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Conflitti, virus e social: l’Italia divisa nell’era dell’informazione digitale

In Uncategorized on 3 December 2023 at 5:27 PM

Stefano Strusi

Negli ultimi tre anni, caratterizzati dalla pandemia causata dal ceppo virale SARS-CoV-19,  dall’invasione russa in Ucraina e, più recentemente, del riaccendersi delle ostilità tra Hamas e il governo israeliano, a seguito degli attentati terroristici del 7 ottobre, abbiamo assistito in Italia ad una sempre maggiore polarizzazione del dibattito pubblico, tra sì-vax e no-vax prima, putiniani e guerrafondai poi e, infine, tra filoHamas e complici del regime israeliano. L’ arena in cui si sono combattute queste lotte senza fine è stato dominato da un uso intensivo delle ICT e dei social media. Al netto delle differenze che è possibile osservare sotto il profilo tematico, si potrebbe sostenere che, generalmente, si è proceduti, in maniera più o meno consapevole, ad una twitterizzazione della sfera pubblica. L’assenza di spazi e tempi opportuni per lo svolgersi di un dibattito argomentato ha portato ad una contrazione e frammentazione del contenuto informativo veicolato dai media, coinvolgendo tanto la comunicazione istituzionale a sfondo divulgativo, quanto quell’insieme variegato di posizioni e autori, solitamente critici di qualunque versione ufficiale, che potrebbe essere letto attraverso il paradigma della controinformazione. Inoltre, si assiste con sempre maggiore frequenza ad un’ eccessiva personalizzazione, tanto nel ricorso al principio d’autorità per giustificare le proprie tesi, quanto per screditare le posizioni dei propri avversari, spesso presentati come nemici da sopraffare. L’elusione del merito delle questioni sembrerebbe, dunque, essere una cifra sistematica del dibattito pubblico odierno; spostare l’attenzione dal merito alla personae al posizionamentodi questa all’interno di uno dei due campi contrapposti è una delle strategie più frequentemente adottate.

Alla twitterizzazione della sfera pubblica corrisponde la proliferazione della disputa in quanto forma di  «scambio polemico», che ha origine a partire da «differenze di attitudine, sentimento o preferenza» e che può, al massimo, «dissolversi o essere dissolta». La mossa tipica della disputa è lo «stratagemma», che consiste nel tentativo «di spingere un determinato pubblico a (re)agire in una specifica maniera, inducendolo a ritenere una certa affermazione come vera» attraverso «l’inganno e la manipolazione – e.g. manipolando lo stato corrente e i bisogni informativi dello scambio» con l’obiettivo di «portare a casa il risultato (anche solo momentaneamente)» (Dascal 1998). Talvolta l’adozione di queste modalità comunicative non è intenzionale, ma è indotta dalle condizioni entro cui l’interazione ha luogo. Nei talk-show l’incedere dei tempi televisivi, le difficoltà nella conduzione da parte dell’host e la necessità di rivolgersi al pubblico impediscono l’articolarsi di un dibattito che proceda per argomenti e sia rispettoso di un’etica del discorso riconosciuta come valida da entrambe le parti. L’infotainment alimenta e risponde alla domanda di un pubblico che, scegliendo sulla base di preferenze individuali o del proprio gruppo di appartenenza, riproduce quelle stesse dinamiche, a cui assiste attraverso lo schermo del proprio televisore o laptop, rafforzandole e soddisfacendo tentazioni identitarie.

Marcelo Dascal affianca alla disputa e alla discussione, suo contrapposto ideale che procede a partire da assunti comuni, seguendo un metodo condiviso, una terza specie di scambio polemico, la controversia. Quest’ultima, pur riconoscendo la natura non disinteressata delle parti in conflitto, si svolge attraverso un’attenta messa in discussione degli assunti di carattere metodologico, epistemologico e fattuale, senza ridursi per questo ad una disamina di attitudini, sentimenti e preferenze individuali. Tale messa a vaglio ha luogo mediante l’uso di argomenti, che, per quanto «non abbiano direttamente a che fare con la verità, ma con la credenza», si propongono di agire su quest’ultima «fornendo delle ragioni che non sono né logicamente vincolanti né impersonali» (Dascal 1998) ma soppesabili e confrontabili tra loro. Il tipo di obbligazione che caratterizza le conclusioni di una controversia differisce nel tipo di vincolo a cui dà luogo la disputa, poiché lo scopo di quest’ultima non è con-vincere, ma vincere. Questa differenza può essere riscontrata innanzitutto in difformità di carattere morfologico tra la controversia, per sua natura aperta ad ulteriori problematizzazioni, e la disputa, chiusa nel proprio orizzonte identitario. Ciò che permette di distinguere ulteriormente tra la controversia e la disputa è la presenza, nel primo caso, di un «pubblico colto» (Dascal 2020), capace di adempiere alla doppia funzione di destinatario e arbitro del corretto svolgersi dello scambio, impedendo di fatto il degenerare di questo in una disputa.

L’assenza, oggi, di una classe intellettuale capace di ri-costruire il «villaggio globale» descritto da Marshall McLuhan e di evitare un’ulteriore «cyber-balcanizzazione» (Van Alstyne & Brynjolfsson 1996) della sfera pubblica, costituisce uno dei principali segnali di via libera alla proliferazione della disputa come forma privilegiata e quasi unica di scambio polemico nel dibattito pubblico. Questo fenomeno è talvolta favorito dall’adozione, da parte di quelle figure che dovrebbero costituire il pubblico colto, degli stessi registri linguistici e comunicativi propri della disputa, rendendoli corresponsabili del processo sopradescritto. Tale disgregazione, secondo Marshall Van Alstyne ed Erik Brynjolfsson, è uno dei possibili esiti dell’azione delle IT, le quali possono «in determinate circostanze, portare ad un incremento nella frammentazione delle interazioni sociali ed intellettuali». La progressiva erosione dei confini geografici e il conseguente incremento in termini di connettività garantito dalle IT, scontrandosi coi limiti propri della capacità umana di processare informazioni, può facilitare «la generazione e il rafforzamento di comunità periferiche che condividono un’ideologia comune, ma sono disperse geograficamente» (Van Alstyne & Brynjolfsson 2005)  e i cui confini sono segnati dai propri interessi particolari. La disputa si candida ad essere la forma privilegiata di scambio tra queste comunità, alimentando essa stessa, per sua natura e attraverso l’adozione delle ICT come medium, dinamiche di natura conflittuale. La ri-costruzione del villaggio globale passa anche attraverso un progressivo depotenziamento del carattere animato e identitario della disputa mediante uno spostamento del suo focus dalle differenze di attitudine, sentimento e preferenza individuale a questioni di merito; un’eventuale pubblico colto che si proponesse di assolvere a tale compito si troverebbe ad assumersi la responsabilità di una terza funzione, ulteriore rispetto alle due individuate da Marcelo Dascal, ossia quella di impegnarsi attivamente nella realizzazione di campagne di sensibilizzazione e contrasto alla disinformazione e alla misinformazione e nella promozione di forme argomentate di dibattito, attraverso un ripensamento dei modi di utilizzo delle ICT e dei social media.

