Giovanni Scarafile
1. Il SAS Institute è una società statunitense produttrice di software, dichiarata da Fortune la migliore azienda del mondo per l’attenzione riservata ai suoi dipendenti. I lavoratori del SAS Institute non hanno un limite ai giorni di malattia, possono pranzare e cenare con le proprie famiglie ed hanno un medico a loro disposizione 24 ore su 24. Ogni mese, inoltre, il CEO incontra i dipendenti nell’ambito di un evento chiamato Conversation over Coffee, per discutere di ogni eventuale problematica emersa nell’ambiente di lavoro [1].
Dagli asili per i figli dei dipendenti di Google, al programma di finanziamento degli studi per i dipendenti di Starbucks, gli esempi relativi alla promozione delle istanze dei lavoratori sono molteplici, anche se – superata la meraviglia iniziale – non sfugge che in molti casi si tratti di abili strategie funzionali al miglior perseguimento del profitto più di autentica attenzione alle persone. Indipendentemente dalla valenza che possiamo loro attribuire, tali dinamiche segnalano una trasformazione in atto nei contesti lavorativi, dove si affaccia, talvolta in modo prepotente, la possibilità di un lavorare bene, per il tramite del coinvolgimento delle risorse della filosofia.
Ad indagare i molteplici aspetti di una tale trasformazione interviene La filosofia nelle organizzazioni (Carocci 2016), il volume di Stefania Contesini, filosofa e counselor filosofica, da anni impegnata a riflettere su queste tematiche. In termini generali, il merito del libro è di fornire la cornice teorica ed alcuni strumenti di metodo perché la filosofia possa essere ritenuta credibile come sapere di riferimento affianco agli approcci teorici, ritenuti – a torto o a ragione – più accreditati.
2. La consulenza filosofica rientra nell’ambito della filosofia applicata. A scanso di equivoci, tuttavia, un tale applicabilità non è sinonimo di secondarietà in relazione ai compiti della stessa filosofia. In altri termini, sarebbe errato concepire i contesti come meri contenitori di idee pensate eminentemente in un altrove puro ed incontaminato. In ambito filosofico, la riscontrabile persistenza di tale pregiudizio è principalmente ascrivibile alla confusione tra rigore ed esattezza. Spesso, infatti, si tende a far coincidere la filosofia tout court con la sua distanza dal reale. Secondo questo modello, più questa distanza è accentuata più la filosofia può cogliere esattamente l’essenza delle cose. È senz’altro vero che la filosofia è sapere dell’immutabile. Tale constatazione, tuttavia, non fa della filosofia un sapere esatto. L’esattezza, propriamente detta, infatti, è più appropriatamente riferibile alle scienze il cui oggetto è statico, mentre nel caso della filosofia l’oggetto di pertinenza – pur nei limiti e con tutte le riserve insite in una tale attribuzione – è dinamico. In tal senso, andrebbe ricordata l’indicazione di Rickert secondo il quale, a differenza dei saperi particolari il cui obiettivo è di produrre conoscenze specialistiche di singoli ambiti del reale, la filosofia è quel sapere al cui interno deve essere assegnata una posizione anche all’io, cioè all’uomo. In virtù di tale specifica configurazione, l’ambito di pertinenza del filosofare non può che essere pensato come dinamico, senza con questo incorrere nell’errore di ritenere che tale dinamicità sia sinonimo di mancanza di rigore.
Del resto, già Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea, con il riferimento al regolo di Lesbo, l’unità di misura flessibile, simile al metro oggi utilizzato dai sarti, aveva proposto una delle più efficaci metafore per indicare la specificità di un sapere filosofico che rimane universale ed oggettivo in virtù della sua specificità di conformarsi ai contesti, per quanto non lineari essi possano essere. L’applicabilità è valore aggiunto, dunque. Del resto, l’idea di giustizia, senza l’equità, che della giustizia rappresenta la declinazione ai casi particolari per il tramite della phronesis, rischierebbe di diventare una idea disincarnata e decontestualizzata. In anni più recenti rispetto ad Aristotele, e sulla scia del movimento della Rehabilitierung der praktischen Philosophie, è stato Gadamer in Verità e metodo, a ricordare che «il sapere morale non può mai, per principio, avere il carattere di un sapere insegnabile tutto compiuto prima dell’applicazione» [2].
