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Conflitti sociali e conflitti interiori in Achebe e Stevenson

In Uncategorized on 8 March 2015 at 6:30 PM

Silvia Potì

In questo saggio intendo analizzare il tema del conflitto con lo straniero attraverso due storie: La spiaggia di Falesà (1892) di Robert Louis Stevenson e La freccia di Dio (1964), di Chinua Achebe. Occorre dunque avere in mano una mappa su cui saranno cerchiate due zone, la Polinesia e la Nigeria, descritte all’epoca della colonizzazione britannica, in particolare tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando alla fiducia nel progresso e alle scoperte scientifiche si accompagnarono l’invasione di “spazi franchi” e numerosi conflitti culturali e sociali.

L’esplorazione delle narrazioni appartenenti ad autori così estranei tra loro, vissuti in epoche successive (Stevenson nella seconda metà dell’Ottocento, Achebe durante il Novecento e gli inizi del nostro secolo), ma accomunati da uno stesso interesse tematico, permetterà di ampliare il ventaglio dei punti di vista sul conflitto, in un gioco caleidoscopico che renderà sfumata la distinzione tra scontro sociale e conflitto interiore. Per poter connettere questi due aspetti è necessario chiamare in causa una figura ambigua e portatrice di una densità di significati come quella dello straniero. Personaggio letterario, proiezione culturale, condizione esistenziale, lo straniero è stato variamente rappresentato in letteratura e nelle arti, attingendo dalle rappresentazioni sociali e nello stesso tempo sovvertendone i canoni ideologici. Nei romanzi di Achebe e Stevenson lo straniero è l’uomo bianco colonizzatore, di cui viene proposta un’immagine rovesciata rispetto a quella tradizionale: l’inglese che arriva in Polinesia o in Africa non è né il buon samaritano, valoroso avventuriero, desideroso di evasione e di scenari esotici, né il razionale homo economicus che porta progresso in società dominate dalla corruzione e dalla pigrizia, intrise di ignoranza e irrazionalità superstiziosa.

Stevenson trascorse gli ultimi anni della sua vita nelle isole del Pacifico, essendo soprannominato affettuosamente dagli abitanti del posto “Tusitala”, il narratore di storie; racconti che lo scrittore raccontava e ascoltava dalle popolazioni locali. Il suo sguardo critico verso la letteratura moralistica borghese di epoca vittoriana e la passione per l’avventura, la psicologia, i miti e l’epica resero i suoi racconti l’incarnazione dei daydreams dei lettori e di “mondi possibili”, ricchi scenari magici e incantati, attraverso cui lo scrittore faceva sopravvivere la tradizione orale delle popolazioni che incontrava. Achebe, dal canto suo, considerato “Africa’s greatest storyteller” dall’Economist (2013), scomparso nel 2013, propone nelle sue opere, dal punto di vista di un africano, il periodo della colonizzazione britannica e la conquista dell’indipendenza della Nigeria, ottenuta nel 1960. In alcuni casi le sue opere narrative, con la tecnica della doppia focalizzazione, raccontano la storia anche dal punto di vista del conquistatore. Le prospettive si moltiplicano, l’immagine acquista profondità attraverso la pagina: il lettore è chiamato a scegliere quale punto di vista adottare e spesso ne esce disorientato.

Con stile di scrittura che appare per entrambi cristallino e geometrico, Achebe e Stevenson non solo rovesciano la prospettiva con cui tradizionalmente si rappresentano i buoni e i cattivi, gli stranieri e gli abitanti del luogo, i selvaggi e i civilizzati (rovesciamento compiuto già da Voltaire quando sosteneva che i selvaggi erano in realtà gli europei), ma ci fanno attraversare con i loro personaggi una zona d’ombra e di contaminazione che ci lascia senza fiato.

La confusione evocata dalla lettura è connessa ad un interrogativo: quali sono gli attori sociali del conflitto?

Aprendosi al lato ambiguo della realtà, lo scontro non diviene più una lotta tra due contendenti ben definiti, come tra due insiemi geometrici distinti su uno stesso piano, ma acquista i tratti di un conflitto tra più dimensioni. Gli autori suggeriscono con le loro opere di guardare, infatti, le intersezioni, gli incontri possibili quando nell’altro, il nemico, riconosciamo parti di noi. Si tratta di una scoperta che genera spesso in chi la vive conflitti interiori, confusione, turbamento. Sigmund Freud utilizzò il termine tedesco unheimliche, perturbante, per indicare lo sconvolgimento e l’esitazione della coscienza quando siamo di fronte a qualcosa che pur essendo estraneo presenta i caratteri del familiare. Questa dimensione opaca attinge all’inconscio e a sacche profonde del nostro rapporto col mondo, fa traballare gli stereotipi, anche i più saldi, sorprende e svela un lato della realtà che rende meno netta la distinzione tra “amici” e “nemici”, tra tradizione e innovazione, tra cultura di appartenenza e nuovi valori.

In questa dialettica la figura dello straniero interviene come pietra dello scandalo, portatore di un pensiero differente, davanti al quale siamo infastiditi e affascinati, promuove passioni e cambiamenti, costringe a fare i conti con il nostro sistema di norme e valori, mettendo spesso in crisi i paradigmi utilizzati fino a quel momento per interpretare la realtà. La sua stessa condizione la rende una categoria indefinita, come uno specchio o un prisma che devia fasci di luce monocromatica.

Lo storico Carlo Ginzburg ricorda, in un saggio sulla distanza, che dire «tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale, vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa o qualcuno» (Ginzburg 1998: 10). Chi è dunque lo straniero? Rispetto a cosa lo è? E cosa accade quando arriva in una comunità?

La possibilità trasformatrice e conoscitiva evocata da questa figura è evidente quanto più il sistema di appartenenza è chiuso al suo interno e preoccupato di difendere la sua stessa identità. Mentre la Polinesia di Stevenson e la Nigeria di Achebe sembrano luoghi adatti ad accogliere la dimensione perturbante dello straniero, in uno scenario di conflitti sociali, nella nostra società occidentale, come ricorda il naturalista Stephen Jay Gould (cf. Cesarni 1998: 23), un uomo di Neandertal che oggi prendesse la metropolitana a New York non desterebbe alcuno scandalo, talmente nelle metropoli è ormai radicata l’assuefazione indifferente verso il diverso. Tuttavia anche in questo momento storico si fanno strada ripiegamenti particolaristici, lotte e referendum per l’indipendenza, conflitti per l’annessione di Stati, sbarramenti nei confronti degli immigrati. Quel che è tenuto in sordina, sembrerebbe, è la nostra capacità di sorprenderci, di adottare una visione “straniata” sulla realtà, che invece la letteratura rende possibile attraverso il procedimento formale dello straniamento, teorizzato da Viktor Borisovič Šklovskij[i]. La logica straniante, ricordata anche da Ginzburg, permette di non dare per scontata la realtà e di fare come se la si vivesse per la prima volta. Questo procedimento, non solo letterario ma dunque anche conoscitivo, consente di fare un’esperienza più profonda del mondo, recuperando uno sguardo ingenuo e autentico sulla vita.

