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La vita desta. Un antidoto per l’insignificanza.

In Filosofia on 17 February 2014 at 2:11 PM

copertina gianni

1. La catena delle azioni. Ieri ed oggi.  Quasi sempre si agisce in vista di qualcosa. Avviene nella maggior parte dei casi. È vero che, a volte, si agisce “a casaccio” o in preda ad un impulso che non può essere frenato. In linea di massima, però, si tratta di un’eccezione. In genere, dunque, si agisce per raggiungere un obiettivo e questo fa in modo che ogni nostra azione sia concatenata a quella successiva. Di azione in azione ci avviciniamo alla meta del nostro agire. Le azioni sono così legate al fine che intendono perseguire. Il fatto di non agire a casaccio, ma sempre in vista di qualcosa, è un valore. Quando la connessione tra azioni e fini realizza ciò che appartiene alla “natura essenziale” del soggetto, allora si consegue il bene. È questo il livello in cui la meccanica dell’agire, ovvero il discorso sulla concatenazione delle azioni, incontra la classica domanda “che cosa è il bene?”.

La tradizione occidentale, in larga parte, ha risentito dell’influsso della cultura aristotelica. Per il filosofo greco, vissuto nel IV secolo a. C., infatti, ogni cosa ha un suo proprio ambito di riferimento cui non si può sottrarre, se non contravvenendo alla natura. Questa concezione può essere ritrovata in molte contrade della nostra cultura. Ulisse, che sprona i suoi marinai a varcare le colonne d’Ercole e quindi a superare i limiti imposti all’umano, viene non a caso collocato da Dante nell’Inferno. Egli ha osato sfidare la finitudine costitutiva di ciascuno di noi. All’interno di un orizzonte concettuale in cui è bene che ogni cosa abbia il suo ambito di riferimento al quale non deve sottrarsi, Aristotele scriveva: «a ragione si è affermato che il bene è “ciò cui ogni cosa tende”» (Aristotele 1998: 51). Bisognerebbe introdurre una serie di specificazioni, per accompagnare nel modo dovuto la frase precedente. Infatti, agire in vista di qualcosa non è un bene sempre e comunque. Per esempio, l’azione di un killer è esattamente finalizzata ad un fine, ma non per questo essa può essere definita “buona”. Per il killer, dunque, il fine è intenzionato come un bene, senza tuttavia esserlo. La correlazione tra azioni e fini è dunque un bene quando si sia d’accordo su cosa il bene è. L’accordo sul bene: sperimentiamo oggi una qualche forma di condivisione dell’idea del bene che ci consenta di applicare lo schema aristotelico senza ulteriori specificazioni? Sembra proprio di no. Anzi, la situazione contemporanea è caratterizzata dal fatto che più idee del bene confliggano tra loro. Se l’interrelazione tra azioni e fini era considerata un bene nel mondo aristotelico, il fatto di vivere in un mondo profondamente diverso comporta la necessità di rivedere quella attribuzione di valore. È questo il senso della sfida lanciata da Kundera quando parla di insignificanza. Ad un primo livello, dunque, la possibilità di un allentamento della catena azioni-scopi, ovvero di ciò che appare incontrovertibile, ha per lo meno il merito di sollecitare una riflessione sulla natura del bene.

2. Rarefazioni, fascinazioni, fondamenti. La forma rarefatta ed allusiva, adottata da Kundera nel libro La festa dell’insignificanza, non è esente da rischi dai quali una forma saggistica con una logica più stringente avrebbe probabilmente messo al riparo. Il problema risiede nel fatto che quando i fili della logica si allentano, allora i legami di senso si moltiplicano, ma non è detto che essi siano fondati. Nello specifico, per “fondati” intendo che possano essere appropriatamente riferibili all’umano. L’allusività è affascinante ed irrinunciabile. Tuttavia, per essa potrebbero essere mutuate le parole di Omero, riferite alle Sirene: «Alle Sirene giungerai da prima, / Che affascinan chiunque i lidi loro / Con la sua prora veleggiando tocca» (Odissea XII, 52-54). Il fascino e la rarefazione di per sé non sono sufficienti perché non vi sono garanzie di ragionare fondatamente. Ragionare di insignificanza, dunque, partendo dallo scritto di Kundera, richiede la messa a punto di un antidoto quale sua stessa condizione di possibilità. Non un rimedio contro l’insignificanza, ma una serie di coordinate all’interno delle quali quel discorrere di insignificanza possa essere significante, cioè riferirsi a qualcosa di almeno possibile.