L’operatore morale, cioè, può trovare il valore non prescindendo dalla situazione in cui quello stesso valore dev’essere perseguito. Il contesto, dunque, costituisce non un ambito derivato, ma essenziale per lo stesso costituirsi del sapere morale. Conseguentemente, anche la filosofia che si confronta con i contesti non può essere sdegnosamente derubricata ad una esercitazione, secondaria rispetto ad una presunta attitudine filosofica pura.
3. All’interno delle organizzazioni, le prime richieste rivolte al filosofo sono di individuare e fornire strumenti operativi originali per conseguire nel modo più efficace possibile gli obiettivi che il management si pone. Ovviamente, già nella definizione di una tale richiesta, è operante una sorta di retorica del management che, in base al presunto valore taumaturgico assegnato alle soluzioni prêt-à-porter, intende canalizzare le competenze filosofiche in una direzione specifica. Se, dunque, una delle condizioni poste al filosofo è di essere concreto e non astratto, perché è solo al livello della concretezza che si pongono i fatti, il lavoro del filosofo nelle organizzazioni mira invece, senza demonizzare gli strumenti, a far cogliere il valore di una risemantizzazione delle stesse nozioni di astratto e concreto. Con l’avversione per la teoria, spiega Contesini, «si perde di vista il fatto che ognuno di noi agisce sulla base di teorie, o abbozzi e frammenti di esse, che rimangono spesso impliciti e che costituiscono quel sapere tacito attraverso cui formuliamo i nostri giudizi sul mondo e prendiamo le nostre decisioni».
Nella esaltazione dei fatti, contrapposti alla teoria, si dimentica «il loro intrinseco legame con il pensiero che li significa, con le emozioni che li qualificano e con la comunicazione che li scambia e li trasforma». Il risultato paradossale è che «le aziende, nonostante la loro dichiarata avversione per l’astratto, finiscono per praticare l’astrazione molto più di quanto non credano».
4. A questo punto, la filosofia può mettere in campo almeno cinque grandi competenze.
1) Competenze di concettualizzazione. Corrispondono all’abilità di assumere una distanza dalla immanenza fusionale, la corrente continua che ci lega alle cose, per fare in modo che le cose stesse ed il nostro modo di riferirci ad esse possano diventare oggetto di uno sguardo critico;
2) Competenze di argomentazione. È una vera e propria «postura etica», corrispondente al confronto di ragioni mediante le forme espressive utilizzate per comunicare. È anche vero – e puntualmente segnalato dall’Autrice – che questo genere di competenze nelle attuali prassi lavorative, sempre più connotate dall’incremento della velocità con cui produrre risultati e dalla riduzione dei tempi a disposizione, rischiano di sembrare desuete. A maggior ragione, il ricorso al loro uso costituisce una scelta qualificante per un approccio autenticamente filosofico.
3) Competenze di giudizio. Non solo la capacità di unire universale e particolare, ma anche di considerare, rendere tematica e confrontare i criteri in base ai quali si giudica.
4) Competenze di valutazione morale. Corrispondono al necessario orientamento comportamentale in una determinata situazione: «Valutare razionalmente la moralità di un’azione significa metterla in questione, cioè effettuare un’indagine critica delle argomentazioni che vengono presentate a sostegno dell’azione medesima».
5) Competenze di sensibilità morale. Consistono nel fare uso e corretto riferimento al mondo degli affetti, considerate dall’autrice alla stregua di precondizioni per la vita etica. L’Autrice sembra così prendere le distanze dall’etiche sentimentalistiche che considerano il sentimento «la fonte normativa del giudizio morale».
Dopo il loro richiamo, tali competenze vengono calate nel contesto delle organizzazioni in modo da coinvolgere le persone in «scenari culturali nuovi, chiamate a recidere, anche se per poco, il rapporto diretto con il quotidiano e a sperimentare un effetto di estraniamento, di spiazzamento cognitivo ed emotivo». Scopo di tale distanziazione è di consentire un reingresso nelle situazioni lavorative alla luce di un nuovo sguardo sull’esistente. Ovviamente, una tale operazione non può riguardare solo i singoli, coinvolti in un percorso di formazione, ma deve trovare la disponibilità delle stesse organizzazioni al cui interno i singoli operano, «perché se è vero che le persone sono in grado di fare massa critica e modificare dal basso le prassi lavorative, è altrettanto vero, e purtroppo più ricorrente, che una cultura organizzativa dissonante ha un forte potere inibitore rispetto a qualsiasi cambiamento si chiede ai soggetti».
