gscarafile

Posts Tagged ‘Letteratura’

La violenza dell’anti-cambiamento

In Uncategorized on 28 October 2014 at 6:04 PM

cambiamento anti greco

Lives spent in the fear of renewing end with the awareness that the forced attempt to maintain a condition of “chronic passivity” has been in vain. Changing is necessary, it is in the natural process of things, unlike the illusion that our own identity should always be the same without evolving. This is a real violence towards ourselves, perhaps a weak and momentary nourishment for our ego, that stops everyone in front of any novelty, inside or outside of us.

Consider Eveline, the protagonist of the fourth tale of Dubliners, who, instead of going away from a sad and monotonous life with her lover, chooses to submit to the fury of change. Even staying in Dublin, eroded by regret about a possible escape from her home and leaving aside her dream of a new life, she undergoes her epiphany. Eveline screams in the silence her condition of immobility but no one listens to her. She screams her desperation and her “chronic passivity.” A change is happening, but in a completely negative sense.

Could it be the same change Winnie is waiting for in Samuel Beckett’s Happy Days? Maybe not. In this case the anguish of a woman shows a humanity marked by the impossibility to do something except within small spaces and without obtaining any result. Nevertheless, impossibility is imposed by external conditions and by the illusion that the best achievement could be accomplished only with marriage. This is a status quo imposed by the society that creates the illusion of living another “divine day.” And maybe also another day waiting for Godot, emblem of the so long awaited change that will never come. In this work of Beckett’s, which is the pillar of the “Theatre of the Absurd,” there is not a real temporal structure: nothing changes but everything is repeated cyclically, almost in an insignificant panta rei. The protagonists expect the change but they do not do anything: they simply wait for something that will change their due and unwanted existence. Another day waiting for Godot and his “promised land” that will never come, but will remain awaited.

Both Winnie and the protagonists of Waiting for Godot contemplate suicide as the only extreme way to change, when it would be easier to change less drastically. Even suicide itself becomes a too-easy escape.

Is it possible to compromise between the violence of immobility and the fury of change?

È possibile “smettere” di trasformarsi, interrompere un cambiamento? Secondo il senso comune “Cambiare è necessario”. La necessità di cambiare non è però un concetto così scontato. Vivere è, di per sé, innovazione: mutano i tratti, la voce, i sistemi neuronali evolvono, si cresce. Lo stesso vale per i tratti del proprio io: cambiano le opinioni, le idee, le convinzioni e le credenze e spesso in maniera così enigmatica da rendere impossibile percepire il momento esatto in cui lo fanno. Cosa spinge allora molte volte a voler “restare fermi”?

È importante capire che l’illusione di restare sempre uguali a sé stessi è solo un nutrimento debole per il proprio ego (considerando il cambiamento, da questo momento in poi, una metamorfosi del pensiero). Ciò che spesso si nasconde dietro questa illusione è la paura. È indubbio che la paura sia motivante, ma in senso opposto: chiedere a sé stessi la stabilità non solo rende qualsiasi imprevisto come qualcosa da evitare ma, in quanto tale, anche un possibile turbamento. Vivere diventerebbe immobilità assoluta.

