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La signora che tradì il marito perché non caricava la lavatrice

In Direttore, editoriale on 26 August 2017 at 5:51 PM

 

Edward Hopper, Compartment C Voiture 193

Come reagireste di fronte ad una signora che, conosciuta in un viaggio in treno da non più di dieci minuti, candidamente confessi di aver tradito il marito perché «non caricava mai una lavatrice»? Me lo sono chiesto, mentre la signora, sulla quarantina, lunghi capelli biondi, elegante in un tailleur blu, mi guardava in attesa di una reazione.

  • «Sei una pazza furiosa e le tue cose sentimentali non mi interessano. Ora, fammi leggere in santa pace, ammesso che tu capisca il senso della parola ‘leggere’», avrei voluto dirle.
  • «Scusi, e che cosa le rispondeva suo marito, quando gli faceva notare di detestare il suo disimpegno domestico?», le ho invece chiesto.

E lei, a quel punto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha risposto: «Beh, non gliel’ho mica detto, ovvio no?».

Poi, per mia fortuna, la conversazione è scivolata su altri argomenti.

Per giorni mi sono comportato nei confronti di questo episodio con lo stesso atteggiamento di chi cerchi di ritrovare le chiavi di casa smarrite. Ci pensavo in continuazione, ripercorrendo mentalmente ogni singolo frammento di discorso, ogni movimento del corpo, ogni pausa. Niente, non trovavo niente. Eppure, ero convinto che qualcosa di rilevante ci fosse nel dialogo con la signora in blu. Poi, una mattina, appena sveglio, ho visto meglio. Non era la scelta della signora, né il fatto che avesse deciso di farne menzione ad un estraneo, ad interessarmi. Ciò che mi aveva colpito era il modo in cui la donna aveva inteso sancire la presunta normalità della sua scelta, ancorandola alla domanda «ovvio, no?». Compiere una scelta, fondandola su un singolo aspetto del problema, non dovrebbe essere una cosa ovvia. Eppure, un tale modo di procedere, non è infrequente anche in ambito lavorativo: ammettiamolo, quante volte ci capita di giudicare una intera situazione, partendo da una singola vicenda? Decidere in base ad una valutazione parziale ha profonde implicazioni sul versante della comunicazione. Spesso, infatti, comunichiamo male non perché usiamo strumenti inefficaci, ma perché la valutazione della realtà – su cui la comunicazione si fonda – era insufficiente.

Nel 1999, Christopher Chabris e Daniel Simons, due studiosi dell’Università di Harvard, realizzarono un esperimento chiamato The Invisible Gorilla. Ai partecipanti veniva mostrato un filmato in cui due gruppi di ragazzi, vestiti rispettivamente con una maglietta bianca e una maglietta nera, simulano una partita di basket. I partecipanti all’esperimento vengono informati che lo scopo è di contare il numero di passaggi dei ragazzi con la maglietta bianca. Quando il filmato finisce circa la metà dei partecipanti non ha notato che, ad un certo punto del video, una persona travestita da gorilla ha attraversato il campo di gioco da destra verso sinistra, fermandosi in mezzo ai giocatori, battendosi il petto, per poi allontanarsi indisturbato. Quell’esperimento dimostra che la nostra percezione è fuorviata ogniqualvolta ci concentriamo solo su un particolare, tralasciando di considerare l’intero. L’esperimento del gorilla (noto come “Test di attenzione selettiva”, visibile su Youtube) ha confermato che la possibilità stessa di percepire qualcosa si fonda non tanto su una presunta capacità di identificare l’elemento che vogliamo mettere a fuoco, ma sul rapporto che si istituisce tra l’oggetto da vedere e lo sfondo in cui esso si colloca. Per farla semplice: la nostra percezione funziona correttamente quando è relazionale, quando cioè è in grado di riconoscere le relazioni. Di conseguenza, per essere effettiva, anche la comunicazione deve tener conto dello stesso processo. Possiamo comunicare compiutamente quando siamo in grado di vedere bene ogni singolo elemento insieme all’intero in cui esso si colloca.

Ecco perché una decisione (tradire o meno il marito), non andrebbe assunta ancorandosi esclusivamente ad un singolo elemento (la scelta di caricare la lavatrice), isolato rispetto al contesto.

L’indicazione che scaturisce da quanto precede è che per comunicare bene, bisogna vedere bene.

Spesso, molte comunicazioni falliscono prima ancora di nascere per un difetto di percezione, perché non abbiamo tenuto conto dello spazio. Non andrebbe mai dimenticato che le persone, ogni persona, già dalla stessa etimologia del termine, si pone sempre al di là di ogni nostra possibile determinazione. La persona è il tutto, mentre ciò che possiamo dirne è solo una parte. Siamo invece soliti inchiodare gli altri alle nostre visioni parziali e, inesorabilmente, quando ciò succede, la comunicazione è condannata al fallimento.

A questo punto, la domanda iniziale torna ad essere attuale e non smette di pungolarci: quante volte ci è capitato di valutare l’intero, partendo da una parte?

Ecco che, ora che ci penso, forse c’è poco da meravigliarsi della scelta della signora in blu, perché mutatis mutandis ciò che lei rappresenta è dentro ognuno di noi.

(Il presente testo è stato scritto per SIC DIXIT, Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter).