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La vita difficile degli alfabeti quotidiani

In editoriale on 14 June 2015 at 3:47 PM

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Riccardo Dell’Atti

Secondo uno studio di qualche anno fa[1], il 71% degli italiani ha difficoltà a comprendere interamente un testo di media complessità.

In un contesto in cui i fenomeni politici, culturali e sociologici che ci coinvolgono aumentano di complessità giorno per giorno, quindi, solo un italiano su quattro ha le potenzialità per interpretare autonomamente e con spirito critico, lucido e imparziale, quello che gli avviene intorno.

L’informazione, come sappiamo, viaggia su vari canali: di questi, alcuni hanno una natura tipicamente “passiva” per l’utente (la radio e la televisione); altri, come i giornali o il web, richiedono un gesto attivo: leggere.

Disporre di una capacità di lettura e comprensione, però, non basta a garantire che essa venga utilizzata: se non c’è la volontà di comprendere e quindi di investire del tempo per prendere informazioni ed elaborarle, la suddetta capacità rimane dormiente e inutilizzata, e dopo un po’ di tempo, non essendo allenata, tende ad atrofizzarsi.

Per formarsi un’opinione corretta, poi, non basta saper leggere un testo e comprenderlo: in una realtà eterogenea come quella attuale diventa sempre più importante saper scegliere la fonte; per molti le fonti più comuni per recuperare informazioni non sono i giornali (cartacei o elettronici) o i libri, ma i post di Facebook e i tweet su Twitter perché più agilmente consultabili e meno impegnativi.

Inoltre, tra l’atto fisico di leggere dei testi e quello più astratto di “leggere” la realtà c’è una serie di attività quali: costruire delle idee, svilupparle attraverso un’azione raziocinante, intrecciarle e connetterle fino a generare un’opinione, condividere la propria opinione con altre persone al fine di raffinarla o correggerla arricchendosi del contributo altrui.

Tutti i processi individuali di lettura, comprensione e ragionamento devono, infine, fare i conti con la velocità con cui la realtà cambia e quella con cui l’informazione viaggia.

È fin troppo banale osservare che uno degli “acceleratori” della realtà e della velocità di propagazione delle notizie è l’esplosione della dimensione “social” delle nostre esistenze.

Viviamo ormai in una dimensione che ci eleva da un piano di “prossimità” limitato alle nostre conoscenze e agli incontri che facciamo quotidianamente (più o meno casuali) ad uno spazio di voci che si estende alle cerchie di amicizie su Facebook o alle valanghe di tweet e re-tweet di Twitter. In questa polifonia non organizzata succede che spesso ci si perda.

La causa principale dello smarrimento è, appunto, la natura intrinsecamente volatile e cangiante dei nuovi strumenti di comunicazione. Un post su Facebook si valuta con il numero di “mi piace” che totalizza. Se trovo un post con molti “mi piace”, una curiosità dettata dal constatare l’approvazione altrui mi invoglierà a leggerlo; così è molto probabile che le parole di quel post entrino nella formazione della mia opinione e sedimentino, anche inconsciamente. Tuttavia, sappiamo che un post troppo lungo spesso non è molto apprezzato, sia per la difficoltà materiale (specie se si usa il telefono, magari in autobus o mentre si guida o mentre si aspetta qualcuno o qualcosa) sia per una sorta di pigrizia patologica che sta ammorbando sempre di più le generazioni attuali.

La bacheca di Facebook, così come quella di Twitter, si aggiornano in un orizzonte temporale dell’ordine dei minuti, per cui i post devono essere corti, paratattici, frequentemente ridotti a slogan, a frasi a effetto, a brandelli di informazione, a conclusioni affrettate e ovviamente drammaticamente contaminate dal giudizio personale di chi scrive, il tutto magari condito da una foto a effetto, da una canzone a tema, cioè da orpelli che, solleticando le corde dell’emotività, anestetizzano la capacità di discernimento.

Accade perciò che, per pigrizia e per necessità, ci riduciamo a formarci un’opinione che altro non è se non una mera somma di parole invece che una connessione di concetti; e molte di queste parole sono solo contenitori temporanei e sbrigativi di embrioni di idee, mai di percorsi meditati, elaborati, corretti, approfonditi.