Emblema di questa staticità forzata potrebbe essere Eveline, la protagonista del quarto racconto di Gente di Dublino. L’autore non lascia parlare lei ma la sua interiorità, attraverso la tecnica del flusso di coscienza[i], ponendo la vicenda su un livello molto profondo e intimo. Eveline, di fronte alla possibilità di fuggire con il proprio fidanzato da una vita triste e monocorde a Dublino, sceglie di restare nella casa dov’è nata per mantenere unito il nucleo familiare. Questa scelta non è però spontanea: sul letto di morte della madre, la ragazza aveva promesso di prendersi cura del padre e del fratello. Alla volontà incerta di scappare, con tutti i dubbi su un mondo mai assaporato, si aggiunge il senso di colpa di non essere in grado di mantenere la promessa fatta, preda di una società paralizzata dalla morale cattolica e dalla crisi politica. Eveline preferisce così assoggettarsi alla volontà altrui: non sceglie il cambiamento, lo subisce. Pur restando a Dublino e abbandonando il sogno di una vita migliore, patisce la propria epifania. La ribellione diventa paralisi. L’apatia raggelante diventa rabbia. Eveline subisce una metamorfosi assoluta, ascoltando le urla che la circondano e l’urlo che cova dentro, inascoltato: è inghiottita dalla folla che, come lei, vorrebbe scappare. Non è più persona, perde la propria identità per diventare parte e manifesto di un’umanità che non riesce a scappare: urla la sua disperazione, urla la sua condizione di “inerzia cronica”. Il cambiamento evitato, non potendo trasformare, distrugge. Contestualizzando il racconto, Eveline è uno dei tanti manifesti del Modernismo, una corrente culturale nata all’inizio del Novecento che si proponeva non solo come alternativa al classicismo ma anche come boicottaggio ai dettami legati al romanticismo, correnti “inadeguate” al periodo storico di allora. Un senso di inadeguatezza di fondo che brucia anche nel racconto di Joyce e che non permette all’epifania di compiere una metamorfosi in positivo. Ciò che veniva enfatizzato dal romanticismo, l’introspezione dei sentimenti, lascia il posto ad un’introspezione quasi neorealistica, il flusso di coscienza: l’uomo non ha ordine nel proprio pensiero, segue le idee e i ricordi che i sensi gli portano alla mente, spesso senza un rapporto causa-effetto. Ciò che queste opere si propongono è, in definitiva, molto semplice: è impossibile riuscire a comprendere tutto ciò che gravita attorno al pensiero umano; la paura del cambiamento non ha una sola causa e, per quanto se ne possano studiare le varianti, non saranno mai tutte.

Che dire poi di Winnie, la protagonista del dramma Giorni Felici?

«Né peggio né meglio…nessun cambiamento…nessun dolore…o quasi…è già una gran cosa…» (Beckett 1961: 3). Winnie è sposata con Willie ormai da tempo e vive una condizione decisamente “particolare”: è infatti intrappolata dalla vita in giù in una sorta di scoglio. La donna, anche se bloccata per metà del corpo, continua meccanicamente ad agire come se vivesse nella normalità: si rifà il trucco, si lava i denti e tira fuori dalla borsa che ha accanto molti oggetti, tra cui una pistola. Tutto farebbe pensare ad un tentativo di suicidio imminente ma, almeno nel susseguirsi meccanico delle sue parole, Winnie afferma di vivere tanti giorni felici. Parlando esprime la sua ragione d’essere e la ragione d’essere di suo marito, il quale a sua volta compie una serie di gesti meccanici e risponde di tanto in tanto a monosillabi. Parlando, vive. Questo forte legame alla vita tuttavia non la risparmia dal continuare a sprofondare nella montagna (nel II atto, della donna si vedrà solo la testa). Questo blocco altro non è che l’illusione “corporea” della propria felicità, l’impedirsi di vedere la propria crisi psichico/personale e la crisi di un matrimonio. Torna l’elemento dell’urlo rivelatore. «Sento delle grida. Non senti mai delle grida tu, Willie?» (Beckett 1961: 20). Ancora una volta, come in Eveline, Winne diventa manifesto dell’umanità segnata dall’impossibilità di agire, se non entro piccoli spazi e senza arrivare a nessun risultato. È protagonista però di un blocco più drammatico di quello vissuto da Eveline: un blocco fisico, dettato da fattori esterni, una sovrastruttura delle speranze e delle illusioni della donna (un matrimonio fallito, l’incapacità di comunicare), talmente radicate da risultare più potenti delle realtà e, quindi, più violente. Tutto questo in una cornice critica verso la morale degli anni Sessanta, che vedeva nella realizzazione di ciascuno, specie della donna, solo la creazione della famiglia, “l’apparire”, piuttosto che l’essere.