Riferimenti bibliografici

Dascal M. (1998). Types of polemics and types of polemical moves, in S. Cmejrkova & J. Hoffmannova & O. Mullerova & J. Svetla (Eds.), Dialogue Analysis VI (pp. 15-33).Tubinga: Max Niemeyer

Dascal M. (2020). Comprendere le controversie, In G. Scarafile (Eds), La Bilancia della Ragione (pp. 63-76). Pisa: ETS

Van Alstyne M., Brynjolfsson E. (1996)  Electronic Communities: Global Villages or Cyberbalkanization? (Best Theme Paper), ICIS 1996 Proceedings, 5, 1-32

Van Alstyne M. & Erik Brynjolfsson (2005). Global Village or Cyber-Balkans? Modeling and Measuring the Integration of Electronic Communities. Management Science, 6, 851- 868

LA GUERRA IN UCRAINA E L’AMBIGUITÀ DEGLI ARCHETIPI

In Uncategorized on 8 March 2022 at 7:59 PM

Carlo Chiurco

Tutti noi, in questi giorni, ci stiamo chiedendo quali siano le reali intenzioni di Putin. Le spiegazioni tattiche o strategiche, infatti, non sembrano fornire una ragione sufficiente di quanto sta succedendo. Questo ci getta nello sconforto almeno quanto la guerra stessa: in assenza di ragioni sufficienti – giacché i costi umani, politici ed economici della guerra fanno saltare qualsiasi calcolo utilitaristico – tutto sembra avvolto nell’ambiguità, di fronte alla quale la nostra reazione è sempre la stessa: scioglierla, rimuoverla, cancellarla. Lo fa Putin, sperando di tagliare alla radice sia l’ambiguità degli USA, per cui in un futuro anche l’Ucraina potrebbe essere ammessa nella NATO, che degli ucraini stessi, che quell’ambiguità hanno utilizzato prima come elemento di disturbo contro la Russia, e successivamente come elemento di pressione morale verso europei e americani perché intervenissero in loro favore. Ma anche la reazione del pacifismo assoluto è il grido di rifiuto verso l’intollerabile ambiguità degli archetipi che, in assenza di ragioni sufficienti, sembrano dettare i comportamenti umani, intrecciandosi e sciogliendosi nel loro vorticoso mutare, in cui vecchi archetipi tramontano (la globalizzazione, l’interdipendenza…), nuovi sorgono (il riarmo tedesco, la fine della neutralità svizzera, l’autonomia europea), altri provano a risorgere, come il nazionalismo panrusso. Al contrario, chi si arruola e parte per difendere una patria che non è la sua, e un popolo che non conosce e di cui non parla la lingua, sceglie di allinearsi al mutamento archetipico fino ad annullarsi in esso. Entrambe le reazioni, nella loro radicalità, sono dettate dalla presa di coscienza della nostra impotenza dinanzi agli archetipi. Tale impotenza sorge però da un’illusione che ci permea: credere che gli archetipi si possano comandare, come si dirige una marionetta tirandone i fili. È un’illusione di cui tutti siamo vittime, anche i cosiddetti “grandi”, che anzi sono i più illusi di tutti: non solo perché mettono in moto reazioni che non possono controllare, come l’andamento della guerra mostra chiaramente (del resto, in Afghanistan e in Iraq non è forse successa la stessa cosa?), ma perché, a ben guardare, neppure le mettono realmente in moto. Putin, infatti, ha deciso in base a degli archetipi, assecondandone la forza seduttiva, la loro soverchiante capacità di seduzione e di richiamo.

Uno di questi è un archetipo temporale, il ticchettio sincrono dell’orologio biologico con quello della storia russa. Come ha evidenziato Lucio Caracciolo di Limes, quest’anno Putin compirà 70 anni, e non vuole passare alla storia come il leader che ha dovuto gestire la successione all’Unione Sovietica (ossia la sua liquidazione), ma come colui che ha aperto una pagina nuova nella storia russa. Ma l’argomento anagrafico scende più in profondità: di tutti i governanti russi da Pietro I in poi, solamente due hanno raggiunto o superato quella soglia d’età: Stalin (75), evidentemente grazie alla forza del suo potere, e Andropov (70), all’opposto, grazie al suo governo scialbo. Putin ha chiaro, insomma, di avere poco tempo davanti a sé, data la natura del potere russo, che è tale da logorare, divorandoli, i suoi padri, accompagnandoli anzitempo al meritato eterno riposo o – Dio non voglia – allontanandoli dalle responsabilità di governo affinché possano curarsi da fastidiosi quanto letali raffreddori.

Un altro archetipo è il potere del principio di gravità. Su un’ipotetica scala di intensità degli imperi, la Russia occuperebbe il livello più basso, perché obbedisce a quel principio, e quindi alle grezze logiche dell’estensione e del territorio. Erede degli sconfinati e incerti imperi medievali figli del vento creati dai cavalieri nomadi della Mongolia – che Deleuze incredibilmente non cita, ma che uniscono proprio le due macchine da guerra fondamentali, il nomade e l’impero –, la Russia si trova a fronteggiare la forza mareale interna esercitata dai suoi sette fusi orari, bilanciandola concentrando il potere nel buco nero dell’autocrazia. La paranoia sovietica, pedissequamente ripresa da Putin, trasuda spirito di gravità fino all’asfissia nell’ipocondria verso il contatto fisico, nei tavoli spropositati che si allungano come deserti della comunicazione tra i convitati, negli ambienti dall’estetica ributtante privi di finestre, tenute ermeticamente chiuse, dove nessuna luce filtra dagli orrendi tendaggi. La Russia è soggetta però anche a forze mareali esterne, a est come a ovest, nell’Europa un tempo suo satellite e nella stessa Cina, là dove trent’anni di crescita economica galoppante hanno creato società dinamiche e complesse, ben più ricche e strutturate rispetto all’immenso paese schiavo dello sterile «monotono-teismo» (Nietzsche) del Dio Idrocarburo (ossia, ancora una volta, del territorio, della terra sterilissima della Siberia). L’ambiguità eurasiatica russa minaccia perciò di smembrarsi, spezzata in due tra la parte europea e la sua immensa porzione asiatica, risucchiata da un lato da quella stessa Europa che pure vorrebbe annettersi e a cui appartiene – è lei la prima a dirlo! –, e lasciando la Siberia gravitare, come in fondo dovrebbe, intorno alla Cina.

Ambiguo è anche l’archetipo dell’Europa che si riscopre unita, «da Lisbona a Valdivostok», come proclama Macron. È l’offerta implicita di Putin: la rinascita dell’Europa pre-1914, quando la Russia zarista era pienamente inserita nel concerto delle potenze europee e i Romanov-Oldenburg, essi stessi una dinastia tedesca, sposavano solo principesse teutoniche. Un’offerta che implica il riconoscimento che l’attuale condizione dell’Europa sotto la UE, quella di essere l’impero europeo dell’America, è spuria. Archetipo ancora una volta ambiguo, l’unità-autonomia degli europei: se da un lato, infatti, l’unione alla Russia la renderebbe sostanziale, portando in dote 6000 testate nucleari e una proiezione geografica che ci farebbe confinare per migliaia di chilometri con la Cina, dall’altro rischierebbe di farci fagocitare dalla Terza Roma, che coronerebbe così il suo sogno di farsi riconoscere dagli americani come loro pari, non mera potenza regionale. Del resto, già vent’anni fa Emanuele Severino sosteneva che la fine dell’URSS non significava la fine del duopolio mondiale russo-americano, per il semplice motivo che non era venuta meno la capacità dell’arsenale nucleare di Mosca di competere con quello di Washington.

Ma la Russia è ai nostri occhi da tempo divenuta ancella dell’Asia, almeno dal fatale spostamento della capitale da San Pietroburgo a Mosca, facendo scattare in noi la memoria dell’archetipo fondativo dell’Occidente: l’affermazione nelle guerre persiane del logos greco contro la satrapia divinizzata dell’Oriente. Così come la Russia, agli occhi della Cina, resta invece ancora e sempre puramente europea, esempio dell’imperialismo dell’uomo bianco che colonizza l’immenso retroterra siberiano del Celeste Impero – uno spazio dove non dovrebbe stare.

Giochi di archetipi che si intrecciano capricciosi come serpenti, e che perennemente si riaffacciano come l’Uroboro divino del tempo ciclico: contro i quali nulla vale la presunzione di poterli manipolare, cui i potenti per primi soggiacciono, ma solo il consapevole domandare dell’etica, che sa che l’ambiguità del reale non si può sciogliere, ma solamente attraversare.

Carlo Chiurco è Professore associato di filosofia morale nell’Università di Verona.

