gscarafile

Archive for the ‘Direttore’ Category

Gatti che manovrano satelliti

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 9 January 2021 at 9:57 AM

Trasformazioni del lavoro nell’età della pandemia

Giovanni Scarafile

Sparkle è il nome del gatto bianco e marrone di Daniel Lakey, un ingegnere aerospaziale impegnato nella missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. Un giorno, durante una importante call, mentre Daniel era collegato da casa, Sparkle è saltato sulla scrivania reclamando le attenzioni del suo padrone, il cui lavoro consiste nel gestire un satellite in volo a milioni di chilometri dalla Terra. Ne ha parlato Marina Koren sul The Atlantic (One Thing Space Agencies Must Watch Out for Now: Cats), rassicurando sull’esistenza di protocolli di sicurezza in grado di mettere al riparo un oggetto costosissimo come un satellite dalle carenze affettive di un gatto.

La vicenda di Sparkle, la sua imprevista presenza in una riunione di lavoro dell’ESA, è utile per farci capire quanto sia diventata ordinaria nell’età dello smart working l’intersezione dei nostri spazi vitali. Come non ricordare, in proposito, la celebre irruzione dei figli del prof. Robert Kelly, durante un’intervista in diretta alla BBC del marzo 2017?

Una delle conseguenze del protrarsi della pandemia da Covid-19 è stata di rendere pressoché stabile una situazione d’emergenza come il lavoro da casa. Ciò ha contribuito a produrre una silente ma inesorabile trasformazione del paradigma del lavoro cui eravamo abituati. Infatti, se, prima della pandemia, la distinzione tra tempo del lavoro e tempo del riposo era considerato vieppiù normale, con l’avvento dello smart working, tale distinzione si è svuotata di significato. Agevolati dalla virtualizzazione consentita dalle nuove tecnologie, abbiamo provato l’ebbrezza della quasi simultanea presenza in luoghi diversi, un tempo impensabile. E così, è divenuto del tutto consueto prendere parte durante la stessa giornata lavorativa a numerose riunioni telematiche; inviare e ricevere email anche in orari notturni o, all’inizio di una nuova giornata, aspettarsi che il nostro interlocutore abbia già letto un documento inviatogli la sera prima.

In pratica, non soltanto lo spazio di lavoro è divenuto altro rispetto a ciò cui eravamo abituati (con buona pace dei gatti e dei figli del prof. Kelly), ma lo stesso corpo del lavoratore si è, per così dire, smaterializzato. Il diritto ad essere il corpo che siamo (e, dunque, anche il diritto alla stanchezza) ha lasciato spazio ad una costante operatività che, di fatto, ci rende mere funzioni delle applicazioni che siamo chiamati ad utilizzare per lavorare a distanza.

È proprio la pervasività di tali trasformazioni a richiedere l’adozione di una rinnovata etica del lavoro. Va detto che, dal punto di vista normativo, le leggi non mancano. Per esempio, la Loi Travail dell’agosto 2016, in Francia, aveva stabilito per il lavoratore un diritto alla disconnessione. Con esiti analoghi si è mossa anche la legislazione italiana, con la legge sul lavoro agile 81/207 del maggio 2017 o più recentemente con il CCNL relativo al personale del comparto Istruzione e Ricerca 2016/2018, dell’aprile 2018.

L’esperienza di ciascuno di noi, tuttavia, tristemente segnala la difficoltà di tali riferimenti normativi ad essere accolti nelle pratiche quotidiane condivise, soprattutto nei rapporti lavorativi di tipo orizzontale, un ambiente ibrido in cui è pressoché impossibile discernere la dimensione professionale, soggetta alle leggi, da quella relazionale, per certi versi più anarchica. Per fare un esempio personale, è del tutto plausibile che, in un messaggio inviato di Capodanno, una collega, approfittando degli auguri, inserisca anche informazioni lavorative che avrebbero potuto tranquillamente essere condivise dopo la ripresa delle attività accademiche.

Di fronte alle trasformazioni delle dinamiche del lavoro in cui siamo immersi, scrollare le spalle, aspettando che esse svaniscano con l’auspicabile venir meno degli eventi avversi che le hanno generate, è controproducente. Ci sono, anzi, buone possibilità che proprio quelle dinamiche siano destinate a permanere, anche quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente superata.

Per questo, il gatto che, frapponendosi tra noi e la tastiera, reclama la nostra attenzione continua a ricordarci la nostra dimensione relazionale di cui forse dovremmo maggiormente essere gelosi custodi.

Tu non sei speciale

In Direttore, editoriale on 8 January 2018 at 8:12 PM

Giovanni Scarafile

Siamo spesso bombardati da inviti commerciali o da insegnamenti fasulli in cui, implicitamente e talvolta esplicitamente e senza alcuna vergogna, ci viene spiegato che siamo meglio degli altri. Proprio perché siamo migliori, noi non dovremmo esperire la sofferenza come fanno gli altri.

Dispiace dirlo, ma l’idea che siamo migliori degli altri è sbagliata. In molti cercano di sottrarsi alle sofferenze che inevitabilmente la vita propone, per il fatto di essere affascinati da una idea priva di fondamento. Indipendentemente da quanto tu possa credere, dunque, non sei speciale. Sei una persona normale, come tutti gli altri.

È vero, accettare le sofferenze non è per niente facile e tentare di sottrarsi ad esse è del tutto comprensibile. Tuttavia, se vogliamo veramente mantenere il controllo di noi stessi anche di fronte alla sofferenza, dobbiamo accettare che non siamo speciali. Questo ci aiuterà a trovare di fronte alla sofferenza la giusta collocazione.

La felicità deriva dalla capacità di trovare la giusta collocazione di fronte alla sofferenza. Questo non significa smettere di soffrire, ma piuttosto chiedersi “per quale scopo io soffro?”.

Ogni persona ha uno scopo fondamentale, anche se spesso tendiamo a dimenticarlo perché siamo completamente assorbiti dalle distrazioni.

A queste conclusioni non arriva un noioso filosofo, rinchiusosi per dieci anni in una grotta sperduta. Esse, invece, sono il risultato del ragionamento di Mark Manson, autore del libro The Subtle Art of not Giving a F*ck, un caso letterario, da 55 settimane nelle classifiche dei libri più venduti del New York Times.

Secondo Manson, se vogliamo vivere una vita lieta, è importante riscoprire il nostro scopo. Facendo ciò, sarà più facile concentrare le energie sugli obiettivi che deliberatamente ci poniamo. In questo processo, non va trascurato il valore del dubbio. Conviene, per esempio, chiedersi se lo scopo per cui siamo disposti a soffrire vale veramente la pena di essere perseguito. Ecco, una attitudine critica è ciò che può destarci da ogni sonno dogmatico, cioè da ogni cattiva convinzione riguardo le mete delle nostre azioni.

È fondamentale tenere a mente che i valori, ciò per cui agiamo, non si equivalgono. Esistono valori buoni e meno buoni. In termini generali, i valori cattivi sono quelli che non ci permettono di avere il controllo su noi stessi. Si pensi, per esempio, alla fama che dipende interamente da ciò che gli altri pensano. Occorre invece trovare valori che concretamente ci aiutino a raggiungere il nostro scopo.

Una volta, il filosofo Romano Guardini raccontò di aver fatto un sogno in cui gli fu spiegato che ad ogni uomo al momento della nascita viene donata una parola. Quella parola è determinante per la nostra vita perché “tutto ciò che accade mentre gli anni scorrono è la traduzione di questa parola, è il suo chiarimento, è la sua realizzazione” (L’opposizione polare). Quella parola, dunque, è sia un incarico che un dono. E tu, sapresti dire qual è la parola che ti è stata data in dono al momento della tua nascita?

Malgrado tutto. Dialogo sulla festa

In Direttore, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 10 September 2017 at 7:19 PM

Giovanni Scarafile

 

 

 

Riccardo – Quest’anno, finalmente, proprio una bella estate, anzi un’estate fantastica.

Gianni – Sono contento. Dai, racconta

R. – Abbiamo girato un sacco. Ogni sera, un posto diverso. Alla ricerca delle cose migliori.

G. – Fammi un esempio, sono curioso

R. Le feste, non abbiamo voluto farci mancare nulla. Quell’atmosfera, l’aria frizzante, la gente allegra. E poi, le bancarelle. Non hai idea le bancarelle..