Esiste però anche un’umanità che pretende il cambiamento ma non ne è motore, si aspetta semplicemente un deus ex machina, un imprevisto trasformatore, un’evoluzione della propria esistenza dovuta e non voluta. Un altro giorno in cui aspettare Godot e la sua “terra promessa” che, lasciandosi solo aspettare, non arriverà mai. In Aspettando Godot è evidenziata una nuova dimensione non considerata fino ad ora: il tempo o, meglio, la sua ciclicità. I protagonisti Estragone e Vladimiro sono due barboni che aspettano da tempo indefinito un certo Godot il quale, non presentandosi mai, manda un messaggero affinché li avvisi che arriverà il giorno seguente. I due, pur affermando più volte di voler andare via, restano immobili e continuano ad aspettare, proponendo di tanto in tanto il suicidio. Di fronte ad un’azione, in definitiva, non compiuta perde valenza anche il linguaggio. Perché i due non vanno via? Curiosità per ciò che è stato loro promesso o semplice angoscia di fronte alla prospettiva di un cambiamento vero, cioè la scelta di andare via? Il fatto che siano stati scelti due barboni non è casuale: di fronte ad un’aspettativa di vita migliore essi sono disposti ad aspettare in eterno oppure, come Winnie, a suicidarsi: sono catatonici, intontiti, non hanno consapevolezza di sé e della propria volontà.

Nei personaggi di Beckett l’unica via di fuga dall’immobilità è il suicidio, proposto ma probabilmente sempre evitato. Nella palese possibilità di cambiare non c’è una presa di coscienza ma solo un’estremizzazione della propria immobilità che può essere interrotta solo con la morte. Il barlume di consapevolezza della propria condizione statica è presente, come epifania, solo nel racconto di Joyce. Tuttavia, seguendo Eveline, la consapevolezza non è compensata da un’ulteriore spinta alla trasformazione, un’epifania “nell’epifania”, sempre per paura, autocommiserazione o per accomodamento alla propria situazione. Nella sua lucidità, è l’unico personaggio che sarebbe in grado di cambiare il corso della propria vita ma decide di non farlo.

Cambiare è sicuramente un rischio: gli esempi letterari sopra citati, anche se in maniera estrema, dimostrano che interrompere un’evoluzione del proprio io sia non solo impossibile ma dannoso. Fare il salto, per quanto rischioso, è sempre nel bene e nella dimostrazione della propria identità: sperare di non cambiare per un senso inconscio di identità stabile è un errore, una violenza verso sé stessi. Tanto cambia tutto. Sempre. Perché negarci questa possibilità? Solo allora ci concederemo di progredire.

 

Roberto Greco

Roberto Greco è nato a Casarano nel 1992. Dopo il Liceo Classico, nel 2011, si iscrive alla Facoltà di Scienza e tecniche psicologiche presso l’Università del Salento. Sperimenta quanti più interessi possibile, che gli occupino il tempo tra una corsa in palestra e lo studio, tra cui la fotografia, la grafica, la tecnologia, l’amore spasmodico per il cinema e la letteratura, la filosofia e, ovviamente, la psicologia. Questa è la sua prima collaborazione per Yod Magazine.

 

Riferimenti bibliografici

Beckett, S. 1952. Aspettando Godot. Torino: Einaudi.

Joyce, J. 1914. Gente di Dublino. Bussolengo: Demetra.

Beckett, S. 1961. Giorni felici. Torino: Einaudi.

[i] Il flusso di coscienza è una tecnica narrativa che consiste nella libera espressione dei propri pensieri in forma scritta nel modo in cui essi appaiono nella mente, prima di essere riorganizzati in maniera logica e grammaticalmente corretta/scorrevole. Questa tecnica è stata utilizzata da un filone di scrittori del Novecento, i modernisti, tra cui spiccano James Joyce e Virginia Woolf. Il corrispettivo italiano più simile a questa tecnica si trova in Italo Svevo, ne La coscienza di Zeno.

