Giovanni Scarafile

Eugenio Borgna (Roberta Pizzi)
Peter Schlemihl, il protagonista del racconto Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814) di Adalbert von Chamisso, si trova di fronte alla scelta di realizzare un conveniente baratto con un signore vestito di grigio, che in seguito si rivelerà essere il demonio: in cambio della rinuncia alla propria ombra, avrà la possibilità di attingere denaro senza limite alcuno da una borsa magica. Quale importanza può mai avere l’ombra nella vita di un uomo?, è la domanda che Peter deve essersi posto. In realtà, l’ombra rappresenta qualcosa che, pur essendo parte di noi, non è tuttavia a nostra disposizione. Rinunciare all’ombra significa ritenere che si possa continuare a vivere, addirittura che si possa vivere meglio, proprio nel momento in cui si rinunci a quella specifica interezza che noi costitutivamente siamo.
La vicenda di Schlemihl racconta allora di una rimozione inconsapevole che, al di là del racconto, rinvia ad un atteggiamento forse più diffuso di quanto si possa immaginare. Ritenersi liberi dalla proprie zone oscure, sentirsi consistere, se così si può dire, di sola luce è, per l’appunto, l’effetto di una rimozione non troppo infrequente e non soltanto riferibile ad un racconto vecchio di due secoli.
Le situazioni umane rivelano, ad uno sguardo avvertito, differenti consistenze e densità che, per essere vissute o anche solo percepite, richiedono il concorso di una umanità integralmente costituita.
Conoscere e vivere propriamente tali differenze richiederebbe infatti per ciascuno di noi una conformazione specifica, lo sforzo costante di adeguazione del conoscente al conosciuto, il lasciarsi suggerire dalle cose stesse la modalità consona per sintonizzarsi su di esse. Il motivo per cui, anche al di là delle differenze tra i singoli approcci, i filosofi di ogni tempo suggeriscono la difficoltà di instaurare tale salvifica modalità d’esistenza sta, prima di tutto, nel fatto che lo sguardo avvertito è scomodo. Molto più semplice è essere e rimanere ancorati ai propri interessi immediati, alle proprie comodità, al soddisfacimento dei propri bisogni primari, in una sorta di appiattimento al fisiologico. Molto più semplice è non pensare. Iniziare ad immaginare moltiplicazioni del possibile, vivere sotto il costante pungolo di domande sul senso delle cose richiede infatti un esercizio cui si può rinunciare facilmente. Come invisibili, si passa così sopra le vicende umane, incuranti di quella densità che richiederebbe ben altra attitudine ed anzi resistendo fieramente agli inviti, in verità sempre meno frequenti, a schiodarsi da ogni deresponsabilizzante ancoramento al superfluo.
La vicenda di Schlemihl simbolicamente allude al rischio di un approccio per così dire diminuito alla vita. Al tempo stesso, però, proprio nel momento della denuncia di un rischio, essa rivela anche una possibile inedita apertura. Come accade al protagonista dal racconto, infatti, si può prendere coscienza di quella rimozione fondamentale, aprendo gli occhi sui propri errori e così riscoprendo il gusto di una più alta destinazione in grado di restituire un piano di visione altrimenti inaccessibile. Andando controcorrente e sotto le lenti di uno sguardo avvertito e critico, l’esistente rivela aspetti inediti. Malattia e deprivazioni possono diventare, per fare un solo esempio, non una condanna senza appello, ma occasione per rivelare dimensioni del tutto inedite dell’umano.
Di tutto questo e di molto altro, YOD ha discusso con Eugenio Borgna, padre nobile della psichiatria italiana. Eugenio Borgna, nasce nel 1930 a Borgomanero, si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Torino, conseguendo successivamente la specializzazione in Malattie nervose e mentali. Libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali nell’Università di Milano e direttore dell’Ospedale psichiatrico di Novara, diventa primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. Contemporaneamente alla sua attività medica, Borgna è venuto affermandosi come uno dei più originali scrittori e saggisti ed i suoi libri, oltre ad aver vinto numerosi riconoscimenti, hanno conosciuto numerosissime edizioni, mettendo d’accordo la critica. A proposito de Le intermittenze del cuore (Feltrinelli, 2003) scriveva Luciana Sica su Repubblica del 15 Ottobre 2003: «Il libro è l’esatto contrario di un viaggio in un vagone piombato, com’è in genere la lettura di un saggio scritto da uno psichiatra. Scorrendo le pagine di Borgna, si spazia ariosamente nell’universo della grande letteratura e molto meno in quello delle conoscenze mediche, nel catalogo delle emozioni piuttosto che in un grigio elenco di sintomi». Un giudizio cui faceva eco quanto osservato da Luca Doninelli su Il Giornale del 21 Gennaio 2004: «Un libro splendido … Attraverso un’analisi mirabile, l’Autore si interroga sulla deriva farmacologica della psichiatria e difende lo spazio dell’anima che è vita in tutti i suoi aspetti, di dolore, di sofferenza e anche di intuizione e di bellezza».