G. – Cioè?

R. – Ogni sera ce n’erano a perdita d’occhio. Di tutti i tipi. E tanta gente

G. – Ah, ecco, tanta gente..

R. – Sì, una meraviglia. Non c’era spazio per camminare, pensa

G. – Eh sì, una vera meraviglia..

R. – Ma è bello!, non essere il solito

G. – Il solito che?, scusa

R. – Il solito musone. Una sera avresti dovuto vedere la fila per il crostone di pane con crema ai fegatini! Poi, c’era uno stand con dei cosciotti di maiale con castagne che erano la fine del mondo.

G. – Insomma, avete passato un’intera serata a mangiare, spostandovi come anime in pena di stand in stand?

R. Beh, no.. C’era pure la musica. Bella. Allegra. Musica solare degli anni ’70.

G. Ah, ecco. Così in effetti cambia tutto.

Seduti ai tavolini di un bar di piazza S. Oronzo, a Lecce, in attesa che il cameriere si accorgesse di noi, io e Riccardo ci aggiornavamo sulle ultime novità. Niente avrebbe fatto credere che fosse la metà di settembre. Né il sole, né i turisti che continuavano a passarci davanti a frotte. Tutto simile all’estate appena trascorsa. Sembravamo immersi in un luogo senza tempo. Unica eccezione, l’abbronzatura di Riccardo. Uniforme, assoluta, insuperabile. La giudicai crudele nella sua perfezione. Mentre Riccardo si era alzato per intercettare il cameriere, non riuscii a non pensare a quanto mi aveva appena raccontato. Lo trovai bizzarro. Per quanto trascorrere un’intera serata in luoghi affollati, facendo a gomitate per mangiare qualcosa, non sia il mio ideale, non faccio fatica a riconoscere che in fondo è una questione di gusti. Tuttavia, anche questa considerazione mi lasciava insoddisfatto. Sentivo che qualcosa mi sfuggiva.

“Fatto!”, disse Riccardo, sedendosi. “Ho ordinato due bitter bianchi, così abbiamo pensato pure alla tua gastrite”.

G. – Bravo! Senti un po’, che altro avete fatto?

R. – Tante cose, difficili da ricordare… Anche se, la piscialetta è insuperabile.

G. – Cosa?!

R. – Sì, una sera abbiamo fatto il pieno..

G. – Ma di cosa? Non sto capendo..

R. – Della piscialetta, no?

G. E che sarebbe?

R. Ma dove vivi!! È una specie di focaccina che fanno qui, nel Salento

G. Mai sentita..

R. È perché non ti muovi mai, stai sempre chiuso in casa. La piscialetta è una cosa tradizionale, che abbina cultura e tradizione e soprattutto è buona, buonissima. Poi c’era pure la sagra del polipo e pure lì ci siamo fatti neri

G. Immagino..

Guardavo Riccardo con leggero sgomento. Quell’elenco univoco di situazioni goderecce, cifra di un’estate fantastica, mi facevano venire il dubbio che si trattasse di uno scherzo cui mi stavo prestando involontariamente. Possibile che non vi fosse null’altro da registrare come significativo di una bella estate? A costo di farmi del male, decisi di andare avanti con le domande. Prima o poi, sarebbe venuto fuori un dettaglio di altro genere.

G. – Dai, dimmi qualche altra cosa. Possibile che non abbiate trovato qualcosa di più poetico?

R. Pensandoci un po’ su. –  Beh, sì. La panissa.

G. Non ne ho mai sentito parlare. È un’antica abbazia?

R. Nooo, che vai a pensare?!! È un piatto della cucina piemontese a base di riso, fagioli e salame.

Smisi di ascoltare. Purtroppo, Riccardo non si stava prendendo gioco di me. Era sincero e niente avrebbe potuto scuoterlo dalle sue certezze. Distolsi per un attimo lo sguardo da lui, per guardare sulla mia sinistra l’anfiteatro romano dove un gruppo di ragazzi, forse studenti, cercava di mettersi in posa per una foto di gruppo. Fu così che mi tornò alla mente un libricino di Josef Pieper, dedicato al senso della festa. Tentando di recuperare i dettagli di quella lettura, tornai a guardare Riccardo, che intanto sorseggiava il suo aperitivo. Il cameriere si allontanava dal nostro tavolino, dopo aver posato gli aperitivi, ed io non mi ero accorto di niente. Ora guardavo Riccardo aprire la bocca e parlare –  forse della panissa –  ma io non lo sentivo. Non sentivo più alcun suono. Era il segnale che il mio organismo stava mandandomi che non avrei potuto tollerare oltre una ulteriore sequenza di insulsaggini.

G. – Sai, Ricca’, la cosa strana?

R. – No, qual è?

G. – Se ogni giorno è festa, non c’è più festa.

R. – Cioè? Che vuoi dire?

G. – Voglio dire che la festa ha un senso se è l’eccezione rispetto ad un quotidiano vissuto come ferialità, come tempo del lavoro. In questa prospettiva, la festa è l’altro rispetto al lavoro. Insomma, la festa, per essere autenticamente tale, deve essere alternativa al lavoro, ma in qualche modo lo implica. Non può eliminarlo del tutto. Se ciò avvenisse, verrebbe meno il senso stesso della festa.

R. – Vabbè, ma io ero in ferie.

G. – Sì, d’accordo. Ma non sto parlando proprio di te. Sto facendo un ragionamento in generale.

R. – No, dai, non cominciare a fare discorsi complicati. Godiamoci ‘st’aperitivo in santa pace..

G. – è che mi pare esistere un modo per godersi veramente la festa più vero rispetto ad altri, tutto qua.

R. – Se è così, la cosa mi interessa.

Josef Pieper

G. – Beh, proprio la constatazione – come in fondo tu hai potuto verificare quest’estate – che ogni giorno c’è una festa rischia di farci perdere di vista il senso della festa e questo è un bel problema.

R. – Francamente, non vedo dove sia il problema.

G. – Il senso della festa non si esaurisce nel godimento di ciò che viene festeggiato. Quel senso, se inteso in modo corretto, conduce al di là della festa.

R. – Già, ma se conduce al di là della festa, come dici tu, significa che la festa è finita?

G. – Ma no. Significa che la festa può farci vedere, può farci considerare delle cose che altrimenti non avremmo visto. Per fare questo, però, la festa non può essere qualcosa di totalizzante ed onnicomprensivo.

R. – Scusa, ma che cacchio significa totalizzante e onnicomprensivo?

G. – In parole povere, significa che ci sono degli argomenti che possono essere colti veramente se si apre lo sguardo, se si prova a guardare oltre. È una cosa che scrive Josef Pieper in un libro che dovresti leggere.

R. – No, per carità. Mi vedi a leggere un libro di filosofia?

G. – In effetti, non ti vedo. Ma forse potrebbe essere utile

R. – Io invece credo di no. Insomma, che cosa c’entra la filosofia con la festa? Possibile che i filosofi si debbano mettere in mezzo a tutto? È tanto difficile ammettere che ci sono tanti tipi di feste e che ognuno è libero di scegliersi la festa che vuole tutte le volte che vuole? Che c’è di male?

G. – Quello che tu dici non è sganciato da una concezione più generale, ma anzi la esprime.  L’idea secondo cui esistono diverse scelte dotate di uguale valore è una idea vecchiotta. Proprio mentre pensi di agire, rivendicando con orgoglio la distanza da qualsiasi atteggiamento riflessivo, ci sei invischiato dentro. Con la differenza, che non lo sai.

R. –   Sarà come dici tu, ma io mi trovo benissimo.

G. – Non sei l’unico. È una cosa che riguarda la gran parte delle persone.

R. – E quindi, qual è il problema?

G. – Ricca’, tu sostieni una cosa chiamata “relativismo”.

R. – è grave?

G.  – Il problema del relativismo è che, mentre sostiene che tutte le scelte e tutte le opzioni teoriche hanno uguale valore, deve, per poter esistere ed essere considerato valido, fondarsi sull’idea che almeno una di queste opzioni, la sua, sia più valida delle altre. Se ciò non fosse, dal punto di vista logico, l’intero castello crollerebbe.

R. – Non ci ho capito nulla..

G. – Non è complicato: per poter sostenere che tutte le cose hanno uguale valore, il relativismo ha bisogno che almeno una di queste cose non sia equivalente alle altre, non abbia cioè lo stesso valore delle altre..