Da un punto di vista letterario, la logica straniante è stata affidata a personaggi “stranieri”, quali i folli, i bambini, i selvaggi, e alla possibilità di entrare in rapporto con loro. La letteratura, grazie agli stranieri, ha potuto sfidare la morale dominante, mostrare significati inattesi e svelare i fantasmi dell’inconscio, sia dell’individuo che della società, che Calvino riteneva ineliminabili persino in un mondo cibernetico.

Solo attraverso lo spaesamento che costringe a superare le rigide logiche oppositive e a moltiplicare i conflitti e i punti di vista è possibile, dunque, raggiungere nuovi equilibri e attivare cambiamento.

«Sarebbe stata una pazza se non ci avesse creduto»

Quando rinvenni la seconda volta il cielo era completamente terso, ad eccezione di poche nuvole simili a fiocchi di cotone. La luna, la luna dei tropici, era alta. In patria la luna trasforma un bosco in un ammasso tenebroso, ma qui era sufficiente quello spicchio a illuminare la boscaglia di un verde intenso, come di giorno. Gli uccelli notturni, o meglio una sorta di uccelli che annunciavano il giorno, cantavano con note lunghe e cadenti come usignoli (Stevenson 1982:1438)

Questa immagine visiva e uditiva che enfatizza il rapporto con la natura e attribuisce particolari qualità alla luna, a seconda dei luoghi (elemento centrale anche in Achebe, come vedremo), mette già in crisi le certezze che in genere separano il giorno dalla notte: la luna permette di avere luce nelle tenebre e di creare chiaroscuri inaspettati. Siamo nella scena in cui il protagonista, Wilthshire, un mercante inglese trasferitosi a Falesà (presumibilmente un’isola del Pacifico, di pura invenzione stevensoniana), ha appena trafitto con due coltellate il suo nemico, Case, un farabutto mercante inglese, elegante e spregiudicato, vestito a pyjama a strisce e cappello di paglia in testa, il cui nome, come ricorda l’autore, può voler dire straniero, straordinario, ma anche “mela marcia”. Quest’ultimo ha raggirato Wilthshire facendogli sposare un’indigena senza dirgli che era stata dichiarata tabù dalla comunità, dunque inavvicinabile, allo scopo di danneggiarlo economicamente e sottrargli clienti. Aveva ingannato inoltre tutti gli abitanti di Falesà, prendendosi gioco di loro con meschini trucchi da prestigiatore a scopi commerciali, fabbricando marionette nel bosco e spacciandole per spiriti maligni. La sua morte in seguito ad una lite violenta avviene in una scena in cui i personaggi non sono solo Case e Wilthshire, ma c’è anche Uma, la donna tabù, venuta a soccorrere il marito, che le aveva dichiarato a sua volta fedeltà e amore. Se l’atteggiamento di Wilthshire verso i nativi è sempre di sprezzante superiorità, quando si rende conto di aver sposato Uma con un certificato di matrimonio falso, redatto da Case, l’uomo si vergogna profondamente. E’ solo il contrasto tra la falsità della sua proposta di matrimonio e l’autenticità delle emozioni che prova per la donna a far traballare le sue certezze e a fargli difendere i nativi, fino a contaminarsi con loro, come in una danza. Ed è proprio Uma, straniera a Falesà a sua volta, proveniente da un altro villaggio, a creare turbamento: «Nulla mi era apparso così vicino come quella ragazza bruna» (Stevenson 1982: 1387), dichiara sorpreso Wilthshire. Per comprendere i kunaka, ossia i polinesiani, il protagonista, che pure viene descritto come un bianco rozzo e semianalfabeta, orgoglioso della sua origine britannica, capisce che occorre tornare a quando si aveva dieci o quindici anni, adottare dunque la lente del regard d’enfant (o per meglio dire lo sguardo adolescenziale) che permette di entrare in contatto con la parte più profonda e vera di noi stessi. Ecco come si era rivolto ai nativi all’inizio del romanzo:

“Bene, da me non caveranno tanti bonjour”, dissi. “riferite loro chi sono: un bianco, un suddito britannico e un gran capo del mio paese; che sono venuto qui per fare loro del bene e portare la civiltà; ma che appena ho messo su bottega mi hanno fatto tabù e nessuno osa avvicinarsi a casa mia! […] Loro non hanno né un vero governo, né specifiche leggi, ecco quel che dovete inculcare nelle loro capocce; e anche se le avessero, sarebbe ridicolo pretendere di applicarle all’uomo bianco. Sarebbe buffo che venissimo da tanto lontano per non fare poi quel che ci pare e piace (Stevenson 1982: 1380-1381).

Il mondo dei bianchi è descritto da Stevenson come corrotto, pieno di loschi traffici di fucili e liquori, truffe e raggiri, bottiglie di gin. Anche i missionari sono messi in ridicolo, evidenziando il contrasto tra cattolici e protestanti e il loro ruolo nei conflitti per il potere e la supremazia morale sulla comunità del villaggio. E tuttavia il racconto rivela due zone d’ombra. Da un lato il pastore del luogo Namu dichiarerà: «Case è la mia scuola» (Stevenson 1982: 1400), rivelando il fascino che lo straniero – il bianco– poteva rivestire per un indigeno e la voglia di imparare che i nativi avevano, anche a costo di giungere a compromessi. Dall’altra, lo stesso protagonista non perderà mai l’ambivalenza nei confronti delle popolazioni polinesiane: concluderà dicendo che sì, Falesà è il luogo in cui ha gettato l’àncora con moglie e figlie, abbandonando il suo antico proposito di aprire una taverna in Inghilterra, ma:

[…] quel che mi preoccupa sono le ragazze. Sono solo delle meticce, è ovvio, lo so quanto voi, e non c’è nessuno che tenga in minor conto le meticce di me; eppure sono mie ed è il meglio che ho. Non riesco ad assuefarmi all’idea che vadano in moglie a dei kanaka ma dove vado a scovare dei bianchi? (Stevenson 1982: 1442)

Pur continuando ad essere ambivalente verso i polinesiani e affermando la sua superiorità razziale, il protagonista rivela tuttavia in tutto il racconto una sensibilità e un’onestà di sentimenti che lo distinguono dagli altri bianchi. Wilthshire realizza una contaminazione di culture che sopravvivono in un movimento di circolarità e compresenza, che rende familiari anche credenze superstiziose, cui Uma doveva credere per non essere ritenuta pazza dalla sua gente e verso le quali alla fine egli assumerà uno sguardo benevolo.