Incontrare Borgna, un uomo elegante di cui colpisce la mitezza dello sguardo e la straordinaria capacità d’analisi, significa allora senz’altro affrontare argomenti specifici, ma anche porsi in ascolto di un testimone della possibilità che l’esistenza possa essere inverata secondo coefficienti non comuni, rendendo in tal modo possibile quella coincidenza, teorizzata da Weber, tra professione e vocazione.
Incontrare Borgna è dunque occasione per ricostruire quell’intero infranto che, molto spesso inconsapevolmente, alberga in ciascuno di noi.
Prof. Borgna, agli inizi della sua carriera, Lei è stato Assistente ordinario presso la Clinica Neurologica dell’Università di Milano. Che cosa l’ha spinta ad abbandonare in un certo senso quella strada e ad orientarsi verso la psichiatria fenomenologica? Chi sono le persone o gli autori che hanno più influito sulla sua scelta?
Nell’ordinamento delle Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane, e questo fino al 1977, la psichiatria veniva insegnata, quando lo avveniva, nel contesto delle Cliniche delle malattie nervose e mentali nelle quali si dava esclusiva importanza alla neurologia. La psichiatria, considerata come una disciplina non scientifica, veniva delegata nella sua pratica agli ospedali psichiatrici; riservandosi i direttori delle Cliniche universitarie la sola illustrazione teorica delle diverse forme di malattia psichica: considerate, del resto, come espressione di destini perduti al senso, e talora alla dignità, della vita. Ma, nella Clinica di Milano, lavorava come aiuto il prof. Carlo Lorenzo Cazzullo che, di ritorno dagli Stati Uniti dove si era trattenuto alcuni mesi per studiare le malattie infiammatorie cerebrali e le malattie psicosomatiche, non si occupava solo di neurologia ma anche di psichiatria. Così, progettando una ricerca sulla efficacia terapeutica dei farmaci antipsicotici, degli psicofarmaci, scoperti nel 1952 in Francia, e non essendoci in Clinica pazienti con disturbi psichici, ha voluto che frequentassi uno dei grandi ospedali psichiatrici milanesi, quello di Affori, nell’orizzonte di una ricerca non solo strettamente farmacologica ma anche psicopatologica: incentrata, cioè, sugli aspetti interiori delle modificazioni sintomatologiche indotte dai farmaci. Le terribili condizioni di vita dei pazienti di quell’ospedale, la inaudita leggerezza con cui medici e infermieri si confrontavano con la loro sofferenza e la loro fragilità, mi avevano consentito di intravedere la grandezza e la miseria pascaliane dei pazienti e delle pazienti; e dalla ricerca è scaturito il primo lavoro italiano sul tema di una psichiatria umana: recuperata nelle sue dimensioni profonde e nobili. L’esperienza, che mi era stata così consentita, mi aveva indotto a studiare i grandi testi della psichiatria, quelli tedeschi in particolare, nei quali confluivano le correnti più vive e stimolanti della filosofia moderna.
Nei suoi libri, da L’esistenza ferita a L’arcipelago delle emozioni, da Le intermittenze del cuore a L’attesa e la speranza, Lei è riuscito ad individuare una rara e preziosa modalità di scrittura in grado di tenere insieme dimensione scientifica, che in quanto tale mira alla individuazione delle componenti universali, e le singole situazioni esistenziali dei pazienti. Lei è cioè riuscito ad inverare l’ibridazione tra le forme espressive. Da cosa nasce questa doppia modalità della sua scrittura? Ritiene che il linguaggio dello specialismo rischi, almeno qualche volta, di essere un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci stanno dinnanzi?
Ogni psichiatria ha necessarie premesse filosofiche che ne condizionano il suo modo di essere, e il suo modo di essere-in-relazione con i pazienti. Anche la psichiatria somato-logica, la psichiatria che si considera estranea ad ogni influenza filosofica, non è pensabile se non nella sua stretta dipendenza dalle concezioni positivistiche che assimilano i processi psichici ai processi neurobiologici: come avviene, oggi, nel contesto delle neuroscienze: almeno in quelle che postulano un riduzionismo inesorabile e immanentistico fra fenomeni mentali, e fenomeni neurobiologici. La psichiatria fenomenologica, certo, si è venuta delineando e configurando nel solco, e sulla scia, della fenomenologia husserliana e jaspersiana, heideggeriana e scheleriana, nelle sue diverse articolazioni tematiche. Le categorie fenomenologiche fondamentali, che il pensiero filosofico moderno ha fatto riemergere con drastica evidenza, quelle del tempo e dello spazio vissuti, del corpo vivente e della relazione vissuta con il mondo delle persone e delle cose, si sono costituite come strutture portanti della conoscenza dei fenomeni psichici, e corporei, non solo normali ma patologici. E le categorie fenomenologiche fondamentali, applicate alla esistenza di ogni singola esperienza di malattia psichica, ci hanno consentito di intravedere, e di cogliere, le linee sfavillanti del senso anche in forme di vita psicotica apparentemente destituite di senso. Ma quello, che ogni singola situazione psicotica, ogni singola situazione esistenziale ferita dalla malattia, rivela in sé, conferma la straordinaria importanza della fenomenologia nell’illuminare i sentieri misteriosi della follia, e questo può essere utile alla filosofia (forse) nel chiarire alcuni aspetti del suo discorso sul tempo e sullo spazio, sul corpo vivente e sulla relazione “io-mondo”. Solo un linguaggio, che metta-fra-parentesi le articolazioni tecniche di ogni psichiatria freddamente clinica, consente di applicare le categorie fenomenologiche di matrice filosofica alla concretezza di ogni situazione psicopatologica. Sì, come lei giustamente dice, il linguaggio dello specialismo rischia, ogni volta, di essere un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci stanno dinanzi.
In un’intervista, Lei ha sostenuto che «le cose che Goethe ha scritto di Ottilia nelle Affinità elettive rappresentano un’anticipazione straordinaria, quasi profetica di quella sindrome clinica, oggi quanto mai problematica, che è l’anoressia». Leggendo queste sue parole, mi è tornato in mente quanto Milan Kundera scrive ne L’Arte del romanzo, laddove osserva che «il romanzo conosce l’inconscio prima di Freud, la lotta di classe prima di Marx, pratica la fenomenologia (la ricerca dell’essenza delle azioni situazioni umane) prima dei fenomenologi. Che stupende ‘descrizioni fenomenologiche’ nell’opera di Proust, che non ha conosciuto nessun fenomenologo!». Quale contributo è possibile attribuire ad altri approcci disciplinari nell’ambito di una ermeneutica della malattia mentale?