R. – .. si trovi su un gradino più alto, diciamo.

G. – Esatto, bravo! Questa cosa che deve trovarsi su un gradino più alto, cioè che deve valere più delle altre è il relativismo stesso. Mentre afferma che tutto ha uguale valore, il relativismo nega che tutto ha uguale valore. Capito ora?

R. – Mi sembra di sì. Ma da questo cosa deriva?

G. – Deriva una cosa semplice: che puoi continuare quanto vuoi a credere che ciò che pensi sia vero, solo che stai credendo ad una cosa senza fondamento.

R. – Cazzarola.. A questo non avevo mai pensato.. Ma come siamo arrivati qua? A proposito di che cosa?

G. – Siamo arrivati qua perché ci stavamo chiedendo se tutte le feste si equivalgano ed io ti stavo parlando di un libretto che ho letto qualche tempo fa.

R. – Beh, e che dice questo libretto?

G. – Pieper, l’autore del libretto, spiega che la festa è un modo per raggiungere l’autenticità.

R. – Ah, sì, la vita autentica, come il libro di quel teologo, come si chiama..

G. – Mancuso

R. – Ecco sì, Mancuso. Me l’hanno regalato, ma non l’ho letto.

G. – Mancuso dice che anche la condizione sociale, le stesse relazioni possono diventare luoghi dell’inautenticità quando sono la casa della menzogna. Vivere nella menzogna può essere qualche volta comodo, poi però arriva un momento nella vita in cui ti guardi indietro e, nonostante tutti gli eventuali successi che puoi aver raggiunto, ti accorgi che non rimane niente di vero. Quando sei arrivato al punto in cui la menzogna è tutta la tua vita, allora..

R. – Allora, è proprio un casino.. Ho fatto bene a non leggere ’sto libro, che tristezza, Madonna santa!

G. – Non è che il libro sia triste è che fa un’analisi di alcune situazioni..

R. – No, no, parlami di questo libretto che hai letto tu che parla della festa.

G. – Ah, sì, ecco, secondo Pieper nella vita si può vedere più o meno bene, più o meno profondamente nelle cose. Vedere di più o vedere di meno non sono la stessa cosa, no?

R. – Beh, sì, c’è una bella differenza.

G. – Questa capacità di vedere meglio le cose, non è soltanto una capacità dell’intelletto. C’è dentro anche una disponibilità a cercare un accordo, chiamalo sentimento, con quello che vedi. É un concetto di cui aveva scritto anche Teilhard de Chardin “essere di più è unirsi di più … la unità cresce solo se è sorretta da un accrescimento di coscienza”. Insomma, nelle cose che ci stanno di fronte è possibile cogliere un valore aggiunto.

R. – Quindi, se ho capito, parlare di valore aggiunto è come dire che non tutte le vie si equivalgono e che c’è una via più umana rispetto alle altre?

G. – Sì, è così, bravo! A questo aggiungi, che, secondo Pieper, questa via è raggiungibile partendo dalla festa.

R. – Non ho capito però dove si arriva seguendo questa via.

G. – Se ci si allena a distogliere lo sguardo dalle cose mutevoli per cercare ciò che resiste ad ogni mutamento, ciò che i filosofi chiamano l’essenza delle cose, allora si è acquisita una disponibilità alla contemplazione.

R. – Contemplazione?!! Ma allora è una cosa da preti!

G. – Senti, mi sono scocciato. Basta, non parliamone più. Qualsiasi cosa ti dica, mi sembra che ti rimbalzi sopra.

R. – Eeeehh, come siamo suscettibili! No, veramente, mi interessa. Qual è il senso del discorso di Pieper?

G. – Secondo questo filosofo, è possibile festeggiare in senso autentico non partendo dal motivo di una festa. Il motivo è sì importante, ma non è la cosa più importante.

R. – E qual è la cosa più importante?

G. – La cosa più importante è raggiungere, tramite ciò che prima chiamavamo contemplazione, un consenso con il mondo. Lui dice un “consenso universale, che si estende al mondo intero, alla realtà delle cose e alla stessa esistenza umana”.

R. – Senti Gia’, non è per prenderti in giro, ma a parte il fatto che ho parecchi dubbi su questa cosa della contemplazione, non vedo come si possa concordare con questa teoria. Insomma, ammesso e non concesso che si riesca attraverso la contemplazione a vedere il senso di tutte le cose, tu veramente credi che si possa essere d’accordo con il senso, cioè che si possa gioire con il senso delle cose?

G. – Spiegati meglio, per favore.

R. – Ma, dico, siamo matti?! A me sembra che la realtà sia in generale negativa. Come si può pensare, ragionando seriamente, di potersi accordare con la realtà? Di gioire con la realtà nella realtà? C’è forse bisogno di fare un elenco delle cose che non vanno in questo mondo?

G. – In effetti, di questo parla Pieper quando dice “celebrare una festa significa: celebrare per un motivo speciale e in modo inusuale l’approvazione del mondo già data da sempre”.

R. – Senti, questa teoria non è credibile, razionalmente parlando.

G. – Effettivamente, c’è un elemento di fiducia, di affidamento verso la bontà del senso del mondo. Per vedere, per sentire questa fiducia, bisogna allenare lo sguardo e questo lo si può fare solo se si recupera il senso autentico della festa.

R. –  Io penso invece che siccome il mondo non va, in senso generale, si deve ogni tanto allontanarsi da questo mondo, prendersi una pausa. È questo il senso vero della festa.

G. – Io penso che ci sia da fare i conti con una sensibilità sismografica.

R. – E che sarebbe?

G. – Mah, è un po’ quello che ti dicevo agli inizi. Ci sono delle cose che possono essere viste integralmente se si guarda più lontano rispetto alle cose stesse. La festa è una di queste cose. Se non si acquisisce uno sguardo diverso sulla realtà, è difficile raccapezzarsi. Solo così la festa è festa, malgrado tutto.

R. – Sì, vabbè, lo sguardo diverso, la sensibilità sismografica. Mah… Forse hai ragione tu, non so. A me sembrano solo teorie, complicazioni inutili. E poi, diciamocela tutta, vuoi mettere ’sto Pieper con la sagra della municeddha?!

 

[Questo testo è l’editoriale del numero di YM Della Festa]

Support independent publishing: Buy this book on Lulu.
 

 

 

La signora che tradì il marito perché non caricava la lavatrice

In Direttore, editoriale on 26 August 2017 at 5:51 PM

 

Edward Hopper, Compartment C Voiture 193

Come reagireste di fronte ad una signora che, conosciuta in un viaggio in treno da non più di dieci minuti, candidamente confessi di aver tradito il marito perché «non caricava mai una lavatrice»? Me lo sono chiesto, mentre la signora, sulla quarantina, lunghi capelli biondi, elegante in un tailleur blu, mi guardava in attesa di una reazione.

  • «Sei una pazza furiosa e le tue cose sentimentali non mi interessano. Ora, fammi leggere in santa pace, ammesso che tu capisca il senso della parola ‘leggere’», avrei voluto dirle.
  • «Scusi, e che cosa le rispondeva suo marito, quando gli faceva notare di detestare il suo disimpegno domestico?», le ho invece chiesto.

E lei, a quel punto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha risposto: «Beh, non gliel’ho mica detto, ovvio no?».

Poi, per mia fortuna, la conversazione è scivolata su altri argomenti.

Per giorni mi sono comportato nei confronti di questo episodio con lo stesso atteggiamento di chi cerchi di ritrovare le chiavi di casa smarrite. Ci pensavo in continuazione, ripercorrendo mentalmente ogni singolo frammento di discorso, ogni movimento del corpo, ogni pausa. Niente, non trovavo niente. Eppure, ero convinto che qualcosa di rilevante ci fosse nel dialogo con la signora in blu. Poi, una mattina, appena sveglio, ho visto meglio. Non era la scelta della signora, né il fatto che avesse deciso di farne menzione ad un estraneo, ad interessarmi. Ciò che mi aveva colpito era il modo in cui la donna aveva inteso sancire la presunta normalità della sua scelta, ancorandola alla domanda «ovvio, no?». Compiere una scelta, fondandola su un singolo aspetto del problema, non dovrebbe essere una cosa ovvia. Eppure, un tale modo di procedere, non è infrequente anche in ambito lavorativo: ammettiamolo, quante volte ci capita di giudicare una intera situazione, partendo da una singola vicenda? Decidere in base ad una valutazione parziale ha profonde implicazioni sul versante della comunicazione. Spesso, infatti, comunichiamo male non perché usiamo strumenti inefficaci, ma perché la valutazione della realtà – su cui la comunicazione si fonda – era insufficiente.

