Emanuela De Riccardis
I greci chiamavano la felicità eudaimonia. Il nome fa esplicito riferimento al buon demone che governa la nostra vita. L’eudaimonia è quindi un obbedire al nostro demone, a quel demone che regge i fili che ci fanno essere ciò che davvero siamo. L’eudaimonia può essere intesa, sulla scia di pensatori quali Nussbaum, Sen e altri, come una condizione di vita che può essere paragonata a una fioritura, un benessere esistenziale, un modo d’essere che implica, come suggerisce Aristotele, un’attività, un divenire, un fare di sé qualcosa di compiuto. Felicità è compiutezza e completezza insieme, è sentirsi “pienamente” vivi, è «il potere – scrive Roberta De Monticelli – di risvegliare in noi una possibilità d’essere che è essenzialmente nostra, di attivare in noi un più profondo consenso all’essere e anche a ciò che siamo» (R. De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003, p. 290). Siamo quindi felici quando pieni, ricchi. La felicità è una “condizione oggettiva” nel senso che è un accordo tra un essere e la sua condizione d’esistenza, specifica situazione (interna ed esterna, psicologica e sociale) che permette all’individuo di realizzare se stesso e che gli consente la piena rivelazione di sé.
Alla rivelazione di sé, e alle condizioni che socialmente la consentono, ha dedicato molte e intense pagine Hannah Arendt. Rivelarsi significa mostrarsi. Rivelandosi «gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano». Ma come possiamo far apparire la nostra identità? «Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini» (H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1997, p. 130).
Con l’agire, che non è un semplice fare o produrre, l’essere umano dà espressione a quell’impulso umanissimo a continuamente rinascere, a dar vita al nuovo; con esso consente a “prendere un’iniziativa”, si impegna a “mettere in movimento qualcosa”, a fare accadere qualcosa. Con il discorso, che non è vana “chiacchiera”, la persona si identifica, rivela agli altri la sua azione, la qualifica, ne definisce e condivide il senso e il progetto, fa partecipare gli altri di sé e del suo agire. Le azioni e i discorsi, nel loro intrecciarsi e sovrapporsi, rivelano il chi agisce e parla, consentono al suo daimon, impediscono che l’atto venga espropriato dell’agente, del chi agisce. Agente che nelle normali attività produttive viene messo sovente a tacere dall’arroganza ingombrante dello scopo e dalla preponderanza del prodotto da realizzare o del fine da raggiungere.
L’azione e il discorso permettono la costruzione di uno spazio relazionale umano, dove gli uomini «agiscono e parlano direttamente gli uni agli altri» e non sopra o attraverso gli altri. Reciprocamente rivelandosi. Uno spazio relazionale apparentemente effimero e privo di durevoli tracce. Uno spazio composto da un intreccio relazionale fatto di impalpabili contatti interpersonali che non dimentica l’esistenza di un universo “mondano”, fatto di oggetti, interessi, prodotti, logiche strumentali e utilitaristiche, ma che ad esso aspira costantemente a sovrapporsi. Per favorire l’azione e il discorso tra gli uomini, i greci “concepirono” la polis. Elaborarono cioè l’idea di uno spazio relazionale emergente dall’intrecciarsi di azioni e discorsi. Applicando quanto esposto finora all’attuale dimensione lavorativa, si può dire che l’azione e il discorso rappresentano la condizione di felicità cui si è prima fatto cenno. “Condizione eudaimonica” è la condizione, individuale e collettiva, personale e organizzativa, che permette a coloro che lavorano non solo di essere pienamente ciò che sono, ma che consente alle possibilità del loro essere, alla loro realizzazione in quanto persone.
L’eudaimonia lavorativa è quindi la condizione appropriata all’apparire della persona sul lavoro, alle possibilità di una sua azione e di un suo discorso. Essere lavorativamente felici significa stare nella duplice condizione eudaimonica: nella condizione di compiere azioni, dando così nuova e continua nascita a ciò che siamo, e nella possibilità di agire nella comunicazione, rivelando l’identità e il senso del fare. Utopia o cosa possibile? E in che cosa concretamente possono consistere l’azione e il discorso, quando applicati alla dimensione lavorativa? L’azione (intesa come movimento di continua rinascita), è traducibile in termini organizzativi come innovazione, iniziativa personale, crescita, apprendimento continuo, creatività, sperimentazione, diffusione delle buone prassi.
Il discorso (inteso come momento rivelativo) comprende lo sterminato continente della comunicazione interpersonale e interfunzionale, i momenti di ascolto, confronto, dialogo, le variegate forme espressive e i diversi atti comunicativi che rendono possibili la rielaborazione soggettiva del gesto lavorativo, il dar senso all’agire, la condivisione delle conoscenze, il ricordo personale, la memoria collettiva.
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