Dialogo con Erri De Luca e Livio Romano
di Roberta Pizzi
Nel mio personalissimo peregrinare fra letture, spesso senza orientamento e senza bussola, mi sono avvicinata alle opere di diversi scrittori. Alcune mi accompagnano nel quotidiano, come eco di sottofondo o come controcanto, altre si sono perse nel trascorrere del tempo, altre sono divenute parte di me e mi hanno dato un modo nuovo di guardare il mondo, come nuovi occhiali che rendano più chiara la visione delle cose. La navigazione a vista spesso non porta in nessun luogo, fa girare in tondo e perdere l’approdo certo, ma qualche volta crea rimandi, incontri fortuiti o destinati. E allora si inseguono le orme di un autore come si farebbe in una caccia al tesoro per trovare la strada e il premio, si ripercorrono i sentieri tracciati dalle scritture, con l’attesa di quello che ancora è da scoprire e conoscere. Le parole scavano e incidono come l’acqua la pietra, e il solitario esercizio di lettura si fa silenzioso dialogo con un autore, sperimentazione di altro da sé, cambiamento lento e conquista.
“Coltivate le amicizie, incontrate la gente. Voi crescete quanto più numerosi sono gli incontri con la gente, quante più sono le persone a cui stringete la mano” diceva don Tonino Bello, e prendere un libro in mano è stringere mani nuove, abbracciare incontri e coltivare amicizie.
Di tutte le letture amo ogni aspetto che mi sia dato di cogliere. La parola scavata, incisa, netta, terribile in senso sacro, di Erri De Luca; quella elegante, forbita, arguta e agile di Livio Romano, sono le due scritture con cui mi sono confrontata in questo immaginario dialogo a distanza.
- Nella narrazione è più pressante il desiderio di comunicare o quello di esprimersi, di “dire qualcosa” o di “dire sé stessi”?
Erri De Luca: Scrivo per ricordarmi e raccontarmi una storia. Dal tempo trascorso mi affiora ogni tanto un dettaglio, un momento. Scrivendolo diventa tempo ripassato insieme. Non c’entra per me esprimermi né imprimermi. Conta per me tenermi compagnia. Da lettore è lo stesso: una storia deve riuscire a starmi accanto, valere il mio tempo di lettura. Ci sono grandi scrittori, loro opere solenni che mi sono cadute dalle mani per mancato scambio.
Livio Romano: Parlo del mio caso. Sì: una fortissima propensione alla comunicazione, al raccontarsi, prima che al raccontare. Al mettere al centro di una scena narrativa un proprio io trasfigurato, mistificato, ideale, forse, perfino. Pure se poi quell’io che talvolta fa capolino nei miei romanzi è dotato di un’autoironia feroce che è propria sì della mia persona, ma che tende a trasmettere l’idea che, pur salendo su uno scanno e prendendo la parola, quell’io fatica moltissimo a prendersi sul serio.
Detto ciò, la mia scrittura è percorsa anche, e soprattutto, da una forte tensione ideale, civile. Uno dei moventi principali che mi spingono a raccontare una storia è l’indignazione, la voglia di mettere alla berlina quelli che il mio personale sistema di valori considera i cattivi.
- Cosa cambia, se qualcosa muta, nella persona dello scrittore/narratore quando si mette a scrivere? È opportuno o necessario che qualcosa cambi perché si abbia narrazione? Si deve diventare altro da sé per narrare storie?
Erri De Luca: Per me si tratta di raggiungere il tono di voce di un io narratore che raccoglie la storia dal suo punto di vista, all’ interno della vicenda stessa. Non ho la distanza della terza persona, dello scrittore che fa svolgere una storia di altri, da lui diretta. Dispongo invece di un narratore interno che la sta pronunciando. C’entra perciò l’ udito nella mia scrittura. Devo diventare un ascoltatore.
Livio Romano: Il narratore vero è colui il quale sa decentrarsi, sa vestire i panni di uno nessuno e centomila personaggi, come si dice. Succedono fenomeni curiosi quando vesti i panni di un personaggio molto lontano da te, quando lo fai agire, parlare. A volte scopri che ti è simpatico, che provi per lui una compassione umana che ti porta a non mandarlo all’Inferno dei cattivi (the writer is a God, pure si dice, a indicare la possibilità che uno scrittore crei, faccia, disfaccia a suo totale ed esclusivo piacimento la vita nuova che mette in scena). Scopri, dunque, che quell’essere abominevole tiene dentro dei tratti che sono tuoi propri e non te n’eri mai accorto. Poi io son d’accordo nel potere salvifico, terapeutico della scrittura. Diceva Tondelli che si scrive non per ricordare bensì per dimenticare. Io non ho mai più riletto i libri che ho fatto e pubblicato in 20 anni. Philip Roth l’ha fatto solo a 80 anni, prima di decidere di smettere per sempre. Storia raccontata, affidata ai lettori, agli ermeneuti, distaccatasi da te insieme con la vita che ci hai messo dentro. Ho deciso di chiudere una grande storia d’amore dopo aver scritto un romanzo su quell’amore, per esempio.
- La conoscenza che posso avere dell’altro (lettore) passa prima attraverso la conoscenza che ho di me (come primo lettore). Sembra banale, è questo il processo attraverso cui si costruisce una esperienza di lettura che conduce alla ideazione di una immagine del lettore cui ci si rivolge?
Erri De Luca: Non ho nessuna immagine della persona che prenderà il mio libro, miracolosamente proprio quello, in mezzo al gran bazar degli scaffali. La conosco solo per caso dopo, quando quella persona mi fa sapere della sua lettura, di una sua accoglienza.