Nello scrivere, nel narrare

In Uncategorized on 21 July 2014 at 4:05 PM

Dialogo con Erri De Luca e Livio Romano

di Roberta Pizzi

roberta pizzi

Nel mio personalissimo peregrinare fra letture, spesso senza orientamento e senza bussola, mi sono avvicinata alle opere di diversi scrittori. Alcune mi accompagnano nel quotidiano, come eco di sottofondo o come controcanto, altre si sono perse nel trascorrere del tempo, altre sono divenute parte di me e mi hanno dato un modo nuovo di guardare il mondo, come nuovi occhiali che rendano più chiara la visione delle cose. La navigazione a vista spesso non porta in nessun luogo, fa girare in tondo e perdere l’approdo certo, ma qualche volta crea rimandi, incontri fortuiti o destinati. E allora si inseguono le orme di un autore come si farebbe in una caccia al tesoro per trovare la strada e il premio, si ripercorrono i sentieri tracciati dalle scritture, con l’attesa di quello che ancora è da scoprire e conoscere. Le parole scavano e incidono come l’acqua la pietra, e il solitario esercizio di lettura si fa silenzioso dialogo con un autore, sperimentazione di altro da sé, cambiamento lento e conquista.

erri de luca_ritratto sfondo nero

Erri De Luca. Ritratto di Roberta Pizzi

“Coltivate le amicizie, incontrate la gente. Voi crescete quanto più numerosi sono gli incontri con la gente, quante più sono le persone a cui stringete la mano” diceva don Tonino Bello, e prendere un libro in mano è stringere mani nuove, abbracciare incontri e coltivare amicizie.

Di tutte le letture amo ogni aspetto che mi sia dato di cogliere. La parola scavata, incisa, netta, terribile in senso sacro, di Erri De Luca; quella elegante, forbita, arguta e agile di Livio Romano, sono le due scritture con cui mi sono confrontata in questo immaginario dialogo a distanza.

  1. Nella narrazione è più pressante il desiderio di comunicare o quello di esprimersi, di “dire qualcosa” o di “dire sé stessi”?

Erri De Luca: Scrivo per ricordarmi e raccontarmi una storia. Dal tempo trascorso mi affiora ogni tanto un dettaglio, un momento. Scrivendolo diventa tempo ripassato insieme. Non c’entra per me esprimermi né imprimermi. Conta per me tenermi compagnia. Da lettore è lo stesso: una storia deve riuscire a starmi accanto, valere il mio tempo di lettura. Ci sono grandi scrittori, loro opere solenni che mi sono cadute dalle mani per mancato scambio.

Livio Romano: Parlo del mio caso. Sì: una fortissima propensione alla comunicazione, al raccontarsi, prima che al raccontare. Al mettere al centro di una scena narrativa un proprio io trasfigurato, mistificato, ideale, forse, perfino. Pure se poi quell’io che talvolta fa capolino nei miei romanzi è dotato di un’autoironia feroce che è propria sì della mia persona, ma che tende a trasmettere l’idea che, pur salendo su uno scanno e prendendo la parola, quell’io fatica moltissimo a prendersi sul serio.

Detto ciò, la mia scrittura è percorsa anche, e soprattutto, da una forte tensione ideale, civile. Uno dei moventi principali che mi spingono a raccontare una storia è l’indignazione, la voglia di mettere alla berlina quelli che il mio personale sistema di valori considera i cattivi.

  1. Cosa cambia, se qualcosa muta, nella persona dello scrittore/narratore quando si mette a scrivere? È opportuno o necessario che qualcosa cambi perché si abbia narrazione? Si deve diventare altro da sé per narrare storie?

