Francesco Lucrezi
I giureconsulti ci dicono che i romani avrebbero fondato la titolarità e l’esercizio dei diritti sulla base di tre grandi categorie generali, atte a includere ed escludere gli esseri umani dal loro perimetro, stabilendo così quale fosse la loro specifica condizione giuridica, cosa potessero fare, avere, pretendere, a cosa potessero aspirare, cosa dovessero subire. Il termine più usato per indicare tali forme di appartenenza è quello di status, ‘condizione’: sarebbero soggetti di diritto a pieno titolo, secondo lo ius Romanorum, esclusivamente coloro che si trovassero in una posizione di privilegio dal punto di vista dello status personae, articolato su tre distinti terreni: status libertatis (si tratta di un uomo libero, di un servo, di un liberto?), status civitatis (è un cittadino romano, o quasi-romano, o uno straniero?), status familiae (è un pater familias, una donna “sui iuris“, o un soggetto “alieni iuri subiectus“?). Tutte e tre queste categorie pongono, teoricamente, un problema di conflitto, dato dalla logica contrapposizione tra chi è ‘fuori’ e chi è ‘dentro’, e dalla naturale tensione tra chi avrebbe interesse alla perpetuazione e alla solidità della barriera e chi, invece, desidererebbe poterla valicare, o, addirittura, abbattere.
Nel considerare la reale genesi ed evoluzione storica di tali categorie, e la natura del conflitto da esse generato, ci sarebbe però da chiedersi, preliminarmente, se e in che modo esse fossero effettivamente percepite, accettate, contrastate, nella vita reale, dagli uomini veri che si trovarono a vivere, in un’amplissima latitudine spaziale e temporale, nell’antico mondo romano. Furono categorie elaborate ad uso e consumo di una ristretta élite dominante, riconducibile prevalentemente all’aristocrazia italica, o appartennero, nel tempo, anche al bagaglio culturale delle vaste masse dei provinciali, di quei multiformi popoli della Mauritania, della Gallia, dell’Egitto, della Germania, che si trovarono, in vario modo, attraverso varie vicende militari e politiche, non sappiamo con quanto piacere, a condividere oneri e onori della pax Romana?
Riguardo alle categorie dello status libertatis e dello status familiae, la risposta sembra, apparentemente, alquanto semplice, sia pure per motivi opposti, nell’uno e nell’altro caso.
Quanto alla libertas, infatti, è ben noto che tutti i popoli antichi, senza eccezione, hanno conosciuto forme di asservimento personale, dividendo gli esseri umani in quella che Gaio definisce la summa divisio tra liberi e servi. E, anche se i contenuti coercitivi riconosciuti al padrone sulla persona del proprio sottoposto variano sensibilmente da luogo a luogo, e di epoca in epoca (essere asservito nell’antico Israele era meno spiacevole che esserlo a Roma o in Grecia, ed esserlo ai tempi di Crasso era peggio che ai tempi di Adriano o Marco Aurelio), non c’è dubbio che chiunque, nel mondo antico, capiva cosa significasse essere schiavo, e facesse di tutto (con alcune marginali eccezioni: Plauto racconta di servi che imploravano il loro dominus di non volerli affrancare, mandandoli così per la strada) per evitarlo.
L’istituto della patria potestas, invece, com’è noto, fu una cosa esclusivamente romana (nata, in epoca remota, con l’attribuzione al capostipite di un ruolo di mediazione religiosa tra mondo dei vivi e dei morti, a beneficio di una familia intesa, secondo Franco Casavola, quale “isola sacra”), che nessun altro popolo antico (come sottolinea, orgogliosamente, Gaio) ha mai conosciuto, né ha mai avuto interesse ad imitare. Per molti secoli, soltanto in una piccola percentuale gli abitanti dell’impero romano fondarono la loro vita individuale e comunitaria sull’indiscussa supremazia del pater familias, unico titolare di patrimonio e di diritti, in grado di esercitare sui propri sottoposti (che, non dimentichiamo, potevano anche essere filii familias di cinquanta o sessant’anni, a loro volta padri o nonni, e, magari, consoli o senatori) i più ampi poteri, fino – almeno in teoria – all’esercizio di un arbitrario ius vitae ac necis.
