi di secondo.

Il fulmine, pur presentandosi alla vista per un tempo infinitesimale, è processato e riconosciuto comunque come informazione visiva.

Bene, ora consideriamo quanto abbiamo illustrato finora e proviamo ad adattarlo alle consuete attività in cui siamo impegnati.

Al giorno d’oggi, sia nel luogo di lavoro sia nelle nostre vite private (si pensi ai social network), tutti facciamo uso di immagini. Esse sono spesso utilizzate come accompagnatrici delle parole. Si pensi, solo per fare un esempio, all’uso di immagini nelle presentazioni durante una conferenza. Quando ciò accade, le potenzialità di una immagine sono ampiamente sottostimate, dal momento che il messaggio comunicato da un’immagine viene percepito molto più velocemente di quanto non accada con le parole.

Hillman ha osservato che «l’immagine è massacrata e imbottita di concetti» (Hilman 1984: 91). Quelle parole, anche alla luce dei riscontri di cui si parla in queste righe, vanno in direzione della restituzione o nuova attribuzione di centralità allo spettatore e alla stessa esperienza della visione. Liberati, infatti, dal peso sovraordinante di approcci teorici precostituiti, si può forse porsi in ascolto delle immagini.

 

Bibliografia

 

Del Cul, A., Baillet, S., & Dehaene, S. (2007). Brain dynamics underlying the nonlinear threshold for access to consciousness. PLoS Biology, 5, 2408–2423

Potter, M.C., Wyble, B., Hagmann, C.E., & McCourt, E.S. (2014). Detecting meaning in RSVP at 13 ms per picture. Attention, Perception, & Psychophysics, 76(2), 270-279. DOI 10.3758/s13414-013-0605-z

Hillman, J. 1984. Storie che curano. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Risolvere conflitti

In Uncategorized on 27 July 2016 at 5:11 PM

don't raise

Mattia Galati

Le situazioni di contrasto, siano esse diverbi tra automobilisti, liti coniugali, confronti accademici relativi a tematiche specifiche, costituiscono aspetti con i quali ci confrontiamo ogni giorno.

Il pensiero di Marcelo Dascal costituisce un importante strumento teorico che permette di destreggiarsi in quest’ambito; consente, infatti, di identificare il conflitto in cui si è coinvolti, in modo tale da conoscerne i limiti e sfruttarne i pregi.

Secondo il filosofo, i dibattiti possono essere classificati, in base ad obiettivo, azione caratteristica e conclusione, in tre tipi.

Il primo è la discussione, nella quale ognuno dei contendenti cerca di affermare la veridicità della propria tesi e la falsità di quella avversaria attraverso prove razionalmente rigorose che permettano di determinare una soluzione conclusiva.

Il secondo è la disputa, che si configura come una lotta verbale nella quale le parti mettono in campo ogni possibile stratagemma, al fine di ottenere la vittoria non della posizione supportata dalle migliori argomentazioni, ma di quella sostenuta da maggiore abilità retorica.

La controversia si pone in discontinuità rispetto ai tipi precedenti perchè non è caratterizzata dalla

prevalenza di una parte sulle altre, bensì dalla collaborazione dei soggetti coinvolti. Nei dibattiti che appartengono a quest’ultima classe si cerca d’individuare una conclusione in cui possano convergere  gli spunti derivanti dalle varie tesi e che sia capace di ottenere l’unanime consenso dei partecipanti.

Ciò garantisce ad essa flessibilità ed una natura razionale, ma non dogmatica.

È preferibile ricondurre a questa terza categoria, quando possibile, i dibattiti appartenenti alle prime due, riuscendo così a trasformare scontri di carattere “agonistico”, che possono terminare solo con la vittoria di una delle parti, nella comune ricerca di una conclusione che possa essere ritenuta soddisfacente da tutti i soggetti coinvolti. La controversia, rifiutando di configurarsi come “duello verbale” e di muoversi nell’ambito della sola contrapposizione dialettica tra tesi opposte e predefinite, assume come campo d’azione uno spazio più ampio, che si estende a posizioni e  discipline differenti rispetto a quelle di partenza, rivelandosi l’unico elemento della triade presentata  ad ammettere innovazione ed ad ammettere innovazione ed interdisciplinarità e farne i propri punti di forza.

Mattia Galati, studente di Filosofia presso l’Università del Salento, laureando in Etica della Comunicazione con una tesi sulla Teoria delle
Controversie. Partecipa alle attività del Lab in Applied Ethics and Interdisciplinarity presso il cPDM.

Food Clear label, essere trasparenti conviene

In Uncategorized on 18 July 2016 at 9:07 AM

bimba arance

Maria Elena Latino

“Ogni individuo si sforza di impiegare il proprio capitale in modo che il suo prodotto possa essere di grandissimo valore. Generalmente non intende né promuovere il pubblico interesse, né sa quanto lo sta promuovendo. Si prefigge solo la sua sicurezza, solo il suo guadagno. In ciò è guidato da una mano invisibile per prefiggersi un fine, che non ha nessun interesse della sua intenzione. Perseguendo il suo interesse spesso promuove quello della società più efficacemente di quando realmente intenda promuoverlo

ADAM SMITH

 

L’approccio all’etichetta classico, “clean labeling” (Hillmann, 2010), ha necessità di evolvere abbracciando al suo interno concetti di trasparenza ed eticità.

La “clear label” (Agriculture and Agri-Food Canada, 2015) è ciò che una porzione, sempre più crescente, di consumatori richiede al settore agroalimentare, per mettere in atto un processo di democratizzazione del sistema cibo secondo i principi di sostenibilità della food citizenship (Wilkins, 2005). Secondo l’indagine condotta dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (2015), 9 italiani su 10 vogliono la carta d’identità sui cibi e il 70% di essi dichiara di voler conoscere l’origine del cibo che consuma per “questioni etiche”. Un chiaro trend di comportamento d’acquisto vede quindi il consumatore scegliere prodotti che rispondono ad interessi personali (Reiche et al., 2012) che possono essere semplici preferenze o valori ideologici che sfociano in nuovi target di prodotto come il cibo biologico, vegetariano, localmente prodotto, senza allergeni (ad esempio Gluten free) o sostenibile (Gonzalez-Miranda et al., 2013). Trend decisamente in crescita: ad esempio il mercato mondale del biologico si è quintuplicato negli ultimi 15 anni, raggiungendo nel 2015 gli 80 miliardi di dollari (IFOAM, 2015).

Ora ci chiediamo: può l’impresa dell’agroalimentare trarre vantaggio dal rispondere all’esigenza di trasparenza che il consumatore ha palesato? Aprire le porte dell’impresa e mostrare il proprio operato può aiutare ad aumentare il proprio fatturato guadagnando queste nuove fasce di mercato?

Come la “mano invisibile”, la creazione di una “Food Clear Label potrebbe rappresentare una nuova forma di convenienza per l’impresa dell’agroalimentare capace di promuovere l’interesse sociale del Food Citizen.

 

References

Agriculture and Agri-Food Canada (2015). Emerging Food Innovation: Trends and Opportunities. ISBN 978-0-660-03656-4.

Gonzalez-Miranda, S., Alcarria, R., Robles, T., Morales, A., Gonzalez, I., & Montcada, E. (2013, July). Future supermarket: overcoming food awareness challenges. In Innovative Mobile and Internet Services in Ubiquitous Computing (IMIS), 2013 Seventh International Conference on (pp. 483-488). IEEE.

Hillman, J. (2010). Reformulation key for consumer appeal into the next decade. Food Rev, 37(1), 14-16.

IFOAM (2015). Into the future. Annual report 2015.

Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (2015). Consultazione pubblica online sull’etichettatura dei prodotti agroalimentari.

Reiche, R., Lehmann, R. J., Schiefer, G., & und Informationsmanagement, O. (2012). Visions for creating food awareness with future internet technologies. In GIL Jahrestagung (pp. 243-246).

Wilkins, J. L. (2005). Eating right here: Moving from consumer to food citizen. Agriculture and human values, 22(3), 269-273.

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Maria Elena Latino. Laureata con lode in Ingegneria Gestionale presso l’Università del Salento nel 2010. Ha conseguito un master in addestramento alla ricerca interdisciplinare nel settore aeronautica nel 2012. Ricercatrice presso il cPDM Lab del Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione dell’Università del Salento dal 2012. La sua attività di ricerca è caratterizzata da un approccio multidisciplinare e riguarda i temi della tracciabilità agroalimentare, tecnologie applicate al settore marino e dell’acquacoltura, lo sviluppo di nuovo prodotto, il Product Lifecycle Management, la modellazione e simulazione dei processi di business, Technical Knowledge Management e l’Entrepreneurship. Associata di Naica SC. Dal 2013 si occupa delle seguenti attività: fundraising, project management, Business Process Management and Reengineering, Business Plan, Business Model, analisi di mercato e analisi finanziarie.

 

Programmazione Neuro Linguistica: una comunicazione etica?

In Uncategorized on 13 July 2016 at 2:52 PM

Matteo Jacopo Zaterini

Quante volte ci siamo chiesti se il nostro interlocutore è completamente sincero nei nostri confronti? Quante volte abbiamo avuto la sensazione che il discorso di qualcuno non “quadra” del tutto e, che forse, in fondo, tra una parola e l’altra qualcosa effettivamente ci sta sfuggendo?

Da esseri umani abbiamo la capacità di dare un significato, di interpretare qualsiasi cosa ci circonda. Ma questa capacità non è infallibile: non sempre riusciamo ad assegnare un significato che sia il più possibile vicino alle intenzioni di chi lo ha prodotto e, a volte, non riusciamo nemmeno a cogliere i segnali che ci troviamo davanti.

Esiste allora un modo per “leggere tra le righe” del discorso di qualcuno? Ci sono delle discipline che ci forniscono degli strumenti per trovare e interpretare dei segnali “nascosti” di comunicazione che altrimenti ci sarebbero sfuggiti?