Fare cose. Vedere gente. Il lavoro nell’età dello smart working

In Uncategorized on 16 January 2021 at 6:48 PM

Diego Castagno

Prologo

Smart Working che diventa Lavoro Agile è un artificio letterario che solo noi in Italia potevamo concepire. Con la fantasia e la furia dei linguisti dell’inizio del secolo scorso siamo riusciti ad italianizzare lo smart working, e ci abbiamo anche fatto una legge, (l.81/2017), perché era abbastanza chiaro che il mondo del lavoro stava cambiando, anzi era già cambiato. Ed assieme al termine abbiamo italianizzato anche il modo di intendere lo smart working, che come abbiamo visto in questi tempi di Covid è tutt’altro che “agile”, anzi, è una prova dura cui ci siamo sottoposti con entusiasmo iniziale ed una buona dose di ingenuità di cui incominciamo solo ora a renderci conto. 

Non che ci fossero grandi alternative in tempo di distanziamento sociale, altro neologismo di preziosa fattura, ma la celebrazione del lavoro a distanza, o lavoro agile, come lo strumento del futuro che ci restituirà tempo e aumenterà la produttività delle aziende, forse era eccessiva, perché nasconde una complessità che non si riduce al solo modo di lavorare, ma rinvia all’impianto stesso dei “paradigmi” con cui fino ad ora abbiamo interagito con il mondo dei nostri simili e con cui abbiamo immaginato il nostro futuro. Purtroppo di paradigmi nuovi non se ne vedono all’orizzonte e senza paradigmi non si capisce dove si è né dove si va, quindi ci teniamo i vecchi, sapendo che nel frattempo il mondo, compreso quello dei nostri simili, va da tutt’altra parte. E sorridiamo guardando il gatto dell’astronauta che salta sulla tastiera, immaginando che qualcuno gli presterà stivali magici, o un paio di ciabatte volanti.

Milano. Il lavoro inizia con l’Happy Hour 

La prima volta che sono entrato in un coworking ne sono rimasto affascinato. Mi è sembrato di entrare nel tempio del lavoro moderno, smart, di relazioni e gente che lavorando “fa cose vede gente”, e vedendo gente ci campa pure. Struttura TOP, come dicono a Milano, con spazi OPEN e super aperitivo a buffet. E un cartello un po’ inquietante appeso al muro dell’area LUNCH: “Il lavoro inizia all’ora dell’HAPPY HOUR”.

Tanto per dire, cari freelance che fate tanto gli splendidi, il business scatta solo se si hanno le relazioni giuste. Non le hai? Beh, siccome qui siamo tutto sommato meritocratici e un po’ calvinisti, allora abbiamo pensato che le opportunità devono essere per tutti: lavoraci su, e TAAC, ce la fai, scatta il business anche per te. Tutti, ovviamente quelli che pagano l’affitto, si svenano per l’aperitivo e accettano livelli di competitività tipici di quella comunità. Se no, il business non scatta. Questione di tempo e di organizzazione del tempo. 

Torino (aprile 1920)

Il tema quindi è il tempo. Nell’aprile del 1920 il “Secolo d’Italia” pubblica un articolo di un giovanissimo Benito Mussolini dal titolo Contro l’ora legale.

A me piace l’ora legale, sono meteoropatico, un’ora di luce in più la sera mi sembra un dono del Cielo. Al giovane Mussolini che interpretava il sentire degli operai della FIAT, costretti a turni sempre più faticosi e lunghi, l’ora legale non piaceva affatto. Anzi era un simbolo dell’annullamento dell’individualità, “un annientamento totale” contro la quale gli operai si ribellarono organizzando lo “sciopero delle lancette”. L’episodio è citato nel saggio di Raffaele Alberto Ventura, Radical Choc, assieme ad altre riflessioni di grande interesse che rimandano costantemente al tema del paradigma. Oggi viviamo “stirando” il vecchio paradigma, sapendo che a furia di tirarlo si romperà. Nel frattempo, secondo i meccanismi della “disruption” descritti da Schumpeter immaginiamo che nuove idee si stiamo consolidando e ci salvino dall’era della fine della storia, della fine del futuro e della fine del lavoro. 

Il tempo e lo spazio sono le categorie prime di comprensione del reale, eppure oggi sembrano relative: il Covid in questo è stata una esperienza che ha fatto scuola.

Il tempo del traffico urbano era quello dell’entrata a scuola o negli uffici, almeno fino a marzo 2020, almeno nelle grandi città. Il Covid ha appiattito e dilatato i tempi, mettendo in crisi organizzazione e percezione, o accelerando questi processi. Eppure se ha ragione Ventura, o Schumpeter, la crisi c’era già, la pandemia ha solo agito come il catalizzatore di una vernice sintetica e ha messo le persone di fronte a consapevolezze nuove. E lo ha fatto attraverso i grandi temi, tra cui quello del lavoro, che alla fine nonostante tutto resta l’ultimo distributore di risorse e identità da mettere e rimettere in discussione. Con scarso successo perché alla fine l’unico modo per garantire inclusione sociale, ridistribuzione delle ricchezze generate dallo sviluppo e identità individuale e collettiva oggi è ancora il lavoro. 

Epilogo

Lo smart working apre questo vaso di Pandora in cui i paradigmi vecchi vengono meno e quelli nuovi ancora non ci sono. Su tutti, il tema del lavoro.

Il Covid accelera questo processo di trasformazione o di sostituzione, tra uomo e macchine, tra personale e lavorativo.

Azzera e trasforma interi settori che sembravano emergenti, dal food al divertimento, dal medico all’avvocato. Il ristorante del futuro secondo gli esperti è solo una cucina, per il resto si consuma a casa. Il fenomeno è noto come Dark Kitchen, e, dicono, sarà il futuro della ristorazione. I camerieri non servono più, servono tanti rider in bicicletta. E serve gestire tanti dati. Cosa faranno domani i camerieri è un bel mistero. E un domani, magari non troppo lontano potrebbe toccare a medici e avvocati cooperare con le intelligenze artificiali o doversi reinventarsi. Difficile stare sereni se si fa il cameriere.

E lo smart working è solo un assaggio. Non è lo smart working che cambia le città, o le persone ma è il digitale che cambia il modo di vivere e lavorare, consumare e stare assieme. Come il digitale cambierà il mondo non si sa ancora. Ma quello su cui si può scommettere è la velocità con cui tutto cambierà. Anzi, è la velocità con cui si diffonde il digitale che lascia stupefatti e mette in crisi il senso del futuro, rendendone incomprensibile la direzione e il senso. Il tempo a disposizione, che alla fine è denaro, sembra davvero poco per riprogettare le vite nostre e delle nostre comunità, e il lavoro dopo tutto non è finito, sta solo cambiando, come tutte le cose nella storia dell’uomo e del pianeta.  

Post scriptum. Citazioni varie

A proposito di Coworking ed Happy hour, “l’uomo per sua natura non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto è necessario”. La frase che oggi suona meglio rispetto a qualche anno fa è di Max Weber. Che morì a causa della pandemia della spagnola, 100 anni fa.  Come ebbe a dire Woody Allen, il tema è il seguente: “Dove andiamo, da dove veniamo, e soprattutto cosa mangiamo stasera”. Delle tre oggi forse possiamo fare qualche ipotesi plausibile sul “da dove veniamo”. Per la cena possiamo sempre contare sui rider. @d_castagno

Gatti che manovrano satelliti

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 9 January 2021 at 9:57 AM

Trasformazioni del lavoro nell’età della pandemia

Giovanni Scarafile

Sparkle è il nome del gatto bianco e marrone di Daniel Lakey, un ingegnere aerospaziale impegnato nella missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. Un giorno, durante una importante call, mentre Daniel era collegato da casa, Sparkle è saltato sulla scrivania reclamando le attenzioni del suo padrone, il cui lavoro consiste nel gestire un satellite in volo a milioni di chilometri dalla Terra. Ne ha parlato Marina Koren sul The Atlantic (One Thing Space Agencies Must Watch Out for Now: Cats), rassicurando sull’esistenza di protocolli di sicurezza in grado di mettere al riparo un oggetto costosissimo come un satellite dalle carenze affettive di un gatto.