Nel 1999, Christopher Chabris e Daniel Simons, due studiosi dell’Università di Harvard, realizzarono un esperimento chiamato The Invisible Gorilla. Ai partecipanti veniva mostrato un filmato in cui due gruppi di ragazzi, vestiti rispettivamente con una maglietta bianca e una maglietta nera, simulano una partita di basket. I partecipanti all’esperimento vengono informati che lo scopo è di contare il numero di passaggi dei ragazzi con la maglietta bianca. Quando il filmato finisce circa la metà dei partecipanti non ha notato che, ad un certo punto del video, una persona travestita da gorilla ha attraversato il campo di gioco da destra verso sinistra, fermandosi in mezzo ai giocatori, battendosi il petto, per poi allontanarsi indisturbato. Quell’esperimento dimostra che la nostra percezione è fuorviata ogniqualvolta ci concentriamo solo su un particolare, tralasciando di considerare l’intero. L’esperimento del gorilla (noto come “Test di attenzione selettiva”, visibile su Youtube) ha confermato che la possibilità stessa di percepire qualcosa si fonda non tanto su una presunta capacità di identificare l’elemento che vogliamo mettere a fuoco, ma sul rapporto che si istituisce tra l’oggetto da vedere e lo sfondo in cui esso si colloca. Per farla semplice: la nostra percezione funziona correttamente quando è relazionale, quando cioè è in grado di riconoscere le relazioni. Di conseguenza, per essere effettiva, anche la comunicazione deve tener conto dello stesso processo. Possiamo comunicare compiutamente quando siamo in grado di vedere bene ogni singolo elemento insieme all’intero in cui esso si colloca.

Ecco perché una decisione (tradire o meno il marito), non andrebbe assunta ancorandosi esclusivamente ad un singolo elemento (la scelta di caricare la lavatrice), isolato rispetto al contesto.

L’indicazione che scaturisce da quanto precede è che per comunicare bene, bisogna vedere bene.

Spesso, molte comunicazioni falliscono prima ancora di nascere per un difetto di percezione, perché non abbiamo tenuto conto dello spazio. Non andrebbe mai dimenticato che le persone, ogni persona, già dalla stessa etimologia del termine, si pone sempre al di là di ogni nostra possibile determinazione. La persona è il tutto, mentre ciò che possiamo dirne è solo una parte. Siamo invece soliti inchiodare gli altri alle nostre visioni parziali e, inesorabilmente, quando ciò succede, la comunicazione è condannata al fallimento.

A questo punto, la domanda iniziale torna ad essere attuale e non smette di pungolarci: quante volte ci è capitato di valutare l’intero, partendo da una parte?

Ecco che, ora che ci penso, forse c’è poco da meravigliarsi della scelta della signora in blu, perché mutatis mutandis ciò che lei rappresenta è dentro ognuno di noi.

(Il presente testo è stato scritto per SIC DIXIT, Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter).

Comunicare in tempo

In Direttore, editoriale on 16 July 2017 at 11:03 AM

Giovanni Scarafile

 “Ricalcolo. Ricalcolo”, ripete ossessivamente la voce del navigatore, prendendo atto che le indicazioni suggerite non sono state ascoltate. Nessuno sta guidando, però. Nello spot televisivo di un noto fuoristrada, in onda in queste settimane, vediamo un uomo che si separa dalla folla in cui era immerso fino ad un momento prima; un altro uomo che, dopo essere stato licenziato, abbandona felicemente l’ufficio; una donna che accetta una non preventivata proposta di matrimonio.

“Ricalcolo” è un modo per focalizzare l’attenzione sulle nostre aspettative e sul loro superamento dal quale possono scaturire conseguenze impreviste. Le nostre aspettative costituiscono una vera e propria trama mediante cui organizziamo il nostro lavoro: ognuno di noi ha aspettative nei confronti dei colleghi e viceversa. Generalmente, tali attese sono utili per orientarsi nel corso delle attività lavorative.

Al tempo stesso è anche vero che il fare eccessivo affidamento sulle aspettative rischia talvolta di metterci nella stessa situazione di chi cerchi di partire con il freno a mano alzato.

Spesso i problemi di comunicazione che avvertiamo in ambito lavorativo riguardano proprio le aspettative. Essi sono di tue tipi e hanno a che vedere con il tempo.

Può succedere, per esempio, che noi viviamo in anticipo rispetto agli eventi. Vivere in anticipo comporta il non tener sufficientemente conto dei ritmi dei nostri interlocutori. La nostra immaginazione è allora paragonabile ad una nuvola che giunge ad oscurare la spontaneità degli altri, dal momento che noi abbiamo già previsto tutto. In questo caso, l’altro, cioè il nostro interlocutore, anche se è di fronte a noi, è come se non fosse visto.

Da un altro punto di vista, può succedere che la comunicazione sia difficile perché noi siamo in ritardo. Essere in ritardo è un modo per alludere all’assenza della dovuta attenzione nei confronti degli altri.

Quando gli altri comunicano con noi, lasciando intravedere quanto hanno di prezioso, noi stiamo già pensando ad altro. Siamo altrove, quando l’altro c’è.

In un caso e nell’altro, sia quando siamo in anticipo che quando siamo in ritardo, noi viviamo fuori sincrono. La nostra comunicazione non può che risentire di tale assenza di sincronia.

Comunicare, invece, è sempre da persona a persona.

L’antico termine etrusco per dire persona è phersu, ed esso indica la maschera da cui, nel teatro antico, proveniva la voce dell’attore. Il significato profondo dischiuso da questa immagine è che gli strumenti di cui ci serviamo per comunicare provengono da una zona che non è visibile, cioè non è a nostra completa disposizione. Derivano da tutto questo due conseguenze, la prima riferibile alla comunicazione e la seconda riferibile all’essere persone.

Comunicare, infatti, non è un processo attivabile sempre e comunque. Esso dipende dalla nostra capacità di essere sincronizzati con coloro che sono implicati nel processo comunicativo. Al tempo stesso, siamo veramente persone quando ci rendiamo conto che gli altri non coincidono con l’immagine che noi cogliamo di loro. L’altro autentico è sempre oltre la maschera che possiamo attribuirgli.

Ecco, perché comunicare autenticamente è andare oltre ogni aspettativa, senza essere né in anticipo né in ritardo. È quella disposizione ad andare oltre ogni piano predefinito, per cercare veramente noi stessi.

Ricalcolo, appunto.

[Il presente testo è stato pubblicato in Etica Mente, rubrica della Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter – Luglio 2017]

Ricostruire l’intero. Dialogo con Eugenio Borgna

In Direttore, Filosofia, YM RELOADED on 3 March 2017 at 7:46 PM

Giovanni Scarafile

eugenio-borgna_disegno-roberta-pizzi

Eugenio Borgna (Roberta Pizzi)

Peter Schlemihl, il protagonista del racconto Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814) di Adalbert von Chamisso, si trova di fronte alla scelta di realizzare un conveniente baratto con un signore vestito di grigio, che in seguito si rivelerà essere il demonio: in cambio della rinuncia alla propria ombra, avrà la possibilità di attingere denaro senza limite alcuno da una borsa magica. Quale importanza può mai avere l’ombra nella vita di un uomo?, è la domanda che Peter deve essersi posto. In realtà, l’ombra rappresenta qualcosa che, pur essendo parte di noi, non è tuttavia a nostra disposizione. Rinunciare all’ombra significa ritenere che si possa continuare a vivere, addirittura che si possa vivere meglio, proprio nel momento in cui si rinunci a quella specifica interezza che noi costitutivamente siamo.

La vicenda di Schlemihl racconta allora di una rimozione inconsapevole che, al di là del racconto, rinvia ad un atteggiamento forse più diffuso di quanto si possa immaginare. Ritenersi liberi dalla proprie zone oscure, sentirsi consistere, se così si può dire, di sola luce è, per l’appunto, l’effetto di una rimozione non troppo infrequente e non soltanto riferibile ad un racconto vecchio di due secoli.

561px-chamisso_peter_schlemihl_erstausgabe_1814

Le situazioni umane rivelano, ad uno sguardo avvertito, differenti consistenze e densità che, per essere vissute o anche solo percepite, richiedono il concorso di una umanità integralmente costituita.