Lo sguardo di Stevenson è in realtà quello dello scozzese che ha vissuto il contrasto tra gli Highlander celtici e selvaggi e i Lowlander anglicizzati e civilizzati: il mondo polinesiano, per lo scrittore, dunque, è lo specchio di contrasti già conosciuti in patria.

Tuttavia, il limite di Stevenson, come ricorda la critica (Ambrosini 2001: 343), è quello di aver approfondito poco nei racconti il punto di vista dei nativi. Pur avendo reso problematica l’immagine idealizzata dell’uomo bianco e quella deformata degli isolani, di cui studiò lingua e tradizioni, non riuscì a restituire la psicologia di quella popolazione, anche a causa dei limitati sviluppi dell’antropologia vittoriana, secondo la quale i popoli sottomessi agli europei appartenevano al gradino più basso della civiltà, che li avrebbe portati ad un percorso di evoluzione lineare verso il progresso occidentale. Il fallimento di questa concezione antropologica inizia ad avvertirsi e vacillare quando anche l’Occidente scopre i suoi “diavoli in patria”, come direbbe Uma, producendo terribili rappresentazioni sul doppio, come quella di Dorian Gray (1890), di Mr Hyde (1886), di Dracula (1897). Accadeva, infatti, che, mentre in Europa si diffondeva l’idea dei colonizzati come esseri irrazionali, dediti alla magia e alla stregoneria, proprio negli anni in cui Stevenson scriveva, aveva inizio la pratica del mesmerismo, fenomeno che tanto preoccupò l’Académie des Sciences: Mesmer, rifacendosi all’antica pratica dell’esorcismo, istituiva strane pratiche collettive in cui i partecipanti al rito, prendendosi per mano, sottoposti all’influsso delle stelle, davano inizio ad una crisis, con attacchi di urla e pianto, per ristabilire l’equilibrio e allontanare le malattie. Varianti che ebbero credito nella società furono il sonnambulismo e l’ipnotismo. In quel periodo di scoperte scientifiche e espansioni imperialistiche si faceva strada, in sostanza, anche in Occidente, l’idea dell’esistenza di parti irrazionali dell’uomo. 

«La luna uccide la gente?»

Ad una crisi interiore è condotto anche uno dei protagonisti della nostra seconda storia, il sommo sacerdote Ezeulu, intermediario tra il dio Ulu e la comunità degli uomini Igbo in Nigeria: alla fine del romanzo la magia da cui era stato protetto in battaglia con i bianchi lo abbandona senza preavviso, lasciandolo solo e impotente, uomo tra gli uomini. Il suo co-protagonista, il colonnello Winterbottom, soprannominato “distruttore di fucili” dalla gente del posto, disinteressato alle usanze degli africani e indignato dalla loro crudeltà, si innamorerà della dottoressa che lo ha in cura e continuerà ad esercitare il suo potere.

La freccia di Dio ha una “doppia focalizzazione”, cui corrispondono due diversi registri linguistici. Il narratore Achebe mostra, infatti, sia il punto di vista degli africani che quello dei bianchi colonizzatori, ambientando la storia nei primi anni del Novecento, all’epoca in cui gli insediamenti britannici si andavano consolidando.

Lo scenario che si delinea in questa forzata convivenza tra bianchi e nativi è quello del sovvertimento dei paradigmi locali: la comunità di cui è sacerdote Ezeulu è formata da sei diversi clan, in lotta tra loro per la terra: sarà il bianco arrivato da lontano a separare e disarmare i clan, fingendo di portare la pace nel territorio e in realtà imponendo così la sua egemonia. La quiete tra villaggi è resa possibile solo grazie all’intervento di un altro attore sociale, che in realtà è in lotta con tutti i clan e ambisce a detenere il potere attraverso la strategia del divide et impera. […]

Leggi l’intero articolo, facendo il download del numero di YM dedicato al conflitto.
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[i] Viktor Borisovič Šklovskij (San Pietroburgo, 24 gennaio 1893Mosca, 6 dicembre 1984) è stato uno scrittore e critico letterario russo. Fece parte del gruppo dei “Formalisti Russi”, un insieme di critici letterari interessati alla struttura delle narrazioni, di cui face parte anche V. Propp, che studiò i meccanismi narrativi alla base della fiaba. Il contributo più interessante di Šklovskij fu la teorizzazione del concetto di “straniamento”, un procedimento letterario che consiste nel mostrare la realtà abituale come se la si vedesse da stranieri, per la prima volta.

Silvia Potì ha studiato Psicologia e Letteratura. Ha vissuto a Lecce, Roma, Parigi e Bologna. Dopo aver discusso una tesi di Dottorato in Psicologia Clinica, ha ottenuto una borsa di perfezionamento all’École des hautes études en sciences sociales, presso il Laboratoire de Psychologie Sociale -Centre Edgar Morin di Parigi. E’ autrice di articoli scientifici e contributi in opere collettanee nel campo della psicologia clinica e sociale e della critica letteraria. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e lavora come psicologa clinica a Lecce.

Cittadinanza e religione: inclusione ed esclusione nel mondo antico

In Uncategorized on 26 February 2015 at 11:03 AM

Francesco Lucrezi

I giureconsulti ci dicono che i romani avrebbero fondato la titolarità e l’esercizio dei diritti sulla base di tre grandi categorie generali, atte a includere ed escludere gli esseri umani dal loro perimetro, stabilendo così quale fosse la loro specifica condizione giuridica, cosa potessero fare, avere, pretendere, a cosa potessero aspirare, cosa dovessero subire. Il termine più usato per indicare tali forme di appartenenza è quello di status, ‘condizione’: sarebbero soggetti di diritto a pieno titolo, secondo lo ius Romanorum, esclusivamente coloro che si trovassero in una posizione di privilegio dal punto di vista dello status personae, articolato su tre distinti terreni: status libertatis (si tratta di un uomo libero, di un servo, di un liberto?), status civitatis (è un cittadino romano, o quasi-romano, o uno straniero?), status familiae (è un pater familias, una donna “sui iuris“, o un soggetto “alieni iuri subiectus“?). Tutte e tre queste categorie pongono, teoricamente, un problema di conflitto, dato dalla logica contrapposizione tra chi è ‘fuori’ e chi è ‘dentro’, e dalla naturale tensione tra chi avrebbe interesse alla perpetuazione e alla solidità della barriera e chi, invece, desidererebbe poterla valicare, o, addirittura, abbattere.