5. Un ulteriore aspetto esaminato dall’A. sono le soft skills, competenze trasversali a più figure professionali, fondamentali per la corretta gestione del ruolo lavorativo. Assertività, autovalutazione ed ascolto fanno parte di tali competenze. Ad ognuna di esse, l’Autrice dedica specifici paragrafi, ricostruendone la genesi e gli sviluppi possibili. Nel caso dell’ascolto, non si tratta soltanto di individuare una serie di pratiche in cui esso può essere praticato. Richiamando il pensiero di Jean-Luc Nancy, Contesini ricorda come l’ascolto sia tensione verso un senso possibile, anche se non immediatamente dato. L’effettivo accoglimento della proposta filosofica dell’ascolto, con i tempi richiesti da una sua attuazione, è anche il discrimine per distinguere quei contesti lavorativi in cui l’intervento del filosofo non sia vissuto come semplice operazione di maquillage da parte del management. Riconoscere tali istanze di subordinazione della filosofia è fondamentale anche per scongiurare e disinnescare il sempre operante snobismo dei puristi del pensare i quali, ricordando Foucault, ritengono che la formazione nelle organizzazioni sia funzionale al mantenimento degli equilibri di potere sussistenti. Di fronte ai due approcci confliggenti, l’esaltazione del management da un lato e la rivendicazione della specificità di una presunta filosofia pura dall’altro, l’A. cerca una terza via, non prima di aver opportunamente segnalato che il rifiuto sdegnato ad occuparsi dei contesti tristemente consegna questi ultimi all’anomia vera e propria. Scrive, in proposito, Contesini: «lavorare per un miglioramento di capacità e atteggiamenti non esime dal continuare a battersi per realizzare, con altri metodi e interventi, quei cambiamenti in grado di portare maggiore equità, diritti e sicurezza nell’ambito lavorativo».
6. Muovendo dall’ottimo libro di Stefania Contesini, in conclusione, sia consentito di riflettere in termini più generali sulla stessa consulenza filosofica.
Essa sembra fronteggiare una sorta di cortocircuito: per poter essere accolto, il counseling richiede nei destinatari quell’attitudine all’ascolto la cui palese assenza è lo stesso presupposto per l’invocazione del counseling. Da tale inaggirabile prospettiva, sembrerebbe allora che ogni possibile proposta di counseling sia destinata, a causa dell’assenza di una grammatica comune con i suoi potenziali beneficiari, a sortire effetti blandi nelle realtà alle quali si rivolge.
In altri termini, il rischio è che si convincano della bontà della consulenza filosofica coloro che ne sono già convinti. Lo spazio della persuasione razionale mediante cui si cerca con buoni argomenti e fondate ragioni di convincere i propri interlocutori può non essere sufficiente.
Più convincente appare l’indicazione contenuta nella parole di Adam Smith, il quale ne La ricchezza delle nazioni [4] aveva osservato che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal lor rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza». Di fatto, quelle parole suggeriscono un paradigma diverso che, certo, non rinunciando alla persuasione razionale e all’attitudine all’ascolto degli interlocutori, faccia leva sulla loro convenienza: «Perseguendo il proprio interesse – osserva ancora Smith – un individuo spesso fa progredire la società più efficacemente di quando intende davvero farla progredire». Nel richiamo alla convenienza, il filosofo ed economista scozzese individua un movente interno, effettivamente presente negli interlocutori e non semplicemente auspicato.
A mio avviso, oggi noi ci troviamo in una posizione per certi versi analoga. Il cambiamento che cerchiamo richiede risorse e leve che non possono essere soltanto auspicate o ritenute esistenti di fronte all’evidenza della loro assenza. A maggior ragione, quindi, la formulazione di proposte cogenti costituisce ancora di più un ideale regolativo irrinunciabile con il quale il counseling non può fare a meno di confrontarsi quale condizione della sua stessa efficacia.
Riferimenti bibliografici
- D. D’Acquisto, 5 grandi aziende che hanno reso i propri dipendenti felici, http://www.ninjamarketing.it/2015/06/10/5-grandi-aziende-che-hanno-reso-i-propri-dipendenti-felici/, visitato il 12 dicembre 2016.
- H-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1992.
- Rickert, Filosofia, valori teoria della definizione, a cura di M. Signore, Milella, Lecce 1987.
- A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 2005.
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