La vicenda di Sparkle, la sua imprevista presenza in una riunione di lavoro dell’ESA, è utile per farci capire quanto sia diventata ordinaria nell’età dello smart working l’intersezione dei nostri spazi vitali. Come non ricordare, in proposito, la celebre irruzione dei figli del prof. Robert Kelly, durante un’intervista in diretta alla BBC del marzo 2017?

Una delle conseguenze del protrarsi della pandemia da Covid-19 è stata di rendere pressoché stabile una situazione d’emergenza come il lavoro da casa. Ciò ha contribuito a produrre una silente ma inesorabile trasformazione del paradigma del lavoro cui eravamo abituati. Infatti, se, prima della pandemia, la distinzione tra tempo del lavoro e tempo del riposo era considerato vieppiù normale, con l’avvento dello smart working, tale distinzione si è svuotata di significato. Agevolati dalla virtualizzazione consentita dalle nuove tecnologie, abbiamo provato l’ebbrezza della quasi simultanea presenza in luoghi diversi, un tempo impensabile. E così, è divenuto del tutto consueto prendere parte durante la stessa giornata lavorativa a numerose riunioni telematiche; inviare e ricevere email anche in orari notturni o, all’inizio di una nuova giornata, aspettarsi che il nostro interlocutore abbia già letto un documento inviatogli la sera prima.

In pratica, non soltanto lo spazio di lavoro è divenuto altro rispetto a ciò cui eravamo abituati (con buona pace dei gatti e dei figli del prof. Kelly), ma lo stesso corpo del lavoratore si è, per così dire, smaterializzato. Il diritto ad essere il corpo che siamo (e, dunque, anche il diritto alla stanchezza) ha lasciato spazio ad una costante operatività che, di fatto, ci rende mere funzioni delle applicazioni che siamo chiamati ad utilizzare per lavorare a distanza.

È proprio la pervasività di tali trasformazioni a richiedere l’adozione di una rinnovata etica del lavoro. Va detto che, dal punto di vista normativo, le leggi non mancano. Per esempio, la Loi Travail dell’agosto 2016, in Francia, aveva stabilito per il lavoratore un diritto alla disconnessione. Con esiti analoghi si è mossa anche la legislazione italiana, con la legge sul lavoro agile 81/207 del maggio 2017 o più recentemente con il CCNL relativo al personale del comparto Istruzione e Ricerca 2016/2018, dell’aprile 2018.

L’esperienza di ciascuno di noi, tuttavia, tristemente segnala la difficoltà di tali riferimenti normativi ad essere accolti nelle pratiche quotidiane condivise, soprattutto nei rapporti lavorativi di tipo orizzontale, un ambiente ibrido in cui è pressoché impossibile discernere la dimensione professionale, soggetta alle leggi, da quella relazionale, per certi versi più anarchica. Per fare un esempio personale, è del tutto plausibile che, in un messaggio inviato di Capodanno, una collega, approfittando degli auguri, inserisca anche informazioni lavorative che avrebbero potuto tranquillamente essere condivise dopo la ripresa delle attività accademiche.

Di fronte alle trasformazioni delle dinamiche del lavoro in cui siamo immersi, scrollare le spalle, aspettando che esse svaniscano con l’auspicabile venir meno degli eventi avversi che le hanno generate, è controproducente. Ci sono, anzi, buone possibilità che proprio quelle dinamiche siano destinate a permanere, anche quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente superata.

Per questo, il gatto che, frapponendosi tra noi e la tastiera, reclama la nostra attenzione continua a ricordarci la nostra dimensione relazionale di cui forse dovremmo maggiormente essere gelosi custodi.

Umanità astratta e persona concreta

In Uncategorized on 28 October 2020 at 8:00 PM

Maurizio Carrara

Battle in Seattle – Nessuno li può fermare (Battle in Seattle) è il titolo di un film del 2007 di Stuart Townsend. Il film ci mostra gli avvenimenti del 1999 in occasione dell’Assemblea dei Paesi membri del WTO (Organizzazione per il commercio mondiale) che vuole liberalizzare il commercio globale. Il sindaco è intenzionato a favorire lo svolgimento pacifico della manifestazione di protesta, organizzata dagli attivisti no-global, con i quali ha concordato l’assenza di violenza. Lo vediamo dire loro: “Siate duri sulle questioni, ma gentili con la mia città”. E in effetti il portavoce dei giovani invita tutti alla non violenza.

Il regista intervalla i fatti con spezzoni di interviste ai manifestanti, mostrando le loro motivazioni (decisioni delle Autorità assunte senza un processo democratico, e l’esclusione dei temi dei Diritti Umani, dell’Ambiente e del Diritto alla Salute dei Paesi Poveri). Sullo schermo passano i cortei dei sindacati dei lavoratori che appoggiano la protesta. Intanto i 40.000 dimostranti bloccano l’ingresso al Convegno e le arterie principali della città. Il Sindaco a questo punto consente alla Polizia l’uso dei lacrimogeni per favorire l’ingresso dei Delegati, ma ordina di non arrestare nessuno.

Nonostante questo iniziano le rotture delle vetrine da parte di piccoli gruppi estremisti. La TV taglia le dichiarazioni dei contestatori, mentre il Governatore chiede il coprifuoco e lo stato di emergenza. Un manifestante scrive sull’asfalto, rivolto ai poliziotti pronti alla carica: “abbracciami”. Ma la polizia inizia a sparare proiettili di gomma e lancia lacrimogeni. Una donna incinta cerca di attraversare la città per rifugiarsi a casa, ma viene colpita da un poliziotto. Sarà ricoverata in ospedale e perderà il bambino.

I Media veicolano il messaggio della violenza dei manifestanti per giustificare gli attacchi della Polizia. Ignorato invece il messaggio di un Delegato di una ONG che reclama il Diritto alla Salute per i Paesi Poveri e denuncia il costo delle medicine. Negli scontri in corso una giornalista si chiede: “perché continuano a farsi massacrare per qualcosa che non otterranno? Il Potere vuole nascondere la verità”. La donna si schiera con la protesta e si imbavaglia per esprimere la sua condanna verso i Media, venendo così arrestata. Manifestanti e poliziotti si fronteggiano: uno di questi, il marito della donna incinta picchiata da un suo collega, insegue il portavoce dei giovani senza un motivo. Il giovane viene picchiato dagli agenti e arrestato. Quando l’agente che lo ha preso di mira va in carcere a chiedergli scusa, giustificandosi con il fatto di aver perso il figlio, il giovane risponde: “Le persone che combatto sono quelle che distruggono la vita di milioni di persone, e sono sempre innocenti. È insensato che io e te lottiamo fra di noi”.

A questo punto i sindacati minacciano lo sciopero generale, e i Paesi del terzo mondo si ritirano protestando contro la manipolazione delle loro ragioni, ritenendola una forma di colonialismo. Di fatto il negoziato fallisce e i prigionieri vengono rilasciati. Escono dal carcere con la sensazione di aver fatto un piccolo importante passo avanti verso la trasparenza dell’informazione (per la prima volta una protesta di massa è stata trasmessa in diretta su Internet).

Il film si chiude passando sullo schermo i fatti conseguenti la vicenda di Seattle: nel 2001 il WTO riconosce la priorità dell’accesso ai medicinali sugli interessi commerciali, e riconosce le necessità dei Paesi più poveri; nel frattempo si tiene a Davos, in Brasile, il World Social Forum, che inizia un processo permanente di ricerca di soluzioni alternative alle politiche neoliberiste. Nel 2003 ben 40.000 agricoltori indiani si suicidano per sfuggire ai debiti, mentre negli USA milioni di lavori vengono commissionati all’estero causando diminuzione dei salari e importazioni di cibi scadenti. Ultima scritta sullo schermo: La battaglia continua.

