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L’invisibile parte degli esseri

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 3 January 2017 at 7:11 PM

Giovanni Scarafile

 

1. «Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri».

Nelle parole scritte da Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione si fa riferimento ad uno dei primi referti dell’attività percettiva. Per certi versi, quanto rivelato nelle parole del filosofo francese e, prima di lui, in quelle del movimento della psicologia della forma, è sorprendente per diverse ragioni.

Prima di tutto, perché quel referto riguarda il modo in cui è possibile vedere tutto ciò che ci sta intorno. L’esperienza del vedere è una attività talmente costitutiva di ciò che siamo che difficilmente si è disposti ad ammettere che possa essere diversa da come l’abbiamo sempre direttamente esperita. Il vedere è la nostra prima fonte di informazioni e se si scoprisse che le cose stanno in modo diverso rispetto a come ce le aspettiamo, allora saremmo costretti a trarne le conseguenze su molti livelli.

i-segreti-della-scogliera-di-marco-esposito-188x300L’indicazione di Merleau-Ponty sta, dunque, lì come un monito, alludendo ad un rapporto non aggirabile tra visibile ed invisibile. Il nostro vedere, dicono quelle parole, è possibile perché si istituisce una relazione tra la figura e lo sfondo. La figura è l’oggetto su cui di volta in volta dirigiamo lo sguardo. È ciò che vogliamo vedere quando vediamo. È ciò che mettiamo a fuoco. Tale visto è individuato tramite le relazioni che lo collegano a ciò che gli sta intorno.

Si tratta di dinamica inavvertita. Si compie ogni giorno in modo del tutto automatico ed è quindi inevitabile che ad essa non solo non si presti alcuna consapevole attenzione, ma che sotto silenzio cadano le sue implicazioni: alla identificabilità di qualcosa (ciò che vogliamo vedere) noi giungiamo per il tramite di ciò che si oppone a quella stessa identità in costituzione. Per dirla altrimenti, si individua l’essere per il tramite del non essere, o in termini più figurati, la luce per il tramite del buio. Queste entità, pur rimanendo opposte, sono dunque molto meno separate di quanto solitamente si pensi [1].

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Marco Esposito, autore de I segreti della scogliera.

 

2. Giuseppe Scrimieri, lo scrittore protagonista de I segreti della scogliera di Marco Esposito, si rifugia a Torre del Fiume, una località marina sulla costa salentina, per cercare di trovare l’ispirazione giusta per scrivere il suo ultimo libro.

La scelta del luogo non è casuale. Venti anni prima, infatti, il successo del romanzo precedente, ambientato nello stesso posto, era stato in gran parte dovuto alle storie surreali ed inquietanti degli abitanti del paesino. Modificare ad arte i loro nomi, tuttavia, non era stato sufficiente per evitare che si potessero riconoscere come protagonisti della storia narrata. A spiegare l’atmosfera che attende Giuseppe ci pensa lo stesso Esposito:

«Per anni, il male strisciante era cresciuto e si era alimentato sotto di loro, nutrendosi della calunnia come un parassita silenzioso. Le conseguenze del libro l’avevano portato alla luce, svelandolo in tutto il suo orrore. […]. Avevano nutrito il male tutto quel tempo, divenendo inconsapevolmente carne da macello, e ormai era quello il loro destino».

Giunto a destinazione, Giuseppe dovrà ben presto abbandonare l’ingenuità che all’inizio, forse eccessivamente, lo connotava e rendersi conto che la realtà è diversa rispetto alle attese.

Il vecchio Joe, per esempio, con cui nel passato aveva trascorso molto tempo a giocare a scacchi, ora inspiegabilmente gli riserva una accoglienza fredda e distaccata. Maria Cipressi, le vicende del cui figlio Pasquale erano state al centro del precedente libro di Giuseppe, si rivela glaciale, nonostante il garbo apparente. Nadia Cataldo, la pescivendola, con cui lo scrittore aveva avuto un fugace flirt, decide di non farsi trovare.