Conoscere e vivere propriamente tali differenze richiederebbe infatti per ciascuno di noi una conformazione specifica, lo sforzo costante di adeguazione del conoscente al conosciuto, il lasciarsi suggerire dalle cose stesse la modalità consona per sintonizzarsi su di esse. Il motivo per cui, anche al di là delle differenze tra i singoli approcci, i filosofi di ogni tempo suggeriscono la difficoltà di instaurare tale salvifica modalità d’esistenza sta, prima di tutto, nel fatto che lo sguardo avvertito è scomodo. Molto più semplice è essere e rimanere ancorati ai propri interessi immediati, alle proprie comodità, al soddisfacimento dei propri bisogni primari, in una sorta di appiattimento al fisiologico. Molto più semplice è non pensare. Iniziare ad immaginare moltiplicazioni del possibile, vivere sotto il costante pungolo di domande sul senso delle cose richiede infatti un esercizio cui si può rinunciare facilmente. Come invisibili, si passa così sopra le vicende umane, incuranti di quella densità che richiederebbe ben altra attitudine ed anzi resistendo fieramente agli inviti, in verità sempre meno frequenti, a schiodarsi da ogni deresponsabilizzante ancoramento al superfluo.

La vicenda di Schlemihl simbolicamente allude al rischio di un approccio per così dire diminuito alla vita. Al tempo stesso, però, proprio nel momento della denuncia di un rischio, essa rivela anche una possibile inedita apertura. Come accade al protagonista dal racconto, infatti, si può prendere coscienza di quella rimozione fondamentale, aprendo gli occhi sui propri errori e così riscoprendo il gusto di una più alta destinazione in grado di restituire un piano di visione altrimenti inaccessibile. Andando controcorrente e sotto le lenti di uno sguardo avvertito e critico, l’esistente rivela aspetti inediti. Malattia e deprivazioni possono diventare, per fare un solo esempio, non una condanna senza appello, ma occasione per rivelare dimensioni del tutto inedite dell’umano.

Di tutto questo e di molto altro, YOD ha discusso con Eugenio Borgna, padre nobile della psichiatria italiana. Eugenio Borgna, nasce nel 1930 a Borgomanero, si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Torino, conseguendo successivamente la specializzazione in Malattie nervose e mentali. Libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali nell’Università di Milano e direttore dell’Ospedale psichiatrico di Novara, diventa primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. Contemporaneamente alla sua attività medica, Borgna è venuto affermandosi come uno dei più originali scrittori e saggisti ed i suoi libri, oltre ad aver vinto numerosi riconoscimenti, hanno conosciuto numerosissime edizioni, mettendo d’accordo la critica. A proposito de Le intermittenze del cuore (Feltrinelli, 2003) scriveva Luciana Sica su Repubblica del 15 Ottobre 2003: «Il libro è l’esatto contrario di un viaggio in un vagone piombato, com’è in genere la lettura di un saggio scritto da uno psichiatra. Scorrendo le pagine di Borgna, si spazia ariosamente nell’universo della grande letteratura e molto meno in quello delle conoscenze mediche, nel catalogo delle emozioni piuttosto che in un grigio elenco di sintomi». Un giudizio cui faceva eco quanto osservato da Luca Doninelli su Il Giornale del 21 Gennaio 2004: «Un libro splendido … Attraverso un’analisi mirabile, l’Autore si interroga sulla deriva farmacologica della psichiatria e difende lo spazio dell’anima che è vita in tutti i suoi aspetti, di dolore, di sofferenza e anche di intuizione e di bellezza».

Incontrare Borgna, un uomo elegante di cui colpisce la mitezza dello sguardo e la straordinaria capacità d’analisi, significa allora senz’altro affrontare argomenti specifici, ma anche porsi in ascolto di un testimone della possibilità che l’esistenza possa essere inverata secondo coefficienti non comuni, rendendo in tal modo possibile quella coincidenza, teorizzata da Weber, tra professione e vocazione.

Incontrare Borgna è dunque occasione per ricostruire quell’intero infranto che, molto spesso inconsapevolmente, alberga in ciascuno di noi.

Prof. Borgna, agli inizi della sua carriera, Lei è stato Assistente ordinario presso la Clinica Neurologica dell’Università di Milano. Che cosa l’ha spinta ad abbandonare in un certo senso quella strada e ad orientarsi verso la psichiatria fenomenologica? Chi sono le persone o gli autori che hanno più influito sulla sua scelta?

Nell’ordinamento delle Facoltà di Medicina e Chirurgia italiane, e questo fino al 1977, la psichiatria veniva insegnata, quando lo avveniva, nel contesto delle Cliniche delle malattie nervose e mentali nelle quali si dava esclusiva importanza alla neurologia. La psichiatria, considerata come una disciplina non scientifica, veniva delegata nella sua pratica agli ospedali psichiatrici; riservandosi i direttori delle Cliniche universitarie la sola illustrazione teorica delle diverse forme di malattia psichica: considerate, del resto, come espressione di destini perduti al senso, e talora alla dignità, della vita. Ma, nella Clinica di Milano, lavorava come aiuto il prof. Carlo Lorenzo Cazzullo che, di ritorno dagli Stati Uniti dove si era trattenuto alcuni mesi per studiare le malattie infiammatorie cerebrali e le malattie psicosomatiche, non si occupava solo di neurologia ma anche di psichiatria. Così, progettando una ricerca sulla efficacia terapeutica dei farmaci antipsicotici, degli psicofarmaci, scoperti nel 1952 in Francia, e non essendoci in Clinica pazienti con disturbi psichici, ha voluto che frequentassi uno dei grandi ospedali psichiatrici milanesi, quello di Affori, nell’orizzonte di una ricerca non solo strettamente farmacologica ma anche psicopatologica: incentrata, cioè, sugli aspetti interiori delle modificazioni sintomatologiche indotte dai farmaci. Le terribili condizioni di vita dei pazienti di quell’ospedale, la inaudita leggerezza con cui medici e infermieri si confrontavano con la loro sofferenza e la loro fragilità, mi avevano consentito di intravedere la grandezza e la miseria pascaliane dei pazienti e delle pazienti; e dalla ricerca è scaturito il primo lavoro italiano sul tema di una psichiatria umana: recuperata nelle sue dimensioni profonde e nobili. L’esperienza, che mi era stata così consentita, mi aveva indotto a studiare i grandi testi della psichiatria, quelli tedeschi in particolare, nei quali confluivano le correnti più vive e stimolanti della filosofia moderna.

Nei suoi libri, da L’esistenza ferita a L’arcipelago delle emozioni, da Le intermittenze del cuore a L’attesa e la speranza, Lei è riuscito ad individuare una rara e preziosa modalità di scrittura in grado di tenere insieme dimensione scientifica, che in quanto tale mira alla individuazione delle componenti universali, e le singole situazioni esistenziali dei pazienti. Lei è cioè riuscito ad inverare l’ibridazione tra le forme espressive. Da cosa nasce questa doppia modalità della sua scrittura? Ritiene che il linguaggio dello specialismo rischi, almeno qualche volta, di essere un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci stanno dinnanzi?

Ogni psichiatria ha necessarie premesse filosofiche che ne condizionano il suo modo di essere, e il suo modo di essere-in-relazione con i pazienti. Anche la psichiatria somato-logica, la psichiatria che si considera estranea ad ogni influenza filosofica, non è pensabile se non nella sua stretta dipendenza dalle concezioni positivistiche che assimilano i processi psichici ai processi neurobiologici: come avviene, oggi, nel contesto delle neuroscienze: almeno in quelle che postulano un riduzionismo inesorabile e immanentistico fra fenomeni mentali, e fenomeni neurobiologici. La psichiatria fenomenologica, certo, si è venuta delineando e configurando nel solco, e sulla scia, della fenomenologia husserliana e jaspersiana, heideggeriana e scheleriana, nelle sue diverse articolazioni tematiche. Le categorie fenomenologiche fondamentali, che il pensiero filosofico moderno ha fatto riemergere con drastica evidenza, quelle del tempo e dello spazio vissuti, del corpo vivente e della relazione vissuta con il mondo delle persone e delle cose, si sono costituite come strutture portanti della conoscenza dei fenomeni psichici, e corporei, non solo normali ma patologici. E le categorie fenomenologiche fondamentali, applicate alla esistenza di ogni singola esperienza di malattia psichica, ci hanno consentito di intravedere, e di cogliere, le linee sfavillanti del senso anche in forme di vita psicotica apparentemente destituite di senso. Ma quello, che ogni singola situazione psicotica, ogni singola situazione esistenziale ferita dalla malattia, rivela in sé, conferma la straordinaria importanza della fenomenologia nell’illuminare i sentieri misteriosi della follia, e questo può essere utile alla filosofia (forse) nel chiarire alcuni aspetti del suo discorso sul tempo e sullo spazio, sul corpo vivente e sulla relazione “io-mondo”. Solo un linguaggio, che metta-fra-parentesi le articolazioni tecniche di ogni psichiatria freddamente clinica, consente di applicare le categorie fenomenologiche di matrice filosofica alla concretezza di ogni situazione psicopatologica. Sì, come lei giustamente dice, il linguaggio dello specialismo rischia, ogni volta, di essere un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci stanno dinanzi.