Nel considerare la reale genesi ed evoluzione storica di tali categorie, e la natura del conflitto da esse generato, ci sarebbe però da chiedersi, preliminarmente, se e in che modo esse fossero effettivamente percepite, accettate, contrastate, nella vita reale, dagli uomini veri che si trovarono a vivere, in un’amplissima latitudine spaziale e temporale, nell’antico mondo romano. Furono categorie elaborate ad uso e consumo di una ristretta élite dominante, riconducibile prevalentemente all’aristocrazia italica, o appartennero, nel tempo, anche al bagaglio culturale delle vaste masse dei provinciali, di quei multiformi popoli della Mauritania, della Gallia, dell’Egitto, della Germania, che si trovarono, in vario modo, attraverso varie vicende militari e politiche, non sappiamo con quanto piacere, a condividere oneri e onori della pax Romana?

Riguardo alle categorie dello status libertatis e dello status familiae, la risposta sembra, apparentemente, alquanto semplice, sia pure per motivi opposti, nell’uno e nell’altro caso.

Quanto alla libertas, infatti, è ben noto che tutti i popoli antichi, senza eccezione, hanno conosciuto forme di asservimento personale, dividendo gli esseri umani in quella che Gaio definisce la summa divisio tra liberi e servi. E, anche se i contenuti coercitivi riconosciuti al padrone sulla persona del proprio sottoposto variano sensibilmente da luogo a luogo, e di epoca in epoca (essere asservito nell’antico Israele era meno spiacevole che esserlo a Roma o in Grecia, ed esserlo ai tempi di Crasso era peggio che ai tempi di Adriano o Marco Aurelio), non c’è dubbio che chiunque, nel mondo antico, capiva cosa significasse essere schiavo, e facesse di tutto (con alcune marginali eccezioni: Plauto racconta di servi che imploravano il loro dominus di non volerli affrancare, mandandoli così per la strada) per evitarlo.

L’istituto della patria potestas, invece, com’è noto, fu una cosa esclusivamente romana (nata, in epoca remota, con l’attribuzione al capostipite di un ruolo di mediazione religiosa tra mondo dei vivi e dei morti, a beneficio di una familia intesa, secondo Franco Casavola, quale “isola sacra”), che nessun altro popolo antico (come sottolinea, orgogliosamente, Gaio) ha mai conosciuto, né ha mai avuto interesse ad imitare. Per molti secoli, soltanto in una piccola percentuale gli abitanti dell’impero romano fondarono la loro vita individuale e comunitaria sull’indiscussa supremazia del pater familias, unico titolare di patrimonio e di diritti, in grado di esercitare sui propri sottoposti (che, non dimentichiamo, potevano anche essere filii familias di cinquanta o sessant’anni, a loro volta padri o nonni, e, magari, consoli o senatori) i più ampi poteri, fino – almeno in teoria – all’esercizio di un arbitrario ius vitae ac necis.

Certamente, l’istituto potestativo generò per secoli un latente, violento conflitto tra patres e filii familias, con il morboso ‘sogno proibito’, da parte dei sottoposti, di porre termine con la violenza al predominio del ‘tiranno’, e la speculare “paura dei padri”, da cui scaturì il sinistro supplicium singulare della poena cullei, prevista per il figlio parricida (fatto morire annegato, sigillato in un otre di pelle, in compagnia di un cane, un gallo, una vipera e una scimmia, le cui fattezze avrebbe condiviso nella morte, in un orrido groviglio animalesco). Ma, altrettanto certamente, molto di frequente i filii familias potevano trarre grande utilità e vantaggio dalla loro condizione, mentre i patres – come dimostra l’altissimo numero di emancipationes – desideravano assai spesso liberarsi della gravosa incombenza. Ma, in ogni caso, alla grande maggioranza degli abitanti dell’impero della patria potestas non importava assolutamente nulla: molti, probabilmente, non sapevano neanche cosa fosse, e nessun siriaco, iberico o britannico avrebbe mai desiderato diventare un pater familias.

Per quanto riguarda lo status civitatis la questione si fa invece più complessa, in quanto non appare agevole definire se, a partire da quando, in che misura, per quali soggetti o popolazioni l’accesso alla condizione di civis Romanus rappresentasse effettivamente un privilegio, un traguardo da raggiungere.

Molte fonti ci trasmettono il quadro retorico e propagandistico di una civitas Romana intesa come una condizione di superiorità, compiutezza e perfezione sul piano civile, culturale e giuridico, che sarebbe stata progressivamente estesa a sempre più ampie categorie di stranieri, peregrini e barbari, via via ammessi a godere della romana felicitas (passando, a volte, attraverso la categoria intermedia della Latinitas), fino all’ecumenica elargizione di Antonino Caracalla, che, con la constitutio Antoniniana del 212, l’avrebbe concessa – con un gesto, secondo la propaganda di regime, di generosa liberalità – a tutti gli abitanti dell’impero.

In realtà, nulla fa pensare che la storia romana sia contrassegnata da una costante pressione, da parte dei peregrini, al fine di avere accesso all’agognata cittadella dei cives Romani, e le fonti sembrano piuttosto assolutizzare, in modo astratto e atemporale, alcuni problemi di capacità giuridica e di autonomia privata (i titoli di attribuzione e di appartenenza dei beni, le forme negoziali) che si sarebbero posti solo in alcuni specifici contesti, e in determinati periodi storici.

La questione della cittadinanza, come problema politico generale, si sarebbe imposta soltanto nell’età della crisi della libera res publica, col bellum sociale del 90-89 a.C., che avrebbe indotto la repubblica a emanare frettolosamente le leges de civitate (la lex Iulia de civitate Latinis et sociis danda, del 90, e la Plautia Papiria dell’89), estendendo la civitas ai socii scesi in armi, e poi a istituire, nel 65 a.C., un’apposita quaestio extraordinaria de civitate, chiamata a giudicare dell’apposito crimen di usurpatio civitatis. Ma le ragioni della guerra sembrano essere state altre dalla semplice richiesta, da parte degli alleati italici, di ottenere la concessione della civitas, alla quale pare anzi che molti di essi fossero apertamente contrari. E la quaestio de civitate sembra avere lavorato pochissimo: conosciamo la famosa arringa difensiva di Cicerone a favore del poeta Archia, accusato di usurpatio civitatis per avere violato le prescrizioni la lex Plautia Papiria, ma non abbiamo molte altre notizie in proposito.