Le citazioni, che lei fa del saggio di Milan Kundera sul romanzo, sono affascinanti, e contengono una scheggia palpitante e viva di verità storica e psicologica. Prima di soffermarmi su di esse, vorrei ricordare che Kundera ha scritto pagine di grande intuizione (anche) fenomenologica su esperienze come quelle della memoria, e dell’oblio, e delle identità così complesse, e così articolate, nelle loro diverse dimensioni tematiche e nella loro genesi. Ma, a parte questo, direi che non si può non concordare con la tesi suggestiva, che egli enuncia con drastica chiarezza, e nondimeno con qualche necessaria precisazione. Certo, il romanzo conosce l’inconscio prima di Freud, e la lotta di classe prima di Marx; ma conosce queste dinamiche psico-analitiche e sociologiche nella loro fisionomia germinale: con intuizioni rapsodiche che sarebbero presto cadute nella dimenticanza se non fossero state condivise, e sviluppate, con una sconfinata massa di osservazioni e di riflessioni, di concreti progetti applicativi e di analisi storiche, che hanno fatto la grandezza radicalmente originale e creativa di Sigmund Freud e di Karl Marx. Le cose mi sembrano molto diverse quando riflettiamo su quello che Kundera dice della fenomenologia, definita fra l’altro così rigorosamente e scientificamente come la ricerca dell’essenza delle situazioni umane, e delle splendide descrizioni fenomenologiche, che fanno parte indelebile dell’opera di Marcel Proust: ma, anche, benché in misura diversa, di alcune grandi opere goethiane, come le Affinità elettive e I dolori del giovane Werther, e thomasmanniane, come i Buddenbrook e La montagna incantata. Le analisi fenomenologiche, che hanno luogo in questi romanzi insondabili nella loro grandezza, consentono di guardare negli abissi dell’anima umana, normale e malata, con una profondità irraggiungibile dalla psichiatria; e hanno offerto alla psichiatria strumenti ermeneutici in ordine alla comprensione della follia di straordinaria importanza. In questa area di discorso come non ricordare le mirabili pagine, arcanamente fenomenologiche, di Giacomo Leopardi sulla speranza e sulla malinconia, sulla morte volontaria, sulla nostalgia e sulla gioia? Non si può fare psichiatria fenomenologica senza fare riferimento a queste inenarrabili intuizioni letterarie.
Ne Il volto senza fine, Lei scrive “Solo ascoltando chi sta male, solo cercando di articolare un colloquio che non sia aridamente clinico ma che consenta alle due soggettività in gioco (quella di chi cura e quella di chi è curato) di confrontarsi in un contesto di apertura reciproca e di libertà, ci si avvicina alle regioni interiori della sofferenza”. In questo modo, mi pare Lei presupponga un approccio per così dire “patico” al senso della sofferenza. Ci sono delle avvertenze di cui occorre tenere conto quando si adotti tale approccio? Quali sono specificità, obiettivi ed eventualmente limiti di un colloquio terapeutico?
Non c’è colloquio clinico, non c’è conoscenza di quello che si svolge nella vita interiore, nella immaginazione e nella sensibilità, dell’altro-da-noi, sia malato sia sano, se non c’è relazione, e cioè reciproca partecipazione emozionale, fra chi cura e chi è curato. Questa enunciazione, astrattamente così semplice e univoca, è in realtà complessa e problematica nella sua realizzazione pratica: nella sua realizzazione terapeutica. Non basta che una paziente, un paziente, si senta compresa, e non giudicata, da chi la cura; perché, al di là di questo, è condizione essenziale di ogni relazione dotata di senso che essa si svolga in un contesto di fiducia; e la fiducia non è programmabile, e non è fabbricabile, su ordinazione: nasce quando vuole, e si spegne talora imprevedibilmente: enigmatica, e talora inesprimibile, come ogni autentica e fragile dimensione emozionale della esistenza.
Questo discorso sottintende, ovviamente, la tesi, ma non ci sono certezze in psichiatria, che, come lei dice splendidamente, non ci possa essere cura se non nel contesto di un avvicinamento patico al senso della sofferenza: così difficile e così segreto, così fluttuante e così oscuro, e nondimeno reale e radicale. Questa tesi, che è la tesi della psichiatria fenomenologica, non può non essere consapevole degli scogli talora insormontabili che non consentono ad una relazione terapeutica di svolgersi adeguatamente. Non basta, cioè, la presenza di una partecipazione emozionale, di una immedesimazione immaginativa, di una qualche fragile fiducia reciprocamente fondata, perché chi cura abbia ad essere di aiuto concreto e decisivo al destino di sofferenza di chi chieda aiuto. Il rischio è che la Einfühlung (la immedesimazione) si trasformi schelerianamente in Eins-fühlung (la identificazione); facendo perdere libertà e autonomia sia a chi cura sia a chi è curato: con conseguenze anche eticamente insostenibili.
Oggi le sempre più raffinate tecnologie di indagine diagnostica ci consegnano nuovi e più definiti riscontri sulla natura umana. Partendo da tali successi sperimentali, viene affermandosi la tesi della visibilità assoluta dell’umano e della sua riconducibilità ai sottostanti fattori neuro- biologici. Secondo Lei, la persistenza di un tale approccio riduzionistico, è in grado di insegnare qualcosa o va rigettato tout court?