Erri De Luca: Per me si tratta di raggiungere il tono di voce di un io narratore che raccoglie la storia dal suo punto di vista, all’ interno della vicenda stessa. Non ho la distanza della terza persona, dello scrittore che fa svolgere una storia di altri, da lui diretta. Dispongo invece di un narratore interno che la sta pronunciando. C’entra perciò l’ udito nella mia scrittura. Devo diventare un ascoltatore.

Livio Romano: Il narratore vero è colui il quale sa decentrarsi, sa vestire i panni di uno nessuno e centomila personaggi, come si dice. Succedono fenomeni curiosi quando vesti i panni di un personaggio molto lontano da te, quando lo fai agire, parlare. A volte scopri che ti è simpatico, che provi per lui una compassione umana che ti porta a non mandarlo all’Inferno dei cattivi (the writer is a God, pure si dice, a indicare la possibilità che uno scrittore crei, faccia, disfaccia a suo totale ed esclusivo piacimento la vita nuova che mette in scena). Scopri, dunque, che quell’essere abominevole tiene dentro dei tratti che sono tuoi propri e non te n’eri mai accorto. Poi io son d’accordo nel potere salvifico, terapeutico della scrittura. Diceva Tondelli che si scrive non per ricordare bensì per dimenticare. Io non ho mai più riletto i libri che ho fatto e pubblicato in 20 anni. Philip Roth l’ha fatto solo a 80 anni, prima di decidere di smettere per sempre. Storia raccontata, affidata ai lettori, agli ermeneuti, distaccatasi da te insieme con la vita che ci hai messo dentro. Ho deciso di chiudere una grande storia d’amore dopo aver scritto un romanzo su quell’amore, per esempio.

  1. La conoscenza che posso avere dell’altro (lettore) passa prima attraverso la conoscenza che ho di me (come primo lettore). Sembra banale, è questo il processo attraverso cui si costruisce una esperienza di lettura che conduce alla ideazione di una immagine del lettore cui ci si rivolge?

Erri De Luca: Non ho nessuna immagine della persona che prenderà il mio libro, miracolosamente proprio quello, in mezzo al gran bazar degli scaffali. La conosco solo per caso dopo, quando quella persona mi fa sapere della sua lettura, di una sua accoglienza.

livio romano_ritratto

Livio Romano. Ritratto di Roberta Pizzi

Livio Romano: La conoscenza dell’altro: esattamente. Conoscenza proprio in senso biblico. Amore per il prossimo, per l’umanità intera: è la ragione per cui scriviamo storie, per cui raccontiamo le vite delle persone. Mente chiunque dichiari che scrive per se stesso. Ogni narrazione, orale o scritta o cinematografica o teatrale, ha bisogno di un pubblico perché venga ad esistere. Io scrivo esclusivamente perché mi si legga, perché la gente si arrabbi insieme a me con i felloni che faccio agitare nelle pagine, o si commuova, o rida –soprattutto rida. Tuttavia non ho un’immagine del lettore ideale della storia. Non più. Né, quando ce l’avevo, me ne lasciavo influenzare adottando piccole o grandi censure o, al contrario, dilatamenti degli avvenimenti. Ho imparato che le tue storie finiranno in mano alla gente più incredibile e lontana, della quale magari tu non avresti sospettato neppure l’esistenza. Tutto ciò, non lo nascondo, è piuttosto inebriante.

  1. Spesso la formazione di uno scrittore non è canonica, molti scrittori affermano di essersi “ritrovati a scrivere nonostante” percorsi di studio di altra natura; è forse questo che contribuisce a dare maggiore ricchezza al tessuto della narrazione di uno scrittore?

Erri De Luca: Uno scrittore più ne ha passate più ne contiene.