Quando, comunque, agli inizi dell’ultimo secolo di repubblica, il problema della titolarità e della concessione della cittadinanza viene ad essere oggetto di una regolamentazione sul piano politico e normativa, esso è già avviato, praticamente, a perdere d’importanza. Di lì a poco, com’è noto, lo scontro epocale tra Occidente e Oriente – tra la tradizione repubblicana, laica, pluralista e politeista, da una parte, e, dall’altra, i modelli autocratici, assolutisti e misticizzanti del potere – avrà il suo esito, e il governo di Roma diventerà il governo del mondo, secondo l’inedito, ambiguo sistema del principatus, con un principe servitore della repubblica, ma anche, al contempo, come disse Antonino Pio, “toù kòsmou kyrios“, signore dell’Universo. E, in questo mondo – come messo in risalto dalla migliore storiografia, a partire da Giorgio Luraschi -, a contare non sarà tanto l’inclusione o l’esclusione rispetto all’astratta categoria della civitas Romana, ma, piuttosto, il livello di civiltà, di autonomia, di maturità istituzionale conquistato e difeso, nelle varie nazioni e contrade, alle mille civitates, coloniae, pòleis, municipia dell’orbe romano. […]

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Francesco LucreziFrancesco Lucrezi è professore ordinario di Storia del diritto romano, Diritti dell’Antico Oriente Mediterraneo nell’Università di Salerno.

Il tempo di una scala

In Uncategorized on 24 February 2015 at 12:13 PM

Riccardo dell’Atti

Mara non dorme. Passa le notti a sussurrare canzoni. Le palpebre chiuse, serrate le dita, le labbra pure; ferma le parole incollando la lingua al palato, le strozza, le inghiotte, le nasconde, le uccide prima che prendano il volo. Nelle strofe sommesse dondola i piedi sotto le lenzuola e porta le dita delle mani a toccarsi, come volesse mimare un tetto o una preghiera. Ha capelli intricati che sembrano canapa. Ogni tanto apre gli occhi, ruba la luce agli oggetti e ferma il suo canto. Respira con calma, solo dal naso, non apre la bocca. La bocca di Mara è chiusa da quando qualcuno le impose il silenzio.

A volte cerca il cuscino per far scoppiare la rabbia, spalanca e urla, poi morde le federe e stringendole piange, ma nessuno la sente. Come sempre.

Mara non dorme. Conta le ore del tempo rubato al sonno e ad ogni alba aggiorna la somma.

Una notte, muta sul letto, nel buio, fissa il soffitto e immagina il cielo; mormora un canto dolcissimo che le nasce tra il naso e le guance un po’ gonfie. Una melodia raffinata di quattro note rotonde e composte ma asfittiche, luci lontane in una sera di nebbia: sfocate ma luminose a loro modo, disperse nell’aria ma ovunque presenti.

Nello stesso momento, al piano di sopra, un’anima insonne preferisce il pavimento al rogo del letto infuocato e opprimente. Veronica non trova pace nell’afa: nuda, i palmi distesi, la pelle di perla nell’ombra. Calma un poco la pena sul marmo, posa il volto per terra e la guancia si ghiaccia all’istante, un accenno di piacere si arresta in un brivido sbrigativo e sfuggente.

Quando finalmente anche l’orecchio lambisce il freddo pavimento, questo le riferisce l’incanto soffocato che viene dalla stanza di Mara.

È una goccia di vino denso colore rubino che cade in un catino di latte quel canto. È un proiettile dolce la voce senza voce di Mara che sale dal letto e attraversa il cemento con l’eleganza di uno sparo, colpisce Veronica al petto e si propaga nel suo corpo in un’eco vibrante fatta di carne, ora bollente.

Veronica ascolta.

La sua mente si libra in una carezza di miele, e in un istante ricorda le ore di studio, i solfeggi, le scale, l’armonia, i vocalizzi.

Veronica brama.

Mezzosoprano centrale, la sua voce è calda come una mano di amante, suadente, continua, viandante. Ricorda le arie, i canoni, gli arpeggi, le estensioni, i gorgheggi, i brani mandati a memoria.

Veronica arde.

Il pavimento, sconfitto, non le ha reso il conforto voluto e tutto le brucia in una scorza di pelle dorata. Vorrebbe esplodere oppure cercare quel canto, avvicinarlo, entrarci e lanciarcisi dentro come si farebbe dallo scoglio nel mare, chiudendo il naso e poi gli occhi e le mani sui fianchi e immergendosi fino a quando il respiro non basta.

Vuole quella voce mai nata, rinchiusa in una prigione di denti.

Allora si alza, un velo di sudore si congela sulla schiena perfetta. Sente una morsa allo stomaco: è il diaframma eccitato, le comprime la pancia e le chiude i polmoni. Un colpo alla gola la agita e il sangue si gela alle tempie e nei polsi. Prende una vestaglia rossa e la indossa, esce da casa e scende al piano di sotto: una scala velocissima, armonia che scorre in purezza su gradini ansimanti e si arresta nell’eco lunghissima del “LA” del campanello di ottone.

Passa un minuto di silenzio, ma non nel petto.

  • Mi chiamo Veronica.

E tira col naso per recuperare il respiro.

Mara la guarda, dice “Sì” con il naso, si scosta di un passo e con la mano fa segno di entrare. I capelli di Veronica accarezzano la mano ferma ad indicare l’ingresso.

Certi silenzi hanno un’intrinseca e perfetta armonia, non sono assenze ma inneschi. Veronica si fa liquido rosso negli occhi bagnati di Mara: vino o sangue o quello che resta della seta di una vestaglia.

Sul canterano nel corridoio, in penombra, una foto di una bambina con i capelli di lino, lisci come un risveglio sereno. Ora non dormono più.

  • – dice Veronica leggendo sotto la foto.

Gli occhi rispondono domande non traducibili.

  • Mara, voglio cantare con te, anche solo stasera, e voglio che tu mi faccia da seconda voce.

Il rosso di prima esce dagli occhi e colora il volto muto di Mara. È una vampa improvvisa. Vorrebbe chiedere a Veronica in cosa consiste una seconda voce, cosa significa, lei non ha mai cantato, neanche parlato; vorrebbe capire, intuire soltanto, cerca risposte ma Veronica non concede ulteriori silenzi e attacca.

Sottile…

Ha una voce bellissima: sembra un frutto. Un nocciolo di tonalità basse e calde, morbide come un cuscino quando la testa ci affonda stanca. Una polpa di modulazioni medie, colorate come le stagioni che hanno maturato gli zuccheri, ubriacando le foglie di sole e di pioggia. Una buccia di sfumature alte e timbri argentini, che esplode quando un morso la rompe e tutto l’acino viene schiacciato dai denti e macinato e buttato nella gola e poi inghiottito e spinto fin dentro lo stomaco, sfamato e affamato.

L’attacco è fermo e deciso, di chi è nato cantando, di chi prende dall’aria l’armonia degli sguardi altrui, dei viaggi a occhi aperti nel mare e tutto trasforma in vibrazioni che danzano e attraverso il sorriso ritornano all’aria e agli sguardi e alle strade e al mare.