La sua domanda, anche questa di radicale importanza, coglie il nocciolo emblematico e decisivo delle riflessioni sulle neuroscienze, e sulla loro significazione in ordine alla spiegazione dei fenomeni psichici normali, o patologici, e di esperienze umane come quelle della libertà e dell’autodeterminazione nella realizzazione della nostra vita: nelle sue diverse espressioni. Le neuroscienze, grazie alle tecnologie sempre più avanzate e oggi dilaganti, si riuniscono, e si confondono, nella loro grande maggioranza proprio nella tesi della riconducibilità dell’umano a fondazioni radicalmente neurobiologiche.
Ora, nel discorso delle neuroscienze non c’è traccia di una riflessione, e tanto meno di una spiegazione, del miracolo attraverso cui l’“oggettivo” diventa “soggettivo”, attraverso cui l’insieme dei “fatti”, accertabili neuro scientificamente, si “trasformi” nei “significati” che esse dovrebbero, in ogni caso, spiegare, chiarire, indicare nel loro fondamento. E, in ordine a questa tematica di ovvia matrice filosofica, vorrei ricordare quello che ha scritto Carlo Sini, filosofo di formazione fenomenologica e radicalmente antimetafisico: «Bisogna guardarsi dall’allevare milioni e milioni di pappagalli conformisti che credono che la scienza sia fatta di proposizioni insensate del tipo: ‘Queste sono le sinapsi che presiedono alla memoria’. Le sinapsi “siedono sopra” la memoria? Ma, cosa vuole dire? Che senso ha quest’immagine barocca?»; e, ancora, in ordine ad uno degli assiomi della scienza neuronale: «Il pensiero non è che l’espressione dell’attività neuronale»; così dice Carlo Sini: «Ecco, questa frase è una pura sciocchezza: questa è una frase che non ha sen- so alcuno, destituita di ogni significato».
Al di là di queste radicali contestazioni di natura filosofica, una psichiatria che si esaurisse, e si dissolvesse, nell’accettazione, non certo delle conoscenze sui modi con cui si svolgono i fenomeni neurobiologici, ma della filosofia riduzionistica che ne sta a fondamento, non sarebbe più psico-iatria e, invece, prosciugata encefalo-iatria.
Nel suo libro, Le emozioni ferite, Lei scrive «I disturbi, con cui ha a che fare la psichiatria, non sono in ultima istanza se non disturbi della comunicazione. Come dice Ludwig Binswanger, quello che noi sperimentiamo, quello di cui facciamo esperienza nell’incontro con un paziente non sono modificazione dell’organismo ma modificazioni in ordine alla comunicazione, al mettersi in relazione e al rimanere in comunicazione, con chi sta male». Ci sono limiti oltre i quali non è purtroppo possibile spingersi nel tentativo di recuperare ciò che è andato perso in una comunicazione infranta?
Ogni esperienza di vita, ogni esperienza di dolore, ogni esperienza di metamorfosi psicotica dell’esistenza, si accompagna ad una compromissione, ad una lacerazione, e talora ad una perdita, delle umane relazioni che ci legano gli uni agli altri; e questo in modi che cambiano nella misura in cui sentimenti di angoscia e di disperazione, di tristezza e di inquietudine dell’anima, di paura e di solitudine, vivano, e si alternino, nella nostra vita emozionale. Sono sentimenti, questi, che possono nascere come espressione della vita quotidiana, con le sue preoccupazioni e con i suoi problemi, o invece come espressione di una sofferenza psichica: di una malattia in senso clinico.
Nel primo caso, questi sentimenti di tristezza e di angoscia, di solitudine e di disperazione, benché non siano malattia, si possono ugualmente accompagnare a disturbi della comunicazione. Facciamo l’esempio della timidezza, una esperienza emozionale così incompresa e così ignorata, e nondimeno così frequente in ogni età ma, in particolare, in quella adolescenziale. In questa la comunicazione con gli altri, con i compagni e le compagne, con le insegnanti e anche con i genitori, si fa fragile e inquieta, frammentaria e intermittente; e basta poco a ferirla ulteriormente, e a farla sedimentare nella in comunicazione assoluta: in quella della morte volontaria. Cose che non accadrebbero se, nell’ambiente familiare e in quello scolastico, ci fossero attenzione e ascolto, gentilezza d’animo e intuizione, silenzio e attesa dell’indicibile. Questa, dunque, una comunicazione infranta che potrebbe essere risanata, e che per negligenza e noncuranza, anche se non per mancanza di a etti e per indifferenza, si fa talora incolmabile e insalvabile.