Livio Romano: La conoscenza dell’altro: esattamente. Conoscenza proprio in senso biblico. Amore per il prossimo, per l’umanità intera: è la ragione per cui scriviamo storie, per cui raccontiamo le vite delle persone. Mente chiunque dichiari che scrive per se stesso. Ogni narrazione, orale o scritta o cinematografica o teatrale, ha bisogno di un pubblico perché venga ad esistere. Io scrivo esclusivamente perché mi si legga, perché la gente si arrabbi insieme a me con i felloni che faccio agitare nelle pagine, o si commuova, o rida –soprattutto rida. Tuttavia non ho un’immagine del lettore ideale della storia. Non più. Né, quando ce l’avevo, me ne lasciavo influenzare adottando piccole o grandi censure o, al contrario, dilatamenti degli avvenimenti. Ho imparato che le tue storie finiranno in mano alla gente più incredibile e lontana, della quale magari tu non avresti sospettato neppure l’esistenza. Tutto ciò, non lo nascondo, è piuttosto inebriante.
- Spesso la formazione di uno scrittore non è canonica, molti scrittori affermano di essersi “ritrovati a scrivere nonostante” percorsi di studio di altra natura; è forse questo che contribuisce a dare maggiore ricchezza al tessuto della narrazione di uno scrittore?
Erri De Luca: Uno scrittore più ne ha passate più ne contiene.
Livio Romano: Tutto sacrosanto. Io ho fatto studi giuridici e nella vita insegno inglese ai bambini. Non ho una formazione letteraria pure se ho fatto un eccellente liceo. E amo soprattutto gli scrittori che provengono da altri percorsi –nel senso che mi accorgo di prediligerli. Penso solo all’ingegner Gadda o al chimico Franzen. In Italia, poi, da sempre una folla di giuristi ha capacità narrative fuori dal comune. Ho una mia teoria. Il logos giuridico è chiaro, cristallino, cartesiano, sillogistico. Non si presta a eccessive divagazioni. Una palestra di rigore, insomma. Dopo la laurea in legge ho fatto una decina di esami a Lettere. Mai come in quel periodo ho scritto roba orrenda. Alberto Rollo di Feltrinelli mi convocò a Milano per parlare del mio nuovo libro. A pranzo mi rivelò che fu mosso dalla bruttezza della sinossi che gli avevo spedito. Sembrava scritta da una penna diversa rispetto a quella che aveva buttato giù il romanzo, mi disse. Abbandonai lettere. Giulio Mozzi una volta rispose a una mia lettera nella quale dichiaravo che mi sentivo ignorantissimo, che forse mi sarei dovuto mettere a studiare retorica, linguistica, analisi del testo: “Invece che cumuli di quella roba, pensa a cumulare centinaia di serate a parlare con la gente in osteria”, mi rispose. Sembra ovvio, ma per uno come me abituato da sempre solo a studiare fu una rivelazione.
- Vi sono scrittori che affermano scrivere nel tempo tra la notte e l’alba, o che non possono scrivere se non in un dato luogo, o al contrario scrivono ovunque. Quanto è importante, se davvero lo è, nel mestiere del narratore il contesto, il luogo e il tempo in cui si scrive?
Erri De Luca: Per me scrivere non è un mestiere né un lavoro. E’ il tempo festivo e migliore. Non sono l’impiegato della mia scrittura, non mi timbro il cartellino di inizio e quello di fine. Sc rivo per mio purissimo sfizio, nell’ora e nel luogo qualunque, in ogni caso a penna e su quaderno, lontano da tavoli e scrivanie.
Livio Romano: Io scrivo dappertutto. Treni aerei stanze d’albergo biblioteche, perfino in auto. La scrittura è quasi sempre un tempo rubato. Chiedilo ai narratori. Ti risponderanno quasi tutti così. Perché di libri non si vive in Italia, e perché se hai un lavoro e una vita regolari, figli, commissioni: non può che esser così. Occorre il silenzio, questo sì. O anche il discreto chiasso di una grande città che corre mentre tu ticchetti sul pc. Ho scritto pagine di grande comicità in un’austera sala da tè di Basilea con vista Reno, e pagine di dolente angoscia nella tranquillità della mia casa in campagna. Un tempo prediligevo la notte, d’estate, all’aperto. Sto diventando grande, non ce la faccio più a esser lucido da mezzanotte alle quattro del mattino. Prediligo la mattina (per me diventato il momento più creativo, più sensuale, paradossalmente onirico) e il tardo pomeriggio. Tuttavia vivere per un tempo continuativo in un luogo inevitabilmente forgia la tua scrittura, e non solo per la musica che gira intorno, per le parlate che ascolti. È proprio il paesaggio e l’architettura che si insinuano nel tuo modo di organizzare il periodo, nella tua sintassi, nonché nel lessico che utilizzi, e nelle atmosfere che cerchi di restituire. Ogni scrittore è consapevole del valore delle proprie cose. Ebbene, io credo che la cosa migliore che abbia mai scritto sia il racconto Gigi che chiude Mistandivò, il mio libro d’esordio. Un raccontino perfetto, asciutto, denso di brume e insieme di speranza. Lo scrissi sepolto nella nebbia della bassa mantovana in cui vivevo da mesi, durante una settimana in cui nevicò, e lo scrissi –lo ricordo solo ora che lo racconto- a mano perché non disponevo di un computer. Avevo con me il fedele Palazzi del 1929 e nient’altro.
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