Certamente, l’istituto potestativo generò per secoli un latente, violento conflitto tra patres e filii familias, con il morboso ‘sogno proibito’, da parte dei sottoposti, di porre termine con la violenza al predominio del ‘tiranno’, e la speculare “paura dei padri”, da cui scaturì il sinistro supplicium singulare della poena cullei, prevista per il figlio parricida (fatto morire annegato, sigillato in un otre di pelle, in compagnia di un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, le cui fattezze avrebbe condiviso nella morte, in un orrido groviglio animalesco). Ma, altrettanto certamente, molto di frequente i filii familias potevano trarre grande utilità e vantaggio dalla loro condizione, mentre i patres – come dimostra l’altissimo numero di emancipationes – desideravano assai spesso liberarsi della gravosa incombenza. Ma, in ogni caso, alla grande maggioranza degli abitanti dell’impero della patria potestas non importava assolutamente nulla: molti, probabilmente, non sapevano neanche cosa fosse, e nessun siriaco, iberico o britannico avrebbe mai desiderato diventare un pater familias.
Per quanto riguarda lo status civitatis la questione si fa invece più complessa, in quanto non appare agevole definire se, a partire da quando, in che misura, per quali soggetti o popolazioni l’accesso alla condizione di civis Romanus rappresentasse effettivamente un privilegio, un traguardo da raggiungere.
Molte fonti ci trasmettono il quadro retorico e propagandistico di una civitas Romana intesa come una condizione di superiorità, compiutezza e perfezione sul piano civile, culturale e giuridico, che sarebbe stata progressivamente estesa a sempre più ampie categorie di stranieri, peregrini e barbari, via via ammessi a godere della romana felicitas (passando, a volte, attraverso la categoria intermedia della Latinitas), fino all’ecumenica elargizione di Antonino Caracalla, che, con la constitutio Antoniniana del 212, l’avrebbe concessa – con un gesto, secondo la propaganda di regime, di generosa liberalità – a tutti gli abitanti dell’impero.
In realtà, nulla fa pensare che la storia romana sia contrassegnata da una costante pressione, da parte dei peregrini, al fine di avere accesso all’agognata cittadella dei cives Romani, e le fonti sembrano piuttosto assolutizzare, in modo astratto e atemporale, alcuni problemi di capacità giuridica e di autonomia privata (i titoli di attribuzione e di appartenenza dei beni, le forme negoziali) che si sarebbero posti solo in alcuni specifici contesti, e in determinati periodi storici.
La questione della cittadinanza, come problema politico generale, si sarebbe imposta soltanto nell’età della crisi della libera res publica, col bellum sociale del 90-89 a.C., che avrebbe indotto la repubblica a emanare frettolosamente le leges de civitate (la lex Iulia de civitate Latinis et sociis danda, del 90, e la Plautia Papiria dell’89), estendendo la civitas ai socii scesi in armi, e poi a istituire, nel 65 a.C., un’apposita quaestio extraordinaria de civitate, chiamata a giudicare dell’apposito crimen di usurpatio civitatis. Ma le ragioni della guerra sembrano essere state altre dalla semplice richiesta, da parte degli alleati italici, di ottenere la concessione della civitas, alla quale pare anzi che molti di essi fossero apertamente contrari. E la quaestio de civitate sembra avere lavorato pochissimo: conosciamo la famosa arringa difensiva di Cicerone a favore del poeta Archia, accusato di usurpatio civitatis per avere violato le prescrizioni la lex Plautia Papiria, ma non abbiamo molte altre notizie in proposito.
Quando, comunque, agli inizi dell’ultimo secolo di repubblica, il problema della titolarità e della concessione della cittadinanza viene ad essere oggetto di una regolamentazione sul piano politico e normativa, esso è già avviato, praticamente, a perdere d’importanza. Di lì a poco, com’è noto, lo scontro epocale tra Occidente e Oriente – tra la tradizione repubblicana, laica, pluralista e politeista, da una parte, e, dall’altra, i modelli autocratici, assolutisti e misticizzanti del potere – avrà il suo esito, e il governo di Roma diventerà il governo del mondo, secondo l’inedito, ambiguo sistema del principatus, con un principe servitore della repubblica, ma anche, al contempo, come disse Antonino Pio, “toù kòsmou kyrios“, signore dell’Universo. E, in questo mondo – come messo in risalto dalla migliore storiografia, a partire da Giorgio Luraschi -, a contare non sarà tanto l’inclusione o l’esclusione rispetto all’astratta categoria della civitas Romana, ma, piuttosto, il livello di civiltà, di autonomia, di maturità istituzionale conquistato e difeso, nelle varie nazioni e contrade, alle mille civitates, coloniae, pòleis, municipia dell’orbe romano. […]
[Leggi l’intero articolo, facendo il download dell’intero numero di YM, dedicato al conflitto].
—–
Francesco Lucrezi è professore ordinario di Storia del diritto romano, Diritti dell’Antico Oriente Mediterraneo nell’Università di Salerno.
You must be logged in to post a comment.