Nonostante tali diffidenze, Giuseppe si ambienta nella casa sulla scogli9788806129705_0_0_324_80.jpgera dove, ispirato dal mare, ritrova la liturgia della scrittura, fatta di silenzi e concentrazione. Tale ricercata solitudine, tuttavia, non lo isola dalla vita della comunità in cui è tornato a vivere. E così, gradualmente ed inesorabilmente, le vicende dei personaggi del romanzo iniziano ad incastrarsi e Giuseppe comincia a rendersi conto dell’esistenza di fili invisibili che li legano. La vicenda assume un ritmo vertiginoso nella parte finale del libro. Simile ad un lampeggiante di una sirena che, ruotando su se stesso, proietti la sua luce su ciò che gli sta intorno, la scrittura di Esposito con agilità inizia a mostrare i lineamenti di una realtà che, a lungo sopita, si risveglia lentamente. Tanto erano reali le descrizioni dei posti e delle persone nella prima parte del libro, tanto ora nella seconda parte quella accuratezza delle descrizioni lascia spazio ad una inversione delle matrici del reale. Ciò che sembrava normale, si rivela patologico.

Certo, nel libro di Esposito non mancano alcune distonie, come un caminetto acceso in piena estate e forse l’eccessiva ingenuità di Giuseppe. Tuttavia, esse non inficiano il valore di una scrittura che riesce nel difficile compito di rivelare come l’invisibile sia costitutivo delle nostre esperienze, molto più di quanto saremmo soliti aspettarci.

Varcata la soglia della plausibilità dell’invisibile, la stessa realtà assume connotati prima inimmaginabili. Ne I segreti della scogliera tale mutazione viene misteriosamente incarnata da un’anziana donna, che, riconoscibile anche per la presenza di un dente giallo lungo fino al mento, è presente nei momenti salienti in cui la vicenda si dipana. L’identità della vecchina, vestita di nero, seduta su una sedia bianca di plastica in compagnia di un grosso cane nero (richiamo a Cani neri di McEwan?) sarà rivelata solo nelle ultime pagine del romanzo.

3.

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H.P. Lovercraft

Lovercraft, Poe, King, ma anche il cinema di Argento, Cronenberg, Carpenter rappresentano la dichiarata fonte di ispirazione di Marco Esposito, il quale riesce nel tentativo di delineare un affresco della vita di una piccola comunità, ritratta nel momento in cui essa viene a contatto con un agente patogeno in grado di stravolgerne la più intima natura. In assenza di antidoti efficaci (si veda in proposito la timida figura di don Gino, il prete, alla cui assistenza spirituale la comunità di Torre del Fiume è vanamente affidata), una coltre di silenzio e forzato quieto vivere si impossessa di quella comunità, corrodendo dall’interno l’anima dei suoi abitanti.

 

Il libro di Esposito è anche una celebrazione della forza della scrittura, sia perché essa è la materia stessa della narrazione, sia perché lo stesso libro scaturisce, come spiegato dallo stesso Esposito nei Ringraziamenti alla fine del volume, dall’indomita volontà del suo autore di vedere pubblicato il suo manoscritto che lo porta nel febbraio del 2013 a dare inizio ad una felice campagna di crowdfunding.

In conclusione, mentre i personaggi de I segreti della scogliera si congedano, tornando nell’ombra, noi siamo abitati da una certezza nuova: quella invisibilità, infatti, non è tanto una destinazione lontana, frutto della fervida fantasia di un giovane scrittore, ma – in virtù della stretta interconnessione tra visibile ed invisibile – un esito sempre attuale, a seconda dello sguardo di noi lettori. De te fabula narratur.

 

[1] Uno dei modi più convincenti e profondi di pensare le conseguenze di un tale rapporto è dato dagli scritti di Virgilio Melchiorre. In particolare, si vedano i volumi Essere e parola: idee per una antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1992; Figure del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1994 ed il saggio Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, introduzione all’edizione italiana di Finitudine e colpa.