Mara non sorride. Lei degli sguardi ha preso l’ira e il terrore, e dei viaggi il desiderio, e del blu del mare solo il sale a bruciarle le lacrime e il singhiozzo affannato.

Veronica canta.

La vestaglia danza come mosto fermentato in botti odorose di resina. È un canto fluido e inebriante. I sapori nascosti sotto il rosso sono un ordito in cui si smarriscono i sensi.

Mara respira.

L’aria che entra nelle narici in un attimo accende il sangue nelle vene e libera gli sguardi.

Mara respira e ascolta.

Sente lingue finora sconosciute e immagina gli occhi delle voci che viaggiano tra le sue orecchie come venti in tempesta che arrivano da destinazioni diverse. Mara respira e ascolta, e si immerge, e i suoi occhi annegano in acqua di mare che diluisce il buio e, man mano che sprofonda, il nero si fa blu e il blu diventa azzurro.

Mara respira.

C’è troppa aria nella sua gola, e troppo calda. Prende un suono e lo piazza sotto il palato.

Veronica lo sente e la buccia esplode.

Senza pensarci, il suono di Mara è una terza sopra. Doppia voce: naturale e suadente. Una risonanza, come risacca, si pianta nelle orecchie e avanza e arretra. Veronica la segue, si sposta sulla terza ma un’ottava sopra. I polpastrelli della mano destra di Mara sono a mezz’aria, come se accarezzasse qualcosa, il tempo o l’aria della stanza. Solo la vestaglia si muove. Veronica li vede e congiunge i suoi continuando il suo canto, prende l’aria e le mani diventano preghiera e tetto.

A occhi chiusi Mara sale sulla quinta, un’ottava sotto.

Una fodera di seta e un sacco di corda. Questo sono.

A mani giunte e senza conflitto.

Vino che scorre sul pavimento, una vestaglia spogliata, capelli slegati.

Tirano finché il fiato le segue. Svuotano i polmoni fino all’asfissia della voce di Veronica che chiede supplizio aggrappandosi ad una vocale che è la somma di tutte le vocali.

La bocca di Mara finalmente si apre.

Tutte le note ammassate sotto il palato, legate sotto la lingua, aggrappate ai denti, soffocate nella gola per anni, scoppiano in un grido sonoro come uno sparo.

La mano di Veronica è piccola come un acino d’uva costretto in quella di Mara che stringe come una morsa, come un morso.

Rosse le dita.

Pure le labbra.

Essere mediatori dell’anima. Dialogo con Jacqueline Morineau

In Uncategorized on 24 February 2015 at 8:38 AM

Francesca Panarello

Mediatrice, Giudice di Pace, Messina

Questa conversazione si è svolta in occasione della conferenza “Essere mediatori dell’ anima. La mediazione umanistica risorsa di cambiamento e pace sociale” tenuta a Messina, lunedì 12 maggio 2014, presso il Salone delle Bandiere di Palazzo Zanca, da Jacqueline Morineau su iniziativa dell’ Associazione MediArea, Centro per la Gestione Concordata e Creativa dei Conflitti[1].


Che cos’è la ricerca della felicità per Jacqueline Morineau?

Non c’è felicità senza pace e non c’è pace senza giustizia. Aristotele affermava che il fine supremo delle “buone azioni che ogni essere umano può compiere nella sua vita,” e, quindi, anche l’obiettivo primario della giustizia, è la felicità.

Sfortunatamente, tante volte, la Giustizia non riesce a rispondere oggi questo obiettivo per mancanza de mezzi e anche perché ha perso di vista la finalità originale della sua funzione.

Dopo la rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo, la legge positiva è diventata la risposta al bisogno di giustizia, ma, si sa, non sempre la norma giuridica contribuisce a creare “la giustizia”: soprattutto quando è maggiore il caos e più alto il conflitto, le soluzioni giuridiche possono risultare insufficienti e non soddisfare in maniera adeguata le attese delle persone . Per questo motivo, nel 1983, l’allora Ministro della giustizia francese, Robert Badinter, ha proposto una forma alternativa alla giustizia repressiva e ha dato impulso alla mediazione. Sono stata incaricata di creare la prima esperienza di mediazione penale a Parigi e una nuova struttura per accogliere i casi inviati dalla procura. Non conoscevo nulla della mediazione e, in Europa, vi erano ben poche esperienze nel settore, eccezion fatta per quelle dell’ADR (Alternative Dispute Resolution) nei paesi anglosassoni e dell’l’ombudsman en Scandivania.

Possiamo dire, dunque, che la mediazione è un cammino di ricerca della felicità?

Di fronte del conflitto, che può condurre al caos, alla separazione, alla divisione, siamo impotenti. È un’esperienza comune a molti di noi che ci mette di fronte al senso della vita. In fine la morte è la nostra sola certezza.

La separazione è la prima prova tragica della vita, perché alla nostra nascita veniamo separati e il risultato immediato è un grido; questa “identità” di separazione ci conduce a cercare, durante tutta la nostra esistenza, la possibilità di ritrovare l’altra parte di noi “perduta”, per essere uno. È un lungo cammino, condiviso con tutta l’umanità. Coscienti della forza di questa sofferenza, i Greci avevano sviluppato modi di educazione attraverso il mito e il teatro della tragedia in cui ci sono numerosi esempi che sono specchio di questo vissuto di separazione.

417ktjHID6L._AA160_ Tuttavia, nel corso del tempo abbiamo perso questa memoria e abbiamo costruito una società che dall’era dell’illuminismo (ma già del rinascimento), e ancor di più negli XX secolo, ha preteso di risolvere i conflitti e controllare le vicende umane con la forza della ragione. Il crollo delle torri gemelle a New York e, con esso, la caduta del “sogno americano di imporre la pace nel mondo”, ha disvelato che la pretesa di realizzare questo sogno, con la sola forza della logica economica e di un equilibrio delle grandi potenze mondiali, è un fallimento.

Viviamo in una società in cui assistiamo al moltiplicarsi delle occasioni di violenza e guerra, una società che anziché incamminarsi alla ricerca della felicità e creare le condizioni per una convivenza pacifica, sembra dirigersi verso l’autodistruzione “planetaria”. Abbiamo bisogno di prendere coscienza che viviamo una trasformazione epocale sola paragonabile a quella del passaggio dall’era dell’uomo nomade a quella dell’uomo sedentario.

A fronte di questa situazione, possiamo cercare aiuto nel passato della cultura greca all’ origine della nostra cultura. I greci, avevano elaborato una educazione permanente alla saggezza per permettere di avvicinarci alla felicità. La mia formazione classica mi ha ricordato lo spazio dato al grido della tragedia greca. Era uno spazio concepito come mezzo educativo per offrire uno specchio della nostra tragedia umana, dei tanti conflitti che hanno distrutto e possono distruggere la nostra vita .