In un’intervista, Lei ha sostenuto che «le cose che Goethe ha scritto di Ottilia nelle Affinità elettive rappresentano un’anticipazione straordinaria, quasi profetica di quella sindrome clinica, oggi quanto mai problematica, che è l’anoressia». Leggendo queste sue parole, mi è tornato in mente quanto Milan Kundera scrive ne L’Arte del romanzo, laddove osserva che «il romanzo conosce l’inconscio prima di Freud, la lotta di classe prima di Marx, pratica la fenomenologia (la ricerca dell’essenza delle azioni situazioni umane) prima dei fenomenologi. Che stupende ‘descrizioni fenomenologiche’ nell’opera di Proust, che non ha conosciuto nessun fenomenologo!». Quale contributo è possibile attribuire ad altri approcci disciplinari nell’ambito di una ermeneutica della malattia mentale?

Le citazioni, che lei fa del saggio di Milan Kundera sul romanzo, sono affascinanti, e contengono una scheggia palpitante e viva di verità storica e psicologica. Prima di soffermarmi su di esse, vorrei ricordare che Kundera ha scritto pagine di grande intuizione (anche) fenomenologica su esperienze come quelle della memoria, e dell’oblio, e delle identità così complesse, e così articolate, nelle loro diverse dimensioni tematiche e nella loro genesi. Ma, a parte questo, direi che non si può non concordare con la tesi suggestiva, che egli enuncia con drastica chiarezza, e nondimeno con qualche necessaria precisazione. Certo, il romanzo conosce l’inconscio prima di Freud, e la lotta di classe prima di Marx; ma conosce queste dinamiche psico-analitiche e sociologiche nella loro fisionomia germinale: con intuizioni rapsodiche che sarebbero presto cadute nella dimenticanza se non fossero state condivise, e sviluppate, con una sconfinata massa di osservazioni e di riflessioni, di concreti progetti applicativi e di analisi storiche, che hanno fatto la grandezza radicalmente originale e creativa di Sigmund Freud e di Karl Marx. Le cose mi sembrano molto diverse quando riflettiamo su quello che Kundera dice della fenomenologia, definita fra l’altro così rigorosamente e scientificamente come la ricerca dell’essenza delle situazioni umane, e delle splendide descrizioni fenomenologiche, che fanno parte indelebile dell’opera di Marcel Proust: ma, anche, benché in misura diversa, di alcune grandi opere goethiane, come le Affinità elettive e I dolori del giovane Werther, e thomasmanniane, come i Buddenbrook e La montagna incantata. Le analisi fenomenologiche, che hanno luogo in questi romanzi insondabili nella loro grandezza, consentono di guardare negli abissi dell’anima umana, normale e malata, con una profondità irraggiungibile dalla psichiatria; e hanno offerto alla psichiatria strumenti ermeneutici in ordine alla comprensione della follia di straordinaria importanza. In questa area di discorso come non ricordare le mirabili pagine, arcanamente fenomenologiche, di Giacomo Leopardi sulla speranza e sulla malinconia, sulla morte volontaria, sulla nostalgia e sulla gioia? Non si può fare psichiatria fenomenologica senza fare riferimento a queste inenarrabili intuizioni letterarie.

opg

Ne Il volto senza fine, Lei scrive “Solo ascoltando chi sta male, solo cercando di articolare un colloquio che non sia aridamente clinico ma che consenta alle due soggettività in gioco (quella di chi cura e quella di chi è curato) di confrontarsi in un contesto di apertura reciproca e di libertà, ci si avvicina alle regioni interiori della sofferenza”. In questo modo, mi pare Lei presupponga un approccio per così dire “patico” al senso della sofferenza. Ci sono delle avvertenze di cui occorre tenere conto quando si adotti tale approccio? Quali sono specificità, obiettivi ed eventualmente limiti di un colloquio terapeutico?

Non c’è colloquio clinico, non c’è conoscenza di quello che si svolge nella vita interiore, nella immaginazione e nella sensibilità, dell’altro-da-noi, sia malato sia sano, se non c’è relazione, e cioè reciproca partecipazione emozionale, fra chi cura e chi è curato. Questa enunciazione, astrattamente così semplice e univoca, è in realtà complessa e problematica nella sua realizzazione pratica: nella sua realizzazione terapeutica. Non basta che una paziente, un paziente, si senta compresa, e non giudicata, da chi la cura; perché, al di là di questo, è condizione essenziale di ogni relazione dotata di senso che essa si svolga in un contesto di fiducia; e la fiducia non è programmabile, e non è fabbricabile, su ordinazione: nasce quando vuole, e si spegne talora imprevedibilmente: enigmatica, e talora inesprimibile, come ogni autentica e fragile dimensione emozionale della esistenza.

Questo discorso sottintende, ovviamente, la tesi, ma non ci sono certezze in psichiatria, che, come lei dice splendidamente, non ci possa essere cura se non nel contesto di un avvicinamento patico al senso della sofferenza: così difficile e così segreto, così fluttuante e così oscuro, e nondimeno reale e radicale. Questa tesi, che è la tesi della psichiatria fenomenologica, non può non essere consapevole degli scogli talora insormontabili che non consentono ad una relazione terapeutica di svolgersi adeguatamente. Non basta, cioè, la presenza di una partecipazione emozionale, di una immedesimazione immaginativa, di una qualche fragile fiducia reciprocamente fondata, perché chi cura abbia ad essere di aiuto concreto e decisivo al destino di sofferenza di chi chieda aiuto. Il rischio è che la Einfühlung (la immedesimazione) si trasformi schelerianamente in Eins-fühlung (la identificazione); facendo perdere libertà e autonomia sia a chi cura sia a chi è curato: con conseguenze anche eticamente insostenibili.

Oggi le sempre più raffinate tecnologie di indagine diagnostica ci consegnano nuovi e più definiti riscontri sulla natura umana. Partendo da tali successi sperimentali, viene affermandosi la tesi della visibilità assoluta dell’umano e della sua riconducibilità ai sottostanti fattori neuro- biologici. Secondo Lei, la persistenza di un tale approccio riduzionistico, è in grado di insegnare qualcosa o va rigettato tout court?

La sua domanda, anche questa di radicale importanza, coglie il nocciolo emblematico e decisivo delle riflessioni sulle neuroscienze, e sulla loro significazione in ordine alla spiegazione dei fenomeni psichici normali, o patologici, e di esperienze umane come quelle della libertà e dell’autodeterminazione nella realizzazione della nostra vita: nelle sue diverse espressioni. Le neuroscienze, grazie alle tecnologie sempre più avanzate e oggi dilaganti, si riuniscono, e si confondono, nella loro grande maggioranza proprio nella tesi della riconducibilità dell’umano a fondazioni radicalmente neurobiologiche.

Ora, nel discorso delle neuroscienze non c’è traccia di una riflessione, e tanto meno di una spiegazione, del miracolo attraverso cui l’“oggettivo” diventa “soggettivo”, attraverso cui l’insieme dei “fatti”, accertabili neuro scientificamente, si “trasformi” nei “significati” che esse dovrebbero, in ogni caso, spiegare, chiarire, indicare nel loro fondamento. E, in ordine a questa tematica di ovvia matrice filosofica, vorrei ricordare quello che ha scritto Carlo Sini, filosofo di formazione fenomenologica e radicalmente antimetafisico: «Bisogna guardarsi dall’allevare milioni e milioni di pappagalli conformisti che credono che la scienza sia fatta di proposizioni insensate del tipo: ‘Queste sono le sinapsi che presiedono alla memoria’. Le sinapsi “siedono sopra” la memoria? Ma, cosa vuole dire? Che senso ha quest’immagine barocca?»; e, ancora, in ordine ad uno degli assiomi della scienza neuronale: «Il pensiero non è che l’espressione dell’attività neuronale»; così dice Carlo Sini: «Ecco, questa frase è una pura sciocchezza: questa è una frase che non ha sen- so alcuno, destituita di ogni significato».