In tale marasma il cittadino medio, anche quello che sta nel 29% dei “normodotati”, può finire per capire poco e disorientarsi, per dare poca profondità all’interesse che pure mostra nei confronti della realtà, e capita che si affidi a idee precarie, instabili, passeggere, attribuendo loro un carattere di definitività del tutto improprio e farraginoso.

Solo per fare degli esempi: la riforma del lavoro, quella della scuola, l’ISIS, i disordini in medioriente, l’immigrazione, la crisi… sono fatti, processi, momenti storici dei quali ci stiamo costruendo una valutazione approssimata, sfilacciata e superficiale.

Per comprendere le ragioni dell’immigrazione dal nordafrica si dovrebbe conoscere l’etnia delle persone che arrivano sulle nostre coste, risalire alla storia del luogo da cui partono e alla loro attualità, meditare sul loro bisogno di fuga, comprendere che intorno a questo bisogno nascono interessi secondari e stratificati di chi li traghetta, di chi costruisce consenso politico (da una parte dell’altra), di chi sfrutta il caos mediatico per incanalare pensieri distorti. Bisognerebbe attivarsi, insomma, ma spesso, invece, ci accontentiamo di dare uno sguardo al fenomeno attraverso la lente “social” del post in bacheca, di ascoltare la voce di chi condanna o di chi giustifica a priori quel fenomeno, e di unirci al coro al quale ci sentiamo più vicini per natura, storia o sentimento.

È chiaro che, in un senso o nell’altro, questo schierarsi è il modo più povero ed elementare di agire.

Il rischio che sta dietro un comportamento di questo tipo è che chi ha un interesse diretto in uno o nell’altro atteggiamento utilizza a proprio tornaconto l’informazione e la fa viaggiare: tecnicamente pilota il pensiero e impone strumentalmente il proprio punto di vista.

La dimostrazione di come questo modus operandi sia ormai penetrato nel tessuto dell’opinione pubblica sta nell’osservare che, tipicamente, i punti di vista su un fatto sono sempre e solo due: quello favorevole e quello contrario. Le sfumature di pensiero diventano sempre più un fattore formale o estetico e mai sostanziale. Non esistono punti di vista “terzi” rispetto alle logiche dominanti più forti, cioè quelle con gli interessi maggiori. E il 71% della popolazione non può che sguazzare in questo scenario semplicistico e ridotto a suo uso: non avendo la capacità di comprendere e non avendo nemmeno la voglia di dotarsi dei necessari strumenti per farlo, la via più facile è cedere all’attrattiva dell’opinione preconfezionata, costruita ad arte e “colorata” sulla base del favore o della contrarietà di sorta.

La domanda è: come si esce da questa logica perversa? Come si può sovvertire questo ordine di cose che sembra sempre più consolidarsi e funzionalizzarsi ad una sorta di addormentamento prolungato?

Forse con una rivoluzione gentile che non consiste nello scassare le vetrine o urlare in piazza (ormai non serve più, perché se l’obiettivo di una manifestazione di piazza è quello di colpire le coscienze, le coscienze saranno attente a quella manifestazione per il tempo che dura la lettura di un post, la sua condivisione, l’eventuale commento e poco più) ma nel recuperare parte del nostro tempo, togliendolo alla frenesia della quotidianità e alla logica del divertimento a tutti i costi, che è ormai diventato idolo e feticcio di una vita felice, social e realizzata e dedicandolo alla formazione, cioè al dare forma alle proprie azioni e non condurle solo perché lo fa la massa o il resto del pubblico.

In poche parole, per diventare cittadini attivi e informati non ci resta che capire che siamo passivi e disinformati e desiderare il cambiamento prima che sia troppo tardi. Un cane che si morde la coda non smette di girare su se stesso fino a quando non si morde per davvero e si fa male…

 

 

[1] http://www.corriere.it/cultura/11_novembre_28/di-stefano-italiani-non-capiscono-la-lingua_103bb0fa-19a8-11e1-8452-a4403a89a63b.shtml

[1] Fonte: Corriere della Sera, 28 novembre 2011.