Sappiamo tutti che è impossibile non comunicare: anche rimanendo immobili e in silenzio nell’angolo di una stanza, un osservatore può interpretare quello che (non) stiamo comunicando. Disagio, paura, distrazione, concentrazione sono tutte possibili risposte a domande del tipo: “come posso interpretare quello che sto vedendo, cosa sta provando quella persona, perché è ferma e zitta proprio in quel posto ed in quel momento?”

La Programmazione Neuro Linguistica ci promette di conoscere proprio “il come, il cosa, il perché” un’altra persona sta comunicando. Ci guida nell’interpretazione di segnali nascosti forniti dall’interlocutore, difficili da scovare ed interpretare correttamente. Si tratta comunque di una disciplina controversa, non riconosciuta come scienza, talvolta considerata dal mondo accademico come una serie di trucchetti per intrattenere l’audience. È un dato di fatto però il suo riuscire a raccogliere consensi da chi si è lasciato coinvolgere dalle attività formative organizzate all’interno di corsi, seminari e pubblicazioni.

Ma chi si avvicina alla disciplina la prima volta quali domande può “legittimamente” rivolgere alla PNL? Può, per esempio, chiedere e chiedersi quanto del rapporto tra interpretazione e contesto viene tutelato dall’approccio modellistico proprio della materia? Possiamo traslare le tecniche interpretative dalla PNL all’interno del contesto psicoterapeutico? Possiamo ignorare la (scarsa) considerazione che il panorama scientifico ha della disciplina? Attraverso l’uso degli strumenti della disciplina, vengono rispettate le premesse di una relazione che si possa definire “etica”?

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Matteo Jacopo Zaterini, laureato presso l’Università del Salento in Scienza e Tecniche Psicologiche, attualmente collabora con il Lab in Applied Ethics and Interdisciplinarity all’interno dell’IBIL.

Etica del vivente: quando il gusto prevale sul giusto

In Uncategorized on 2 July 2016 at 4:47 PM

vegan-animali

Silvia De Luca

Negli spot pubblicitari che ogni giorno ci vengono mostrati è facile vedere oasi naturalistiche, allevatori premurosi che portano al pascolo le mucche con il fiocco rosso, prosciutti considerati alla stregua di neonati. Sembra la normalità.

In rete, tuttavia, sono disponibili diversi documentari che pongono seri dubbi su questa rappresentazione della realtà. Uno di questi documentari, realizzato da Damiano Gori e Marco di Domenico, intitolato Mistificazione e sfruttamento – contro i mattatoi, lascia intendere che le immagini degli spot pubblicitari siano delle deformazioni della realtà, a vantaggio delle aziende produttrici, del commercio e del mercato della salute.

Vediamo, per esempio, un vitellino sul cui muso è stato inserito un dispositivo che rende vani i suoi tentativi di bere il latte della madre, destinato all’imbottigliamento. Noi non sappiamo se, come dice una delle didascalie del video, ciò che le immagini descrivono sia la normalità. Tuttavia, siamo consapevoli del fatto che quei comportamenti abbiano ben poco in comune con l’umano.

Si potrebbe continuare descrivendo le crudeli pratiche mostrate dal documentario, ma forse conviene soffermarsi su noi spettatori/consumatori,  provando a distinguere almeno tre categorie.

1) Colui che “preferisce non vedere”. Si tratta di coloro che preferiscono non guardare con la dovuta attenzione. A differenza di un tempo, oggi ci sono numerosi modi per venire a conoscenza dello sfruttamento degli animali. È sufficiente decidere di aprire gli occhi;

2) Colui che “sa, ma…”. È la categoria più ampia e variegata su cui, a mio avviso, occorrerebbe che si concentrasse l’attenzione da parte degli studiosi di etica della comunicazione. In particolare, occorrerebbe interrogarsi sulle modalità che hanno trasformato la necessità di cibo in arte culinaria, in cui il gusto prevale sul giusto.

3) Colui che “sa e agisce”.  Appartengono a questa categoria il cosiddetto “egoista”, il quale sceglie di cambiare alimentazione per un tornaconto personale, come il tenere sotto controllo la salute; il “cosciente”, che è informato della situazione e giunge a modificare l’atteggiamento nei confronti della vita stessa.

In generale, vi sono due modi di rapportarsi all’altro. Il primo, ponendo al centro l’io, rende l’altro una subordinata e lo reifica. Il secondo modo invece non mette al centro né l’io né l’altro, ma la relazione, cioè quello spazio tra l’io e l’altro.

Queste indicazioni generali possono essere fatte valere anche in materia di etica del vivente, sollecitando l’adozione di pratiche più appropriate e non mistificatorie. Cambiare atteggiamento è possibile. Basta mettere da parte abitudine ed egoismo, meglio definito come specismo, per lasciare spazio alla corretta informazione, alla consapevolezza e al rispetto dell’altro. Che non sempre è umano.

 

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Silvia De Luca. Studentessa di Filosofia, laureanda con una tesi in Etica della Comunicazione presso l’Università del Salento. Partecipa alle attività del Lab in Applied Ethics and Interdisciplinarity presso il cPDM della Facoltà di Ingegneria dell’Università del Salento.