Il regista mette in luce non solo l’incapacità delle parti di comunicare realmente, dopo l’iniziale disponibilità a evitare violenze, ma viene reso evidente il preciso rifiuto delle Autorità di comprendere la protesta e le sue motivazioni. Si vuole stravincere, cancellando dalle strade chi chiede la possibilità di soluzioni intermedie che tengano conto degli interessi deboli (oltre a quelli forti). E questo è la conseguenza di una mentalità che conosce i concetti di Umanità, Popolo, Stato, ma non considera la Persona individuale concreta che è alla base dei concetti. La scena della moglie incinta del poliziotto, che senza colpa alcuna viene picchiata da un altro poliziotto, con la conseguenza di perdere il bambino che ha in grembo, ci rende l’immagine umana degli individui coinvolti e l’assurdità delle decisioni prese. Un’Umanità negata in concreto (oltretutto il giorno dopo, a freddo, il capo della polizia nega al collega un giorno di permesso per stare accanto alla moglie in ospedale). Queste scene ci colpiscono come un pugno: ci fanno visivamente capire che l’UMANITA’ di cui parliamo è troppo spesso un concetto astratto. Tutti ne parlano, ma l’estremista incappucciato irride la donna che aspetta il bambino, senza rispetto alcuno per donne e bambini. I Potenti, non solo ignorano volutamente i bisogni e le sofferenze di tanti uomini e donne che abitano il nostro stesso pianeta, con gli stessi nostri diritti, ma usano violenza gratuita contro ragazzi disarmati e li arrestano, senza rispetto della sacralità della persona.

Noi crediamo a chi parla di Umanità e Diritti Umani, ma spesso abbiamo dovuto renderci conto che per molti,  l’UMANO non comprende i neri, gli ebrei e i poveri e deboli di ogni luogo e genere. Invece l’Umanità è la somma di ogni singolo individuo. E allora è determinante ascoltare e prendersi cura di ognuno.

Il Filosofo, ma anche ognuno di noi, si ferma a guardare la realtà e si chiede cosa sta succedendo, vede i problemi, li esamina, immagina ipotesi di possibili soluzioni. Ma per fare questo, in una realtà complessa e sempre più intrecciata, con problemi nuovi sempre più urgenti, è più efficace unire i saperi di competenze diverse.  E come trasmettere agli altri l’allarme e le proposte?  Anche qui, da soli è difficile. Il cinema e la letteratura e ogni forma espressiva, possono aiutarci.  Nasce così la necessità di trovare modi di relazione e collegamenti perché la vista sia più profonda e la voce più forte. Lavorare insieme moltiplica l’efficacia delle competenze, permette di sviluppare una progressione geometrica di idee. Il lavoro di squadra è imposto dalle cose. Penso all’esempio delle missioni spaziali, dove gli astronauti parlano lingue diverse e hanno saperi scientifici diversi. Luca Parmitano, che ha comandato per mesi la Stazione Spaziale Internazionale, ha detto: ”Il mio ruolo è creare un ambiente aperto in cui si possa comunicare bene, in modo che tutti possano svolgere il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Richiede il controllo a terra, e il coordinamento con l’equipaggio a bordo”. I problemi che abbiamo sulla Terra sono sfide altrettanto impegnative. Negli ultimi anni sempre più economisti stanno cercando strade nuove, coltivando la speranza dello sviluppo conciliato con le necessità dell’ambiente e i bisogni degli uomini. Sono economisti, ma consapevoli che un sistema sociale di libertà effettive per ogni individuo è la premessa necessaria anche per la crescita economica equilibrata e piena. Se questa è l’urgenza e l’altezza della sfida, nessuno può ritenersi fuori e isolarsi. Occorre anzi trovare modi nuovi di comunicare in un dialogo vero, aperto, sapendo che nessuno ha in mente la ricetta perfetta. Il dialogo non è l’incontro di due cerchi chiusi come a Seattle, ma di due figure che lasciano le porte aperte per arricchirsi dei colori di ognuno, disponibili a lasciar cadere i grigi che ci portiamo dietro per abitudine e comodità. Ricordiamoci di Clinton e delle sue intenzioni di mediazione: che diventi l’approccio ordinario, ma da perseguire con tenacia e sincerità fin dall’inizio.

E nel dialogo è utile accompagnare le parole con immagini, disegni e metafore che colpiscono all’istante mente e cuore. Come fa questo film. E come fa una vignetta di Mafalda, la bambina contestatrice dei fumetti di Quino, il disegnatore argentino morto nei giorni scorsi. Nella vignetta la bambina ribelle dice: “è facile amare l’Umanità. Il difficile è amare l’uomo della porta accanto”.

Ma è proprio questa la sfida che abbiamo di fronte. Tutti insieme.

Seattle ha dato il via alla presa di consapevolezza di 2 problemi strettamente legati.

Prima questione, la democrazia. Decisioni strategiche sui fenomeni che cambiano il mondo e la vita di popoli interi, sono prese senza un processo effettivo di democrazia. Vero che i partecipanti all’Assemblea sono regolarmente Delegati dai Governi dei loro Paesi. Ma spesso sono deleghe “implicite” e silenziose, senza coinvolgimento non solo della Opinione Pubblica, ma nemmeno dei Parlamenti, senza un dibattito reale che dia consapevolezza delle cose ai cittadini.

Seconda questione, l’informazione. Il rischio di una informazione gestita dai Monopoli che uniscono Potere Politico e Economico, che silenzia le opinioni diverse e le voci di una minoranza critica, impedendo la circolazione delle Idee e delle opinioni alternative. Le immagini mostrano chiaramente l’uso distorto dei Media, completamente schierati con il Potere di cui rappresentano le ragioni, ignorando le opinioni diverse che anzi vengono messe in cattiva luce.

Malgrado tutto. Dialogo sulla festa

In Direttore, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 10 September 2017 at 7:19 PM

Giovanni Scarafile

 

 

 

Riccardo – Quest’anno, finalmente, proprio una bella estate, anzi un’estate fantastica.

Gianni – Sono contento. Dai, racconta

R. – Abbiamo girato un sacco. Ogni sera, un posto diverso. Alla ricerca delle cose migliori.

G. – Fammi un esempio, sono curioso

R. Le feste, non abbiamo voluto farci mancare nulla. Quell’atmosfera, l’aria frizzante, la gente allegra. E poi, le bancarelle. Non hai idea le bancarelle..

G. – Cioè?

R. – Ogni sera ce n’erano a perdita d’occhio. Di tutti i tipi. E tanta gente

G. – Ah, ecco, tanta gente..

R. – Sì, una meraviglia. Non c’era spazio per camminare, pensa

G. – Eh sì, una vera meraviglia..

R. – Ma è bello!, non essere il solito

G. – Il solito che?, scusa

R. – Il solito musone. Una sera avresti dovuto vedere la fila per il crostone di pane con crema ai fegatini! Poi, c’era uno stand con dei cosciotti di maiale con castagne che erano la fine del mondo.

G. – Insomma, avete passato un’intera serata a mangiare, spostandovi come anime in pena di stand in stand?

R. Beh, no.. C’era pure la musica. Bella. Allegra. Musica solare degli anni ’70.

G. Ah, ecco. Così in effetti cambia tutto.

Seduti ai tavolini di un bar di piazza S. Oronzo, a Lecce, in attesa che il cameriere si accorgesse di noi, io e Riccardo ci aggiornavamo sulle ultime novità. Niente avrebbe fatto credere che fosse la metà di settembre. Né il sole, né i turisti che continuavano a passarci davanti a frotte. Tutto simile all’estate appena trascorsa. Sembravamo immersi in un luogo senza tempo. Unica eccezione, l’abbronzatura di Riccardo. Uniforme, assoluta, insuperabile. La giudicai crudele nella sua perfezione. Mentre Riccardo si era alzato per intercettare il cameriere, non riuscii a non pensare a quanto mi aveva appena raccontato. Lo trovai bizzarro. Per quanto trascorrere un’intera serata in luoghi affollati, facendo a gomitate per mangiare qualcosa, non sia il mio ideale, non faccio fatica a riconoscere che in fondo è una questione di gusti. Tuttavia, anche questa considerazione mi lasciava insoddisfatto. Sentivo che qualcosa mi sfuggiva.

“Fatto!”, disse Riccardo, sedendosi. “Ho ordinato due bitter bianchi, così abbiamo pensato pure alla tua gastrite”.