L’apprendimento della mediazione riprende la pedagogia della tragedia greca, per potere, imparare a vivere in armonia con noi stessi e con gli altri : è un compito della vita.

La mediazione raccoglie il grido di nostra società “autodistruttiva”, perché abbiamo bisogno innanzitutto di incontrare la guerra che è dentro il nostro cuore. Noi creiamo purtroppo la morte e non la vita. Siamo impotenti di fronte agli ostacoli. La mediazione va aldilà della risoluzione di un conflitto, perché esso è tante volte un pretesto. Se accettiamo di incontrare la sofferenza (che sempre è un’ esperienza di separazione) e, attraverso di essa, la nostra realtà umana, possiamo aprirci alla parte profonda, più elevata : la nostra anima. La mediazione umanistica restituisce all’uomo la possibilità di vivere la sua completezza attraverso il concetto di uomo dei Greci: corpo, anima, spirito, per vivere in armonia con se stesso e con gli altri e… il pianeta. Allora c’è la possibilità di riscoprire la bellezza della vita, che è felicita : un dono della creazione e del creatore: siamo nati a immagine della bellezza del creatore, della creazione. E sempre possibile ritrovarla.

31JPzGTy3yL._AA160_In questo senso sarebbe fondamentale proporre la mediazione umanistica ai più giovani fin dall’asilo, e durante tutto il percorso educativo, come percorso di scoperta dell’umanità e di educazione alle relazioni. Abbiamo dimenticato, nell’ambito dei programmi della scuola, di insegnare a divenire uomini. L’ insegnamento, al liceo classico, della cultura classica offre importanti esempi di ricerca e apprendimento, finalizzati a vivere in armonia; tuttavia, questo ha bisogno di essere legato al vissuto degli alunni e può essere fatto attraverso l’esperienza della mediazione umanistica.

La mediazione umanistica è strettamente intrecciata alla tragedia greca. Quali i tratti che le accomunano?

Il procuratore del tribunale di Parigi ci aveva immediatamente affidato casi complessi di violenza.

Quando mi sono trovata di fronte a persone che avevano agito la violenza, che nutrivano sentimenti di odio e di vendetta, non ero in grado di trovare alcuna risposta… potevo solamente incontrare il grido, la “chiamata” di una sofferenza devastante, da ambo le parti del conflitto. L’esperienza della tragedia greca si è imposta.

Quindi, ho provato ad offrire una forma di mediazione che ripercorre le tappe della tragedia : teoria, crisi e catarsi, per dare al grido alla possibilità di cambiamento finale. Questo “modello di mediazione” si è manifestato come un’opportunità per procedere verso l’obiettivo di trasformare la disperazione della separazione, in una nuova vita.

Questo approccio ha aperto una nuova strada perché abbiamo potuto per primi sperimentare, con questa modalità, una forma di giustizia nuova: trasformativa/riparativa/ ristorativa delle origini della esperienza.

È necessario iniziare a dare la parola al corpo che soffre, che patisce le emozioni che creano malattie. Ho recentemente svolto uno stage presso un ospizio di Brescia, una delle prime esperienza di cure palliative in Italia; una suora mi diceva di tanti giovani che sono “ospiti” lì..: questa è l’effetto della nostra società autodistruttiva : la nostra anima grida e il corpo si disintegra. Oggi tanti giovani si ritrovano in fin de vita con gli anziani. È uno scandalo.

La malattia prende tante volte la sua origine nel profondo dell’anima attraverso le emozioni. Abbiamo dimenticato di vivere corpo, anima e spirito. Tanti di noi ignorano la dimensione spirituale. L’abbiamo allontanata perché l’abbiamo legata con la religione, e tante volte il suo rifiuto ha fatto perdere tutto il senso della dimensione spirituale. L’esperienza della mediazione mi ha fatto scoprire che è questo livello più elevato, delle aspirazioni, dei valori – verità, dignità, libertà, giustizia… – che apre alla dimensione spirituale in cui l’uomo può trovare la trasformazione che conduce alla pace. I giovani, educati oggi al consumismo, al materialismo hanno purtroppo perso il senso dei valori e condividono il vuoto esistenziale della società con tutte le sue malattie.

Come attingere a questo apprendimento della mediazione? Chi è il mediatore dell’anima? Come diventarlo?

Ritrovare il concetto dell’ uomo dei greci : corpo anima e spirito come un vissuto e non un concetto. Lavorare su ciascuna parte. Il corpo non dove essere ignorato, l’anima dove essere accolta con tutte le sue emozioni, per aprirsi al livello superiore che tocca un’attesa, un ideale, uno slancio verso ciò che il bello della vita.

Questa è la parte più elevata dell’anima, che si apre al livello spirituale e permette di passare dalle tenebre alla luce. Tutti abbiamo questa dimensione, indipendentemente dal credo, dalla religione, anche gli atei…tutti abbiamo questa attesa di infinito, un bisogno di ordine, di una certa forma di ordine interiore.

Quando nella quotidianità delle relazioni ci allontaniamo da questa dimensione “più alta” siamo guidati dalle nostre emozioni e questo crea il conflitto e viene la sofferenza, sia interiore che interpersonale. Tanti di noi portiamo maschere, ruoli perché siamo incapaci di vivere la nostra completezza : corpo, anima, spirito. Viviamo attraverso un personaggio esteriore dentro l’ignoranza della nostra autenticità. Nei momenti di maggiore sconforto e di profondo isolamento, il grido e le lacrime sono il solo linguaggio che l’anima sconvolta ha per esternare il proprio bisogno di sua autenticità. La crisis , oggi, non è solo economica ma soprattutto esistenziale.

Per ascoltare il grido, per disvelare il volto dell’altro oltre la maschera, per essere mediatori dell’anima, è necessario, prima di tutto, ascoltare il grido che è tante volte silenzioso e prendere coscienza della maschera che portiamo. Il conflitto è un’occasione privilegiata per poterlo fare e permette di incontrare nell’altro se stesso, la “nostra comune umanità”. Possiamo insieme scoprire spazi di silenzio, perché il grido, che viene dai tempi primordiali appartiene a tutta l’umanità, viene da un livello profondo interiore.