Nel secondo caso, la comunicazione infranta dalla follia è molto più radicale, e profonda, che non quella prima descritta; e nondimeno la malattia, che ne sta a fondamento, può essere più facilmente modi cabile sia perché, qui, il disagio è evidente sia perché l’aiuto psicologi- co si associa a quello farmacologico. Ma non sempre è così; e la comunicazione si può insabbiare nel silenzio, e nella impossibilità, della comunicazione.
Nella mistica, si fa l’esperienza dell’indicibilità che, come tale, è oltre la razionalità. Tuttavia, soprattutto – anche se non esclusivamente – nella percezione comune, la particolare posizione del mistico viene equiparata alla irrazionalità. È possibile individuare una causa di una tale rimozione che rischia di tradursi in una delegittimazione del mistico?
L’esperienza mistica, quando sia palpitante e viva, quella di Chiara d’Assisi e di Angela da Foligno, di Giovanni della Croce e di Blaise Pascal, di Teresa d’Avila e di Teresa di Lisieux, non ha nulla a che fare con esperienze, ad essa apparentemente sovrapponibili, di natura psicopatologica. Nell’una e nelle altre si possono manifestare segni di una relazione con il mondo della realtà radicalmente diversa da quella nella quale siamo immersi nella vita quotidiana: con il succedersi in essa di esperienze univoche e immodificabili nei loro contenuti fenomenici. Ma, nelle esperienze psicopatologiche, nelle esperienze tout court allucinatorie e deliranti, si è pietrificati in un autre monde dal quale si allontana ogni trascendenza, e nel quale si radica una emblematica e disperata condizione autistica: solipsistica. In questo autre monde, che è il mondo oscuro e lacerato della follia, le idee e le emozioni si intrecciano, e si scompongono, lungo i sentieri di una razionalità frantumata nella quale non ci è possibile immedesimarci, e nemmeno riconoscerci in qualche parte. Nelle esperienze mistiche, invece, che sono (certo) esperienze dell’indicibile, e dell’ineffabile, seguendo le diverse scansioni semantiche che le due parole hanno nell’universo linguistico di Vladimir Jankélèvitch, non viene mai meno la trascendenza, e cioè la relazione con l’Altro-da-sé, che trafigge l’immanenza psicopatologica costitutiva della follia. Fanno parte, così, di ogni esperienza mistica la nostalgia e la presenza di una fondazione dialogica del discorso: di un orizzonte di senso che oltrepassa la solitudine monadica e che è nutrita di una ineliminabile inclinazione alla alterità: alla ricerca senza ne dell’Altro-da-sé che è Dio: rivissuto, e conosciuto, come un Tu. In ciascuna esistenza mistica l’esperienza di Dio è ancorata all’amore e alla libertà, ed è accompagnata dalla coscienza della propria debolezza e della propria fragilità: delle proprie ferite dello spirito. Siamo nel mistero della oltre razionalità, e del silenzio come apertura all’infinito. Nell’universo della tecnologia trionfante, e della fuga da ogni interiorità, e da ogni contemplazione del mistero, non si ascolta l’infinito, lo si rimuove crudelmente, ma senza riuscire a spegnerlo.
A più di trent’anni di distanza dall’approvazione della legge 180, avvenuta nel maggio ’78, che aveva eliminato i luoghi canonici in cui si era ritenuto fino ad allora di poter confinare la malattia mentale, Le sembra che le modalità di approccio alla malattia mentale abbiano conosciuto oggi una effettiva trasformazione?