G. – Bravo! Senti un po’, che altro avete fatto?

R. – Tante cose, difficili da ricordare… Anche se, la piscialetta è insuperabile.

G. – Cosa?!

R. – Sì, una sera abbiamo fatto il pieno..

G. – Ma di cosa? Non sto capendo..

R. – Della piscialetta, no?

G. E che sarebbe?

R. Ma dove vivi!! È una specie di focaccina che fanno qui, nel Salento

G. Mai sentita..

R. È perché non ti muovi mai, stai sempre chiuso in casa. La piscialetta è una cosa tradizionale, che abbina cultura e tradizione e soprattutto è buona, buonissima. Poi c’era pure la sagra del polipo e pure lì ci siamo fatti neri

G. Immagino..

Guardavo Riccardo con leggero sgomento. Quell’elenco univoco di situazioni goderecce, cifra di un’estate fantastica, mi facevano venire il dubbio che si trattasse di uno scherzo cui mi stavo prestando involontariamente. Possibile che non vi fosse null’altro da registrare come significativo di una bella estate? A costo di farmi del male, decisi di andare avanti con le domande. Prima o poi, sarebbe venuto fuori un dettaglio di altro genere.

G. – Dai, dimmi qualche altra cosa. Possibile che non abbiate trovato qualcosa di più poetico?

R. Pensandoci un po’ su. –  Beh, sì. La panissa.

G. Non ne ho mai sentito parlare. È un’antica abbazia?

R. Nooo, che vai a pensare?!! È un piatto della cucina piemontese a base di riso, fagioli e salame.

Smisi di ascoltare. Purtroppo, Riccardo non si stava prendendo gioco di me. Era sincero e niente avrebbe potuto scuoterlo dalle sue certezze. Distolsi per un attimo lo sguardo da lui, per guardare sulla mia sinistra l’anfiteatro romano dove un gruppo di ragazzi, forse studenti, cercava di mettersi in posa per una foto di gruppo. Fu così che mi tornò alla mente un libricino di Josef Pieper, dedicato al senso della festa. Tentando di recuperare i dettagli di quella lettura, tornai a guardare Riccardo, che intanto sorseggiava il suo aperitivo. Il cameriere si allontanava dal nostro tavolino, dopo aver posato gli aperitivi, ed io non mi ero accorto di niente. Ora guardavo Riccardo aprire la bocca e parlare –  forse della panissa –  ma io non lo sentivo. Non sentivo più alcun suono. Era il segnale che il mio organismo stava mandandomi che non avrei potuto tollerare oltre una ulteriore sequenza di insulsaggini.

G. – Sai, Ricca’, la cosa strana?

R. – No, qual è?

G. – Se ogni giorno è festa, non c’è più festa.

R. – Cioè? Che vuoi dire?

G. – Voglio dire che la festa ha un senso se è l’eccezione rispetto ad un quotidiano vissuto come ferialità, come tempo del lavoro. In questa prospettiva, la festa è l’altro rispetto al lavoro. Insomma, la festa, per essere autenticamente tale, deve essere alternativa al lavoro, ma in qualche modo lo implica. Non può eliminarlo del tutto. Se ciò avvenisse, verrebbe meno il senso stesso della festa.

R. – Vabbè, ma io ero in ferie.

G. – Sì, d’accordo. Ma non sto parlando proprio di te. Sto facendo un ragionamento in generale.

R. – No, dai, non cominciare a fare discorsi complicati. Godiamoci ‘st’aperitivo in santa pace..

G. – è che mi pare esistere un modo per godersi veramente la festa più vero rispetto ad altri, tutto qua.

R. – Se è così, la cosa mi interessa.

Josef Pieper

G. – Beh, proprio la constatazione – come in fondo tu hai potuto verificare quest’estate – che ogni giorno c’è una festa rischia di farci perdere di vista il senso della festa e questo è un bel problema.

R. – Francamente, non vedo dove sia il problema.

G. – Il senso della festa non si esaurisce nel godimento di ciò che viene festeggiato. Quel senso, se inteso in modo corretto, conduce al di là della festa.

R. – Già, ma se conduce al di là della festa, come dici tu, significa che la festa è finita?

G. – Ma no. Significa che la festa può farci vedere, può farci considerare delle cose che altrimenti non avremmo visto. Per fare questo, però, la festa non può essere qualcosa di totalizzante ed onnicomprensivo.

R. – Scusa, ma che cacchio significa totalizzante e onnicomprensivo?

G. – In parole povere, significa che ci sono degli argomenti che possono essere colti veramente se si apre lo sguardo, se si prova a guardare oltre. È una cosa che scrive Josef Pieper in un libro che dovresti leggere.

R. – No, per carità. Mi vedi a leggere un libro di filosofia?

G. – In effetti, non ti vedo. Ma forse potrebbe essere utile

R. – Io invece credo di no. Insomma, che cosa c’entra la filosofia con la festa? Possibile che i filosofi si debbano mettere in mezzo a tutto? È tanto difficile ammettere che ci sono tanti tipi di feste e che ognuno è libero di scegliersi la festa che vuole tutte le volte che vuole? Che c’è di male?

G. – Quello che tu dici non è sganciato da una concezione più generale, ma anzi la esprime.  L’idea secondo cui esistono diverse scelte dotate di uguale valore è una idea vecchiotta. Proprio mentre pensi di agire, rivendicando con orgoglio la distanza da qualsiasi atteggiamento riflessivo, ci sei invischiato dentro. Con la differenza, che non lo sai.

R. –   Sarà come dici tu, ma io mi trovo benissimo.

G. – Non sei l’unico. È una cosa che riguarda la gran parte delle persone.

R. – E quindi, qual è il problema?

G. – Ricca’, tu sostieni una cosa chiamata “relativismo”.

R. – è grave?

G.  – Il problema del relativismo è che, mentre sostiene che tutte le scelte e tutte le opzioni teoriche hanno uguale valore, deve, per poter esistere ed essere considerato valido, fondarsi sull’idea che almeno una di queste opzioni, la sua, sia più valida delle altre. Se ciò non fosse, dal punto di vista logico, l’intero castello crollerebbe.

R. – Non ci ho capito nulla..

G. – Non è complicato: per poter sostenere che tutte le cose hanno uguale valore, il relativismo ha bisogno che almeno una di queste cose non sia equivalente alle altre, non abbia cioè lo stesso valore delle altre..

R. – .. si trovi su un gradino più alto, diciamo.

G. – Esatto, bravo! Questa cosa che deve trovarsi su un gradino più alto, cioè che deve valere più delle altre è il relativismo stesso. Mentre afferma che tutto ha uguale valore, il relativismo nega che tutto ha uguale valore. Capito ora?

R. – Mi sembra di sì. Ma da questo cosa deriva?

G. – Deriva una cosa semplice: che puoi continuare quanto vuoi a credere che ciò che pensi sia vero, solo che stai credendo ad una cosa senza fondamento.

R. – Cazzarola.. A questo non avevo mai pensato.. Ma come siamo arrivati qua? A proposito di che cosa?

G. – Siamo arrivati qua perché ci stavamo chiedendo se tutte le feste si equivalgano ed io ti stavo parlando di un libretto che ho letto qualche tempo fa.

R. – Beh, e che dice questo libretto?

G. – Pieper, l’autore del libretto, spiega che la festa è un modo per raggiungere l’autenticità.

R. – Ah, sì, la vita autentica, come il libro di quel teologo, come si chiama..

G. – Mancuso

R. – Ecco sì, Mancuso. Me l’hanno regalato, ma non l’ho letto.

G. – Mancuso dice che anche la condizione sociale, le stesse relazioni possono diventare luoghi dell’inautenticità quando sono la casa della menzogna. Vivere nella menzogna può essere qualche volta comodo, poi però arriva un momento nella vita in cui ti guardi indietro e, nonostante tutti gli eventuali successi che puoi aver raggiunto, ti accorgi che non rimane niente di vero. Quando sei arrivato al punto in cui la menzogna è tutta la tua vita, allora..