Al di là di queste radicali contestazioni di natura filosofica, una psichiatria che si esaurisse, e si dissolvesse, nell’accettazione, non certo delle conoscenze sui modi con cui si svolgono i fenomeni neurobiologici, ma della filosofia riduzionistica che ne sta a fondamento, non sarebbe più psico-iatria e, invece, prosciugata encefalo-iatria.

Nel suo libro, Le emozioni ferite, Lei scrive «I disturbi, con cui ha a che fare la psichiatria, non sono in ultima istanza se non disturbi della comunicazione. Come dice Ludwig Binswanger, quello che noi sperimentiamo, quello di cui facciamo esperienza nell’incontro con un paziente non sono modificazione dell’organismo ma modificazioni in ordine alla comunicazione, al mettersi in relazione e al rimanere in comunicazione, con chi sta male». Ci sono limiti oltre i quali non è purtroppo possibile spingersi nel tentativo di recuperare ciò che è andato perso in una comunicazione infranta?

Ogni esperienza di vita, ogni esperienza di dolore, ogni esperienza di metamorfosi psicotica dell’esistenza, si accompagna ad una compromissione, ad una lacerazione, e talora ad una perdita, delle umane relazioni che ci legano gli uni agli altri; e questo in modi che cambiano nella misura in cui sentimenti di angoscia e di disperazione, di tristezza e di inquietudine dell’anima, di paura e di solitudine, vivano, e si alternino, nella nostra vita emozionale. Sono sentimenti, questi, che possono nascere come espressione della vita quotidiana, con le sue preoccupazioni e con i suoi problemi, o invece come espressione di una sofferenza psichica: di una malattia in senso clinico.

pazzia-ex-maniconio

Nel primo caso, questi sentimenti di tristezza e di angoscia, di solitudine e di disperazione, benché non siano malattia, si possono ugualmente accompagnare a disturbi della comunicazione. Facciamo l’esempio della timidezza, una esperienza emozionale così incompresa e così ignorata, e nondimeno così frequente in ogni età ma, in particolare, in quella adolescenziale. In questa la comunicazione con gli altri, con i compagni e le compagne, con le insegnanti e anche con i genitori, si fa fragile e inquieta, frammentaria e intermittente; e basta poco a ferirla ulteriormente, e a farla sedimentare nella in comunicazione assoluta: in quella della morte volontaria. Cose che non accadrebbero se, nell’ambiente familiare e in quello scolastico, ci fossero attenzione e ascolto, gentilezza d’animo e intuizione, silenzio e attesa dell’indicibile. Questa, dunque, una comunicazione infranta che potrebbe essere risanata, e che per negligenza e noncuranza, anche se non per mancanza di a etti e per indifferenza, si fa talora incolmabile e insalvabile.

Nel secondo caso, la comunicazione infranta dalla follia è molto più radicale, e profonda, che non quella prima descritta; e nondimeno la malattia, che ne sta a fondamento, può essere più facilmente modi cabile sia perché, qui, il disagio è evidente sia perché l’aiuto psicologi- co si associa a quello farmacologico. Ma non sempre è così; e la comunicazione si può insabbiare nel silenzio, e nella impossibilità, della comunicazione.

Nella mistica, si fa l’esperienza dell’indicibilità che, come tale, è oltre la razionalità. Tuttavia, soprattutto – anche se non esclusivamente – nella percezione comune, la particolare posizione del mistico viene equiparata alla irrazionalità. È possibile individuare una causa di una tale rimozione che rischia di tradursi in una delegittimazione del mistico?

250px-angela_of_foligno_1L’esperienza mistica, quando sia palpitante e viva, quella di Chiara d’Assisi e di Angela da Foligno, di Giovanni della Croce e di Blaise Pascal, di Teresa d’Avila e di Teresa di Lisieux, non ha nulla a che fare con esperienze, ad essa apparentemente sovrapponibili, di natura psicopatologica. Nell’una e nelle altre si possono manifestare segni di una relazione con il mondo della realtà radicalmente diversa da quella nella quale siamo immersi nella vita quotidiana: con il succedersi in essa di esperienze univoche e immodificabili nei loro contenuti fenomenici. Ma, nelle esperienze psicopatologiche, nelle esperienze tout court allucinatorie e deliranti, si è pietrificati in un autre monde dal quale si allontana ogni trascendenza, e nel quale si radica una emblematica e disperata condizione autistica: solipsistica. In questo autre monde, che è il mondo oscuro e lacerato della follia, le idee e le emozioni si intrecciano, e si scompongono, lungo i sentieri di una razionalità frantumata nella quale non ci è possibile immedesimarci, e nemmeno riconoscerci in qualche parte. Nelle esperienze mistiche, invece, che sono (certo) esperienze dell’indicibile, e dell’ineffabile, seguendo le diverse scansioni semantiche che le due parole hanno nell’universo linguistico di Vladimir Jankélèvitch, non viene mai meno la trascendenza, e cioè la relazione con l’Altro-da-sé, che trafigge l’immanenza psicopatologica costitutiva della follia. Fanno parte, così, di ogni esperienza mistica la nostalgia e la presenza di una fondazione dialogica del discorso: di un orizzonte di senso che oltrepassa la solitudine monadica e che è nutrita di una ineliminabile inclinazione alla alterità: alla ricerca senza ne dell’Altro-da-sé che è Dio: rivissuto, e conosciuto, come un Tu. In ciascuna esistenza mistica l’esperienza di Dio è ancorata all’amore e alla libertà, ed è accompagnata dalla coscienza della propria debolezza e della propria fragilità: delle proprie ferite dello spirito. Siamo nel mistero della oltre razionalità, e del silenzio come apertura all’infinito. Nell’universo della tecnologia trionfante, e della fuga da ogni interiorità, e da ogni contemplazione del mistero, non si ascolta l’infinito, lo si rimuove crudelmente, ma senza riuscire a spegnerlo.

akamaihd

A più di trent’anni di distanza dall’approvazione della legge 180, avvenuta nel maggio ’78, che aveva eliminato i luoghi canonici in cui si era ritenuto fino ad allora di poter confinare la malattia mentale, Le sembra che le modalità di approccio alla malattia mentale abbiano conosciuto oggi una effettiva trasformazione?

Negli ospedali psichiatrici italiani, con alcune eccezioni, non si curava la malattia: nemmeno la si studiava, e così nemmeno la si conosceva nella sua fragilità e nella sua indifesa nostalgia di incontro e di solidarietà. La terrificante, e inesorabile, forza del pregiudizio, di questo filo spinato rovente che circonda, e imprigiona, le persone e le situazioni, giudicandole e condannandole una volta per tutte, non attribuiva alle esistenze psicotiche se non una radicale insignificanza di vita e una (pretesa, e del tutto ingiustificata) tendenza alla violenza e alla aggressività: che, semmai, nasceva solo come risposta alla aggressività e alla violenza ideologiche, e pratiche, dei medici e degli infermieri. Come avevo constatato nell’ospedale psichiatrico di Milano, e, ma in forme mitigate, in quello di Novara, si legavano le pazienti e i pazienti: senza alcuna considerazione della loro dignità e della loro libertà: ferita dalla malattia ma oppressa da chi aveva il dovere di assisterli e di curarli. Nemmeno ventisei anni dopo la scoperta degli psicofarmaci, e cioè nel 1978, quando se ne è stata decisa la chiusura, gli ospedali psichiatrici, escludendo quelli di Arezzo, di Novara, di Padova e di Trieste, si erano trasformati in luoghi di cura: restando luoghi di esclusione e di emarginazione, di indifferenza e di contenzione: senza orizzonti di cura. La psichiatria, che ne è conseguita, quella di oggi, ha ancora larghe aree di noncuranza nei confronti della libertà e della dignità, della creatività e della sensibilità, dei pazienti; ma è inconfrontabile, al di là di questo, con quella che era la non-psichiatria di ieri. Certo, come dicevo in una mia precedente risposta, la psichiatria è scienza umana e scienza naturale; ma, oggi, rischia di essere divorata dai paradigmi epistemologici e applicativi delle neuroscienze che tendono radicalmente a considerarla come esclusiva scienza naturale: destituita della fragilità umana che noi le riconosciamo.