Livio Romano: Tutto sacrosanto. Io ho fatto studi giuridici e nella vita insegno inglese ai bambini. Non ho una formazione letteraria pure se ho fatto un eccellente liceo. E amo soprattutto gli scrittori che provengono da altri percorsi –nel senso che mi accorgo di prediligerli. Penso solo all’ingegner Gadda o al chimico Franzen. In Italia, poi, da sempre una folla di giuristi ha capacità narrative fuori dal comune. Ho una mia teoria. Il logos giuridico è chiaro, cristallino, cartesiano, sillogistico. Non si presta a eccessive divagazioni. Una palestra di rigore, insomma. Dopo la laurea in legge ho fatto una decina di esami a Lettere. Mai come in quel periodo ho scritto roba orrenda. Alberto Rollo di Feltrinelli mi convocò a Milano per parlare del mio nuovo libro. A pranzo mi rivelò che fu mosso dalla bruttezza della sinossi che gli avevo spedito. Sembrava scritta da una penna diversa rispetto a quella che aveva buttato giù il romanzo, mi disse. Abbandonai lettere. Giulio Mozzi una volta rispose a una mia lettera nella quale dichiaravo che mi sentivo ignorantissimo, che forse mi sarei dovuto mettere a studiare retorica, linguistica, analisi del testo: “Invece che cumuli di quella roba, pensa a cumulare centinaia di serate a parlare con la gente in osteria”, mi rispose. Sembra ovvio, ma per uno come me abituato da sempre solo a studiare fu una rivelazione.

  1. Vi sono scrittori che affermano scrivere nel tempo tra la notte e l’alba, o che non possono scrivere se non in un dato luogo, o al contrario scrivono ovunque. Quanto è importante, se davvero lo è, nel mestiere del narratore il contesto, il luogo e il tempo in cui si scrive?

Erri De Luca: Per me scrivere non è un mestiere né un lavoro. E’ il tempo festivo e migliore. Non sono l’impiegato della mia scrittura, non mi timbro il cartellino di inizio e quello di fine. Sc rivo per mio purissimo sfizio, nell’ora e nel luogo qualunque, in ogni caso a penna e su quaderno, lontano da tavoli e scrivanie.

Livio Romano: Io scrivo dappertutto. Treni aerei stanze d’albergo biblioteche, perfino in auto. La scrittura è quasi sempre un tempo rubato. Chiedilo ai narratori. Ti risponderanno quasi tutti così. Perché di libri non si vive in Italia, e perché se hai un lavoro e una vita regolari, figli, commissioni: non può che esser così. Occorre il silenzio, questo sì. O anche il discreto chiasso di una grande città che corre mentre tu ticchetti sul pc. Ho scritto pagine di grande comicità in un’austera sala da tè di Basilea con vista Reno, e pagine di dolente angoscia nella tranquillità della mia casa in campagna. Un tempo prediligevo la notte, d’estate, all’aperto. Sto diventando grande, non ce la faccio più a esser lucido da mezzanotte alle quattro del mattino. Prediligo la mattina (per me diventato il momento più creativo, più sensuale, paradossalmente onirico) e il tardo pomeriggio. Tuttavia vivere per un tempo continuativo in un luogo inevitabilmente forgia la tua scrittura, e non solo per la musica che gira intorno, per le parlate che ascolti. È proprio il paesaggio e l’architettura che si insinuano nel tuo modo di organizzare il periodo, nella tua sintassi, nonché nel lessico che utilizzi, e nelle atmosfere che cerchi di restituire. Ogni scrittore è consapevole del valore delle proprie cose. Ebbene, io credo che la cosa migliore che abbia mai scritto sia il racconto Gigi che chiude Mistandivò, il mio libro d’esordio. Un raccontino perfetto, asciutto, denso di brume e insieme di speranza. Lo scrissi sepolto nella nebbia della bassa mantovana in cui vivevo da mesi, durante una settimana in cui nevicò, e lo scrissi –lo ricordo solo ora che lo racconto- a mano perché non disponevo di un computer. Avevo con me il fedele Palazzi del 1929 e nient’altro.