R. – Allora, è proprio un casino.. Ho fatto bene a non leggere ’sto libro, che tristezza, Madonna santa!

G. – Non è che il libro sia triste è che fa un’analisi di alcune situazioni..

R. – No, no, parlami di questo libretto che hai letto tu che parla della festa.

G. – Ah, sì, ecco, secondo Pieper nella vita si può vedere più o meno bene, più o meno profondamente nelle cose. Vedere di più o vedere di meno non sono la stessa cosa, no?

R. – Beh, sì, c’è una bella differenza.

G. – Questa capacità di vedere meglio le cose, non è soltanto una capacità dell’intelletto. C’è dentro anche una disponibilità a cercare un accordo, chiamalo sentimento, con quello che vedi. É un concetto di cui aveva scritto anche Teilhard de Chardin “essere di più è unirsi di più … la unità cresce solo se è sorretta da un accrescimento di coscienza”. Insomma, nelle cose che ci stanno di fronte è possibile cogliere un valore aggiunto.

R. – Quindi, se ho capito, parlare di valore aggiunto è come dire che non tutte le vie si equivalgono e che c’è una via più umana rispetto alle altre?

G. – Sì, è così, bravo! A questo aggiungi, che, secondo Pieper, questa via è raggiungibile partendo dalla festa.

R. – Non ho capito però dove si arriva seguendo questa via.

G. – Se ci si allena a distogliere lo sguardo dalle cose mutevoli per cercare ciò che resiste ad ogni mutamento, ciò che i filosofi chiamano l’essenza delle cose, allora si è acquisita una disponibilità alla contemplazione.

R. – Contemplazione?!! Ma allora è una cosa da preti!

G. – Senti, mi sono scocciato. Basta, non parliamone più. Qualsiasi cosa ti dica, mi sembra che ti rimbalzi sopra.

R. – Eeeehh, come siamo suscettibili! No, veramente, mi interessa. Qual è il senso del discorso di Pieper?

G. – Secondo questo filosofo, è possibile festeggiare in senso autentico non partendo dal motivo di una festa. Il motivo è sì importante, ma non è la cosa più importante.

R. – E qual è la cosa più importante?

G. – La cosa più importante è raggiungere, tramite ciò che prima chiamavamo contemplazione, un consenso con il mondo. Lui dice un “consenso universale, che si estende al mondo intero, alla realtà delle cose e alla stessa esistenza umana”.

R. – Senti Gia’, non è per prenderti in giro, ma a parte il fatto che ho parecchi dubbi su questa cosa della contemplazione, non vedo come si possa concordare con questa teoria. Insomma, ammesso e non concesso che si riesca attraverso la contemplazione a vedere il senso di tutte le cose, tu veramente credi che si possa essere d’accordo con il senso, cioè che si possa gioire con il senso delle cose?

G. – Spiegati meglio, per favore.

R. – Ma, dico, siamo matti?! A me sembra che la realtà sia in generale negativa. Come si può pensare, ragionando seriamente, di potersi accordare con la realtà? Di gioire con la realtà nella realtà? C’è forse bisogno di fare un elenco delle cose che non vanno in questo mondo?

G. – In effetti, di questo parla Pieper quando dice “celebrare una festa significa: celebrare per un motivo speciale e in modo inusuale l’approvazione del mondo già data da sempre”.

R. – Senti, questa teoria non è credibile, razionalmente parlando.

G. – Effettivamente, c’è un elemento di fiducia, di affidamento verso la bontà del senso del mondo. Per vedere, per sentire questa fiducia, bisogna allenare lo sguardo e questo lo si può fare solo se si recupera il senso autentico della festa.

R. –  Io penso invece che siccome il mondo non va, in senso generale, si deve ogni tanto allontanarsi da questo mondo, prendersi una pausa. È questo il senso vero della festa.

G. – Io penso che ci sia da fare i conti con una sensibilità sismografica.

R. – E che sarebbe?

G. – Mah, è un po’ quello che ti dicevo agli inizi. Ci sono delle cose che possono essere viste integralmente se si guarda più lontano rispetto alle cose stesse. La festa è una di queste cose. Se non si acquisisce uno sguardo diverso sulla realtà, è difficile raccapezzarsi. Solo così la festa è festa, malgrado tutto.

R. – Sì, vabbè, lo sguardo diverso, la sensibilità sismografica. Mah… Forse hai ragione tu, non so. A me sembrano solo teorie, complicazioni inutili. E poi, diciamocela tutta, vuoi mettere ’sto Pieper con la sagra della municeddha?!

 

[Questo testo è l’editoriale del numero di YM Della Festa]

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L’invenzione dell’identità

In Uncategorized on 1 September 2017 at 10:44 PM

Roberto Mordacci

L’immagine mente. Lo sappiamo. Eppure non mente: lì, su quella lastra neutra c’è Magritte, ritratto da Duane Michals. Il titolo originale dice Magritte in his garden, double exposed.

Dunque è Magritte. È ritratto nel suo stile: un uomo con la bombetta, un’ambientazione surreale, un’immagine che potrebbe essere qualcos’altro. Per questo ho aggiunto Ceci n’est pas Magritte: è perfettamente coerente con la foto, con il personaggio, con l’acuta interpretazione di Michals.

Ma costui non è Magritte: è il suo personaggio, la sua icona, la sua contraddizione. Non è, non può essere l’uomo Magritte: è la sua arte, il suo messaggio, la sua proiezione. L’uomo Magritte sarà altra cosa, non può ridursi ad una parte della sua produzione artistica, avrà altri volti, altre contraddizioni, sarà umano, insomma.

E invece quell’uomo è Magritte, proprio lui: molti di noi lo conoscono quasi solo per alcune delle intensissime e famose foto che Duane Michals gli ha scattato.

Non conosceremmo il suo volto altrimenti, non sapremmo attribuirgli un’identità precisa, il nome Magritte ci suonerebbe astratto e ambiguo. Quell’immagine, invece, è scultorea nella sua chiarezza, è precisamente l’essenza di Magritte, o meglio quello che per molti di noi è essenzialmente Magritte, anche a prescindere da altre immagini. E anche a prescindere da quant’altro Magritte sia e sia stato nella sua vita.

Se mi chiedete «chi è Magritte?», io potrei rispondere così: con un suo quadro e questa immagine. Non avreste bisogno d’altro per sapere tutto su di lui, o meglio quel che tutti sanno di Magritte. Può darsi, come amano rivelarci i critici d’arte, che ci sia anche «un altro Magritte», per esempio quello poco noto del periodo «vache», ma ciò che per noi è e resterà sempre Magritte è questo: l’uomo surrealista, l’immagine impersonale e inconfondibile della bombetta, lo spiazzamento prodotto da ogni sua opera.

Così facendo facciamo torto all’uomo Magritte? Certamente. Ma questa è la sua identità. Certo, è l’«identità sociale», ma per quanto ci riguarda è quasi tutto ciò che ne sappiamo. Dei segreti di Magritte non sapremo mai nulla. Eppure per noi lui non è un signor nessuno. È Magritte, accidenti: una grande personalità, una grande identità personale. Anche se la sua «vera» identità (posto che esista), il suo nucleo profondo resta per noi insondabile.

L’identità è precisamente questo mistero, questa insondabilità che il ritratto fotografico, anziché svelare, infittisce. Ritrarre una persona, o addirittura se stessi, con una macchina fotografica parrebbe il modo più diretto di rappresentarne l’identità, senza deformazioni. Ma tutti sappiamo quanto impersonali siano, alla fine, le foto tessera delle carte d’identità e purtroppo nemmeno un grande fotografo riuscirà mai a dirci «chi siamo veramente». Questa ricerca, questa pretesa di conoscerci e di rispondere, finalmente, all’oracolo di Delfi grazie il mezzo fotografico non ci conduce da nessuna parte: la fotografia non è in grado di portarci più oltre di qualsiasi altro mezzo. Solo un pazzo potrebbe credere di specchiarsi in una fotografia. E per altro, anche gli specchi mentono.