3. Allontanarsi dal centro. Una delle vie che l’allentamento del legame tra azioni e fini può prendere è quella del male. Anzi, direi che si tratta della via eminente. Proprio mentre il soggetto sceglie, sulle ali della libertà (e della più radicale fra le libertà, quella dalla sua stessa condizione), una via diversa rispetto a quella cui sembra destinato, egli può incorrere nel male morale. Il male morale si ottiene quando ognuno di noi agisce al di sotto delle sue capacità originarie. Il male morale corrisponde dunque a quella differenza tra l’agire secondo le proprie possibilità e l’agire in misura inferiore rispetto a quelle stesse possibilità. Sotto l’azione del male morale, si diventa ostaggio della forza centrifuga del «de-vèrtere», del distogliere, che ci allontana dal nostro centro[i]. Il soggetto si disconnette dalle condizioni entro cui può legittimamente agire ed in tal modo diviene “solutus a lege”, irrelato, sganciato da qualsiasi riferimento normativo o riconduzione relazionale. Male morale, dunque. Tuttavia, in determinate circostanze, quel male già di per sé non indifferente può mutare. Esso diviene del tutto insostenibile ed intollerabile. In una parola, male incommensurabile, ciò che, per sua natura, si sottrae ad ogni possibilità di prensione. In genere, l’apologetica cristiana tende a sostenere che il male è simile alle ombre. Senza di esse, infatti, non sarebbe possibile vedere la luce. Detto in altri termini, il male è senz’altro spiacevole, ma è funzionale al miglior raggiungimento del bene. Io credo che questo schema sia applicabile al male commensurabile, ma del tutto inadeguato a gestire il male incommensurabile, che come tale rappresenta una sfida per il pensare.  Non a caso, Ricoeur ha scritto: «Il male è il punto critico di ogni pensiero filosofico: se lo comprende è il suo più grande successo; ma il male compreso non è più il male, ha cessato di essere assurdo, scandaloso, senza diritto e senza ragione. Se non lo comprende, allora la filosofia non è più filosofia, se almeno la filosofia deve tutto comprendere ed ergersi a sistema, senza residui» (Ricoeur 1996: 9)[ii].

4. La vita desta. La filosofia ha messo a punto numerosi percorsi per rendere ragione del male. Essi sono in qualche modo racchiusi nelle teodicee di cui Leibniz fu il primo e più raffinato artefice. L’allentamento tra azioni e fini, ciò che in una parola chiamiamo ‘insignificanza’, consegna dunque uno scenario accattivante per le sue possibilità, ma anche vertiginoso per i rischi cui espone. Da una parte, la possibilità di rimeditare l’umano; dall’altra, il baratro della distruzione e dell’annichilamento. L’elemento ultimo cui demandare il discernimento tra le due opzioni non ha la plastica robustezza che spereremmo di incontrare di fronte a scelte così fondamentali. Ciò che può fornire un orientamento ha invece la struttura esile della “vita desta”[iii] con cui indichiamo la barriera che può porre un argine alla barbarie. Essa è insieme la soluzione e l’ideale regolativo, la meta verso cui tendere senza sosta. La vita desta si attiva quando siamo pronti a tramutare l’immediatezza del nostro rapporto con il mondo in un qualcosa di più mediato. Dalla immediatezza alla mediatezza cioè alla riflessione.

Dall’immanenza fusionale (l’essere a tal punto immersi in quanto facciamo da non riuscire più a distinguere tra noi stessi, il mondo e gli altri) alla coscienza critica. È poco? È molto? Mi sembra che nella confusione generale riguardo le idee fondamentali che dovrebbero fungere da coordinate del nostro pensare ed agire, l’essere pervenuti alla evidenza di una tale richiesta sia senz’altro un risultato apprezzabile.

Riferimento bibliografici

Aristotele. 1998. Etica nicomachea. Milano: Rusconi.

Husserl, E. 2002. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Milano: Net.

Leibniz, G.W. 1994. Saggi di teodicea. Cinisello Balsamo (Milano): Edizioni San Paolo.

Rella, F. 2001. Il silenzio e le parole. Milano: Feltrinelli.

Ricoeur, P. 1996. Kierkegaard. La filosofia e l’«eccezione». Brescia: Morcelliana.

Scarafile, G. 2007. In lotta con il drago. Male e individuo nella teodicea di G.W. Leibniz. Lecce: Milella.

 Giovanni Scarafile


[i] Qui ritorna, con insistenza, la domanda: chi è titolato a definire cosa sia il centro del soggetto?

[ii] Ha significativamente scritto in proposito Rella (2001: 211): «molto su di noi e sul nostro destino possono dire i concetti, ma i concetti non esauriscono la ragione, il pensiero, e nemmeno l’esperienza della realtà. Accanto alla verità del filosofo o dello scienziato rimane sempre la verità della mia esperienza individuale, di molte infinite esperienze individuali. Soltanto un pensiero che si muova attraverso concetti e figure può proporci la forma in cui queste due esperienze si diano come una esperienza complessa del mondo: una forma in cui l’inesprimibile della differenza possa finalmente rendersi visibile».

[iii] L’espressione “vita desta” ricorre negli scritti di Edmund Husserl, per esempio nel §38 di (Husserl 2002: 171). Nel mio scritto viene assunto in senso lato come cifra di un’avviata coscienza critica.

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Giovanni Scarafile, Direttore scientifico di Yod Magazine, è professore aggregato di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento.

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