Negli ospedali psichiatrici italiani, con alcune eccezioni, non si curava la malattia: nemmeno la si studiava, e così nemmeno la si conosceva nella sua fragilità e nella sua indifesa nostalgia di incontro e di solidarietà. La terrificante, e inesorabile, forza del pregiudizio, di questo filo spinato rovente che circonda, e imprigiona, le persone e le situazioni, giudicandole e condannandole una volta per tutte, non attribuiva alle esistenze psicotiche se non una radicale insignificanza di vita e una (pretesa, e del tutto ingiustificata) tendenza alla violenza e alla aggressività: che, semmai, nasceva solo come risposta alla aggressività e alla violenza ideologiche, e pratiche, dei medici e degli infermieri. Come avevo constatato nell’ospedale psichiatrico di Milano, e, ma in forme mitigate, in quello di Novara, si legavano le pazienti e i pazienti: senza alcuna considerazione della loro dignità e della loro libertà: ferita dalla malattia ma oppressa da chi aveva il dovere di assisterli e di curarli. Nemmeno ventisei anni dopo la scoperta degli psicofarmaci, e cioè nel 1978, quando se ne è stata decisa la chiusura, gli ospedali psichiatrici, escludendo quelli di Arezzo, di Novara, di Padova e di Trieste, si erano trasformati in luoghi di cura: restando luoghi di esclusione e di emarginazione, di indifferenza e di contenzione: senza orizzonti di cura. La psichiatria, che ne è conseguita, quella di oggi, ha ancora larghe aree di noncuranza nei confronti della libertà e della dignità, della creatività e della sensibilità, dei pazienti; ma è inconfrontabile, al di là di questo, con quella che era la non-psichiatria di ieri. Certo, come dicevo in una mia precedente risposta, la psichiatria è scienza umana e scienza naturale; ma, oggi, rischia di essere divorata dai paradigmi epistemologici e applicativi delle neuroscienze che tendono radicalmente a considerarla come esclusiva scienza naturale: destituita della fragilità umana che noi le riconosciamo.
Crediti delle immagini pubblicate in questo post:
http://www.news-forumsalutementale.it/un-internato-dellex-ospedale-psichiatrico-di-sassari/
https://cordatesa.noblogs.org/post/tag/manicomi-criminali/
(Il dialogo con Eugenio Borgna è stato pubblicato in YM 3 Forme di espressione ibride)
Salve,
prima di tutto complimenti per questo articolo, illuminante sotto differenti punti di vista. Grazie a voi ho potuto conoscere Eugenio Borgna, e andrò subito alla ricerca dei suoi libri.
Come primo aspetto, mi ha colpito l’importanza che questo medico e studioso della mente umana dà alle parole. La parola ha un immenso potere, lo sapevano già culture millenarie come quella ebraica (il mito della Creazione in sé, per non parlare della famosa formula “magica” Abracadabra derivante da un’ espressione ebraica che significa ‘mentre parlo creo’). Anche nella cultura giapponese la parola ha un immenso potere, nel bene e nel male, potere sull’anima stessa delle persone (Kotodama). Per non parlare dei Mantra indiani… Quindi, possiamo solo immaginare quanto le parole che il medico rivolge al paziente possano salvarlo o al contrario distruggerlo, e quanto quindi la dimensione “umana” sia fondamentale nel campo delle psicopatologie e non solo.
Ho trovato inoltre fantastico il parallelismo con la letteratura, soprattutto all’interno del Romanticismo, che come sappiamo nutriva una particolare attenzione nei confronti dei moti inconsci e degli abissi della mente umana (pensiamo ad esempio a Blake, che a mio parere può davvero offrire spunti di riflessione incredibili da questo punto di vista). Il riferimento a Leopardi mi ha fatto tornare in mente Foscolo e la differenza alla base della loro visione meccanicistica: l’Illusione, che in Foscolo è ancora viva, mentre il Leopardi si infrange contro quello che i testi di letteratura definiscono il “pessimismo cosmico” della sua ultima fase.
Infine, mi ha davvero colpito la differenza tra esperienze psicopatologiche ed esperienze mistiche, perché è una questione che mi sono spesso posta, anche leggendo opere di scrittori totalmente avulsi dal contesto, come La trilogia di Valis di P. Dick. Nel primo libro si affronta proprio il discorso della correlazione tra contatto col divino e malattia, e il quesito di tutta la storia si potrebbe banalmente riassumere con “il protagonista crede di essere in contatto con il Divino perché malato, o si è ammalato proprio perché è entrato in contatto con il divino e la sua natura umana non ha retto?”.
Mi scuso per essermi dilungata troppo, grazie ancora per questo bellissimo articolo. 🙂