Questo non dipende solo dal fatto che, come è noto, la fotografia non è affatto un mezzo «neutro», una semplice riproduzione del reale priva di pre- interpretazioni e pre-giudizi. Che sia così è addirittura ovvio e semplicemente bisogna diffidare di coloro che presentano le loro fotografie come mere immagini di fatti o persone. Non c’è sguardo senza interpretazione e questo vale a maggior ragione per lo sguardo fotografico.

Vi è una fondamentale ambiguità nell’uso del mezzo fotografico per definire o rappresentare un’identità: la pretesa ovvia di rispecchiare l’altro nella sua individualità essenziale (il ritratto), di rappresentare se stessi senza infingimenti né veli (l’autoritratto) o di documentare eventi storici e culture lontane (l’attività di reportage) non può essere presa ingenuamente sul serio. Ognuno ormai sa che, come e più che la pittura o la scultura, la fotografia occulta mentre mostra, distorce mentre riflette, oscura mentre illumina. La scelta delle luci, del taglio e della situazione medesima definisce il contenuto dell’immagine almeno quanto l’oggetto stesso; di molte immagini fotografiche si può dire che sono stranamente «sfocate» anche quando sono tecnicamente perfette: esse non rendono giustizia a ciò che raffigurano, lo nascondono dietro a un velo invisibile che, a volte, solo l’autore conosce. Molti fotografi testimoniano nella loro ricerca lo sforzo di superare questo diaframma, di rendere al meglio e con onestà l’oggetto, pur nella consapevolezza del limite del proprio sguardo. Ma sarebbero disonesti se non riconoscessero che proprio il loro sforzo è il segno inequivocabile dell’insuperabilità di quel diaframma fra la realtà e l’inquadratura, fra l’individuo e il suo ritratto, fra l’evento e il suo documento.

In molti casi è tanto meglio, allora, saltare a piè pari oltre questa ambiguità, e proporre direttamente, esplicitamente un’interpretazione o addirittura, come fa Duane Michals, un concetto, un messaggio, una trama: nessun intento documentale, piuttosto l’intenzione di parlare, di dire ciò che le immagini e la realtà stessa non dicono. Anche per questo, forse, le foto di Michals sono spesso accompagnate dalle parole, foss’anche solo il titolo.

[Continua a leggere, sostenendo YM]

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Stay ridicolous!

In Uncategorized on 3 May 2017 at 7:01 AM

Giovanni Scarafile

Ricordate le parole “Stay hungry, stay foolish” con cui Steve Jobs, nel 2005, invitava i giovani laureati dell’Università di Standford a non rinunciare ai propri sogni?

Si potrebbe forse aggiungere uno “Stay ridiculous” a quell’autorevole esortazione.

Qualche giorno fa, ho avuto modo di parlare con Fabio, il figlio diciassettenne di un caro amico, il quale, quando è “in crisi”, viene a chiedere consigli “al vecchio filosofo con la barba bianca”, come lui scherzosamente (mica tanto) dice. Fabio mi raccontava che un mesetto addietro, ha finalmente trovato il coraggio di comunicare il suo amore a Chiara, sua compagna di banco. A dire il vero, i due ragazzi non sembrano particolarmente compatibili. Chiara è considerata dai coetanei una tipa “tosta”, ha i capelli rasati a metà e per addormentarsi ascolta i Black Sabbath; Fabio è un tipo mingherlino, piuttosto timido e quando si gioca a calcetto viene messo in porta.

Nonostante ogni ragionevole previsione, la ragazzina è rimasta folgorata da una particolare espressione pronunciata dal ragazzo che, all’apice della sua ispirazione amorosa, pare le abbia detto “Sei il mio fiorellino”.

Ascoltate quelle parole, la ragazza non solo non ha picchiato Fabio (come lui si aspettava), ma si è sciolta in inaspettate lacrime e ha confessato che anche lei provava qualcosa per lui. Il giorno dopo e per le successive settimane, memore del miracoloso effetto delle sue parole, ad ogni incontro con la nuova fidanzatina, Fabio ha pronunciato la formula magica “Sei il mio fiorellino”. Infine, qualche giorno fa, Chiara ha chiaramente detto che lei odia i fiori, manifestando così la sua insofferenza per quella ostinata botanica identificazione e gli ha intimato di sparire. “Perché quelle parole non hanno funzionato più, se io le ho ripetute sempre nello stesso modo?”, mi chiedeva ora Fabio, con sguardo supplichevole.

L’episodio di Fabio e Chiara permette di accennare proprio al valore del ridicolo. Sia in ambito lavorativo che privato, la nostra esperienza ci ha insegnato che, a volte, le nostre comunicazioni risultano particolarmente efficaci. Ce ne rendiamo conto perché il nostro interlocutore sembra effettivamente toccato dai nostri argomenti e la comunicazione non diventa una inutile contesa per difendere le proprie ragioni. È vero, non succede sempre. Ma succede.

Questo stesso risultato è stato raggiunto da Fabio nel momento in cui ha osato sfidare il ridicolo, esprimendo i suoi sentimenti, cioè la sua individualità essenziale, ciò che lui intimamente è. Se si fosse attenuto alle regole codificate nel contesto (la scuola) o se avesse fatto eccessivo riferimento alle sue previsioni sul carattere di Chiara non si sarebbe mai azzardato a pronunciare la frase “Sei il mio fiorellino!”.

Ora, il punto è che quelle parole, per quanto ingenue, condividono un destino comune con le forme del comunicare, a volte così rarefatte, che noi utilizziamo quando lavoriamo. È possibile dire qualcosa in più di tale dinamica? Come funzionano le parole, in genere? E come dovrebbe essere costituita una parola in grado di toccare l’altro? Per farla breve, va detto che all’inizio, quando una espressione comunicativa nasce, essa è massimamente originale e, come tale, comunica in modo estremamente efficace. Con l’andar del tempo, quella stessa espressione perde gradualmente la sua efficacia, soprattutto se essa viene reiterata con la segreta speranza che funzioni come la prima volta.

Per quanto riguarda il ruolo del ridicolo, è senz’altro vero che, secondo il senso comune, essere ridicoli non è propriamente un complimento. Infatti, è solitamente ritenuto ridicolo chi è buffo, chi agisce come una specie di pagliaccio e, soprattutto, in un ambiente lavorativo un tale comportamento è da evitare come la peste.

Sul luogo di lavoro, infatti, è bene mostrarsi coerenti con le indicazioni ricevute dai superiori, efficienti nel perseguire i risultati richiesti, in linea con le convenzioni adottate. Sono proprio le convenzioni – direbbero i sostenitori dell’ortodossia – a garantire il più rapido raggiungimento di un obiettivo in quanto procedure standardizzate. È difficile negare una tale evidenza.

Mircea Eliade

Eppure, l’episodio di Fabio e Chiara mostra anche un’altra via. Nello specifico, mostra che è quando si ha il coraggio di essere ridicoli, cioè di sfidare le convenzioni quando esse sono ritenute non più in grado di veicolare ciò che siamo, che possiamo comunicare con tutto noi stessi. Essere ridicoli è, dunque, una condizione per essere efficaci nella comunicazione. Questa capacità va accompagnata dall’avvertimento che non per il fatto di essere stati in grado di individuare forme efficaci di comunicazione, si deve ritenere che esse permangano nella loro validità a tempo indeterminato. Ritenere che una forma comunicativa rimanga sempre valida significa invece condannarla alla stereotipia, cioè alla insignificanza. È stato questo l’errore di Fabio al quale, tuttavia, siamo grati perché ci ha segnalato che, per comunicare efficacemente, occorre avere il coraggio di sembrare un po’ ridicoli.

Non sappiamo come la storia d’amore tra questi due ragazzi evolverà, ma sappiamo che difficilmente Chiara dimenticherà la faccia tosta di un ragazzino timido le cui parole l’hanno toccata nell’animo stesso. E noi, saremmo in grado di sfidare le convenzioni in cui talvolta ci adagiamo?

Per incoraggiare i più timidi fra noi, vengono in soccorso le parole di Mircea Eliade: «Il ridicolo solo merita di essere imitato. Perché è solamente imitandolo che si imita la vita».