 

Crediti delle immagini pubblicate in questo post:

Un internato dell’ex ospedale psichiatrico di Sassari

http://firenze.repubblica.it/cronaca/2013/04/12/foto/un_inferno_chiamato_opg_ospedale_psichiatrico_giudiziario-56509759/1/

https://cordatesa.noblogs.org/post/tag/manicomi-criminali/

 

(Il dialogo con Eugenio Borgna è stato pubblicato in YM 3 Forme di espressione ibride)

yod_numero-3_copertina-x-web

 

 

 

 

 

L’invisibile parte degli esseri

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 3 January 2017 at 7:11 PM

Giovanni Scarafile

 

1. «Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri».

Nelle parole scritte da Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione si fa riferimento ad uno dei primi referti dell’attività percettiva. Per certi versi, quanto rivelato nelle parole del filosofo francese e, prima di lui, in quelle del movimento della psicologia della forma, è sorprendente per diverse ragioni.

Prima di tutto, perché quel referto riguarda il modo in cui è possibile vedere tutto ciò che ci sta intorno. L’esperienza del vedere è una attività talmente costitutiva di ciò che siamo che difficilmente si è disposti ad ammettere che possa essere diversa da come l’abbiamo sempre direttamente esperita. Il vedere è la nostra prima fonte di informazioni e se si scoprisse che le cose stanno in modo diverso rispetto a come ce le aspettiamo, allora saremmo costretti a trarne le conseguenze su molti livelli.

i-segreti-della-scogliera-di-marco-esposito-188x300L’indicazione di Merleau-Ponty sta, dunque, lì come un monito, alludendo ad un rapporto non aggirabile tra visibile ed invisibile. Il nostro vedere, dicono quelle parole, è possibile perché si istituisce una relazione tra la figura e lo sfondo. La figura è l’oggetto su cui di volta in volta dirigiamo lo sguardo. È ciò che vogliamo vedere quando vediamo. È ciò che mettiamo a fuoco. Tale visto è individuato tramite le relazioni che lo collegano a ciò che gli sta intorno.

Si tratta di dinamica inavvertita. Si compie ogni giorno in modo del tutto automatico ed è quindi inevitabile che ad essa non solo non si presti alcuna consapevole attenzione, ma che sotto silenzio cadano le sue implicazioni: alla identificabilità di qualcosa (ciò che vogliamo vedere) noi giungiamo per il tramite di ciò che si oppone a quella stessa identità in costituzione. Per dirla altrimenti, si individua l’essere per il tramite del non essere, o in termini più figurati, la luce per il tramite del buio. Queste entità, pur rimanendo opposte, sono dunque molto meno separate di quanto solitamente si pensi [1].

a65eac3ffd1ad679a260aac9aa33627d_53a29cac8b315

Marco Esposito, autore de I segreti della scogliera.

 

2. Giuseppe Scrimieri, lo scrittore protagonista de I segreti della scogliera di Marco Esposito, si rifugia a Torre del Fiume, una località marina sulla costa salentina, per cercare di trovare l’ispirazione giusta per scrivere il suo ultimo libro.

La scelta del luogo non è casuale. Venti anni prima, infatti, il successo del romanzo precedente, ambientato nello stesso posto, era stato in gran parte dovuto alle storie surreali ed inquietanti degli abitanti del paesino. Modificare ad arte i loro nomi, tuttavia, non era stato sufficiente per evitare che si potessero riconoscere come protagonisti della storia narrata. A spiegare l’atmosfera che attende Giuseppe ci pensa lo stesso Esposito:

«Per anni, il male strisciante era cresciuto e si era alimentato sotto di loro, nutrendosi della calunnia come un parassita silenzioso. Le conseguenze del libro l’avevano portato alla luce, svelandolo in tutto il suo orrore. […]. Avevano nutrito il male tutto quel tempo, divenendo inconsapevolmente carne da macello, e ormai era quello il loro destino».

Giunto a destinazione, Giuseppe dovrà ben presto abbandonare l’ingenuità che all’inizio, forse eccessivamente, lo connotava e rendersi conto che la realtà è diversa rispetto alle attese.

Il vecchio Joe, per esempio, con cui nel passato aveva trascorso molto tempo a giocare a scacchi, ora inspiegabilmente gli riserva una accoglienza fredda e distaccata. Maria Cipressi, le vicende del cui figlio Pasquale erano state al centro del precedente libro di Giuseppe, si rivela glaciale, nonostante il garbo apparente. Nadia Cataldo, la pescivendola, con cui lo scrittore aveva avuto un fugace flirt, decide di non farsi trovare.

Nonostante tali diffidenze, Giuseppe si ambienta nella casa sulla scogli9788806129705_0_0_324_80.jpgera dove, ispirato dal mare, ritrova la liturgia della scrittura, fatta di silenzi e concentrazione. Tale ricercata solitudine, tuttavia, non lo isola dalla vita della comunità in cui è tornato a vivere. E così, gradualmente ed inesorabilmente, le vicende dei personaggi del romanzo iniziano ad incastrarsi e Giuseppe comincia a rendersi conto dell’esistenza di fili invisibili che li legano. La vicenda assume un ritmo vertiginoso nella parte finale del libro. Simile ad un lampeggiante di una sirena che, ruotando su se stesso, proietti la sua luce su ciò che gli sta intorno, la scrittura di Esposito con agilità inizia a mostrare i lineamenti di una realtà che, a lungo sopita, si risveglia lentamente. Tanto erano reali le descrizioni dei posti e delle persone nella prima parte del libro, tanto ora nella seconda parte quella accuratezza delle descrizioni lascia spazio ad una inversione delle matrici del reale. Ciò che sembrava normale, si rivela patologico.

Certo, nel libro di Esposito non mancano alcune distonie, come un caminetto acceso in piena estate e forse l’eccessiva ingenuità di Giuseppe. Tuttavia, esse non inficiano il valore di una scrittura che riesce nel difficile compito di rivelare come l’invisibile sia costitutivo delle nostre esperienze, molto più di quanto saremmo soliti aspettarci.

Varcata la soglia della plausibilità dell’invisibile, la stessa realtà assume connotati prima inimmaginabili. Ne I segreti della scogliera tale mutazione viene misteriosamente incarnata da un’anziana donna, che, riconoscibile anche per la presenza di un dente giallo lungo fino al mento, è presente nei momenti salienti in cui la vicenda si dipana. L’identità della vecchina, vestita di nero, seduta su una sedia bianca di plastica in compagnia di un grosso cane nero (richiamo a Cani neri di McEwan?) sarà rivelata solo nelle ultime pagine del romanzo.

3.

h-_p-_lovecraft_june_1934

H.P. Lovercraft

Lovercraft, Poe, King, ma anche il cinema di Argento, Cronenberg, Carpenter rappresentano la dichiarata fonte di ispirazione di Marco Esposito, il quale riesce nel tentativo di delineare un affresco della vita di una piccola comunità, ritratta nel momento in cui essa viene a contatto con un agente patogeno in grado di stravolgerne la più intima natura. In assenza di antidoti efficaci (si veda in proposito la timida figura di don Gino, il prete, alla cui assistenza spirituale la comunità di Torre del Fiume è vanamente affidata), una coltre di silenzio e forzato quieto vivere si impossessa di quella comunità, corrodendo dall’interno l’anima dei suoi abitanti.

 

Il libro di Esposito è anche una celebrazione della forza della scrittura, sia perché essa è la materia stessa della narrazione, sia perché lo stesso libro scaturisce, come spiegato dallo stesso Esposito nei Ringraziamenti alla fine del volume, dall’indomita volontà del suo autore di vedere pubblicato il suo manoscritto che lo porta nel febbraio del 2013 a dare inizio ad una felice campagna di crowdfunding.

In conclusione, mentre i personaggi de I segreti della scogliera si congedano, tornando nell’ombra, noi siamo abitati da una certezza nuova: quella invisibilità, infatti, non è tanto una destinazione lontana, frutto della fervida fantasia di un giovane scrittore, ma – in virtù della stretta interconnessione tra visibile ed invisibile – un esito sempre attuale, a seconda dello sguardo di noi lettori. De te fabula narratur.

 

[1] Uno dei modi più convincenti e profondi di pensare le conseguenze di un tale rapporto è dato dagli scritti di Virgilio Melchiorre. In particolare, si vedano i volumi Essere e parola: idee per una antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1992; Figure del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1994 ed il saggio Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, introduzione all’edizione italiana di Finitudine e colpa.