Quella che apprendiamo durante uno stage alla mediazione è la concretizzazione di questo cammino attraverso lo sviluppo di diverse tappe di passaggio, dal vissuto del corpo, all’anima e allo spirito. Lo spazio di espressione del grido è una necessità perché viene dall’origine della vita, ha bisogno di dirsi e si ritrova in tutte le situazioni di conflitto. L’espressione delle nostre emozioni è senza fine perché è legata al passato, a la sofferenza di mia madre, di mia nonna, di Eva, fin dall’inizio della nostra storia umana. Potenzialmente è un grido senza fine… Il passaggio al livello dei valori è essenziale per liberare e restituire la parola della verità. E questo è un momento “magico”, perché l’esternazione delle emozioni è avvenuta con grande agitazione, ma quando si dà parola ai valori , si arriva a una pacificazione, e il perdono diviene possibile. Nei confliggenti c’è un grande bisogno di autenticità, di giustizia, di verità… Nell’offrire a entrambi la stessa opportunità di nominare i valori, si costruisce un primo ponte verso il riconoscimento dell’altro come essere umano al pari di noi. Questo é essenziale. La guerra può finire.

Leggi l’intero dialogo, acquistando la Rivista o l’ebook.

Yod magazine conflitto cover
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[1] MediArea è un Centro Ricerche, Studi, Formazione e Servizi per la Gestione Concordata e Creativa dei Conflitti, che opera sul territorio di Messina e provincia dal 2005 per iniziativa di un gruppo di professionisti di varia estrazione (giuristi, sociologi, pedagogisti, assistenti sociali), impegnati da anni nella ricerca e nella pratica della mediazione e della gestione dei conflitti come strategie di perseguimento della pace sociale. I mediatori del Centro MediArea hanno perfezionato la loro formazione e preparazione con i maggiori esperti italiani e stranieri nelle discipline dell’educazione alla pace, della risoluzione pacifica dei conflitti e della mediazione.

http://www.centromediarea.org

https://www.facebook.com/MediArea

info@centromediarea.org

Jacqueline Morineau (Dax-Francia 1934) è l’ “ideatrice” e massimo esponente a livello internazionale della mediazione umanistica, la studiosa e l’interprete più attenta della mediazione nei rapporti conflittuali secondo un approccio umanistico trasformativo fondato sul principio dell’enpowerment personale e di comunità. Dopo gli studi in Archeologia Classica e la specializzazione in Numismatica Greca, diviene ricercatrice al British Museum di Londra. Dalla sua conoscenza del mondo antico deriva gli strumenti essenziali per sviluppare un progetto di intervento “sociale” originale, basato sulla mediazione e la formazione del mediatore , che le è stato affidato nel 1984 dall’allora Ministro della Giustizia francese, dal quale ha ricevuto l’incarico di realizzare il primo esperimento di mediazione penale per la Procura del Tribunale di Parigi: il CMFM, Centre de Médiation et de Formation à la Médiation , diretto dalla Morineau, e che ha effettuato mediazioni nei campi penale, sociale, familiare, scolastico. J. Morineau è, altresì, autrice de Lo spirito della mediazione, Ed. Franco Angeli e Il mediatore dell’anima, Ed. Servitium

Conversazione sul conflitto con Bruno Tognolini

In Uncategorized on 24 February 2015 at 8:25 AM

Giuseppina Marselli

The Italian word sfogarsi, meaning let off steam, it’s a word that incorporates another: sfogo, meaning vent. If you remove the S, it becomes fogo, fire. The conflict must be vented as anger. A conflict without anger is a cold, premeditated and artificial conflict. To let off steam you must use effective and sharp words. Find them among many is an important cognitive exercise because you put in place strategies. The conflict becomes gym of forecasting, techniques and surprises.

La declinazione del conflitto può assumere molte sfumature: rabbia, vergogna, rancore, riconoscimento. In relazione alla tua esperienza, cosa pensi del conflitto?

Premetto che non sono un esperto di infanzia ma un adulto che racconta ai bambini storie.

Tra le storie che racconto ci sono anche i conflitti, la rabbia. Recentemente sono stato nominato esperto della rabbia grazie ad un libro che ho scritto RIME DI RABBIA* (nona edizione)

Il libro viene da lontano.

imgresIl titolo mi suonava bene “Rime di Rabbia”, la doppia R mi piaceva molto e mi richiamava le invettive dei latini e dei greci, studiate al liceo.

Mi piace l’articolazione verbale del conflitto. Le parole devono essere efficaci, bisogna limare più che si può, cercarle tra tante, perché in un conflitto si usano parole che feriscono, durante un corteggiamento se ne usano altre, in un racconto incantevole se ne usano altre ancora.

In ogni luogo e in ogni lingua ci sono parole affilate usate per ferire. Ad esempio gli abitanti di Nuoro hanno imprecazioni terribili:

Vai e che ti riportino in quattro – significa che sei morto.

Che ti seppelliscano a spese del Comune – significa che sei povero.

Che tu faccia l’andata del fumo – significa non lasciare traccia di sé.

Mi piacciono e mi colpiscono queste parole taglienti e artefatte, usate spesso all’interno di un conflitto, perché in qualche modo sono poesia.

La prima filastrocca del mio libro dice così:

Rabbia Rabbia

Fiato di sabbia

Sangue di gioco

Fiore di fuoco

Fiammeggia al sole

Consuma tutto

Lasciami il cuore

Pulito e asciutto

Cosa si fa quando si è arrabbiati? Bisogna sfogarsi.

Sfogarsi è una parola cha ingloba un’altra: Sfogo, se si toglie la esse diventa fogo che significa fuoco. Sfogarsi significa far fiammeggiare la rabbia.

La rabbia è una delle 5 emozioni fondamentali dell’uomo. Penso che essere arrabbiati non è

giusto o sbagliato, si è arrabbiati e basta.

Quando si è arrabbiati si può urlare, si può fare una corsa e, se capita, si può dare anche uno spintone. Io ricordo che, quando ero piccolino, ho preso tante botte ma non sono morto.

Quando parli di rabbia, credi che essa sia percepita come un modo per gestire i conflitti?

Si. Sicuramente la rabbia entra nei conflitti ma provo ad arrivarci al contrario.

Un conflitto senza rabbia è un conflitto gelido, è un conflitto premeditato, artificiale perché si mette in atto una strategia di urto e aggressione senza essere arrabbiati.

Io sono uno scrittore e parlo di una gestione verbale della rabbia. In alcuni incontri a cui ho partecipato ho sentito cose interessanti.

Mi ha colpito ascoltare che gli adulti intervengono nei conflitti esprimendo giudizi o accuse.

Spesso dicono: “Chi ha cominciato?” E istruiscono un processo, mentre i bambini, nella maggior parte dei casi, non sanno nemmeno chi ha cominciato.

Una mia filastrocca, comincia con un conflitto reale e poi diventa un’altra cosa, spiega meglio ciò che voglio dire.

E’ mio

No è mio

L’ho visto prima io

E io l’ho visto prima del tuo prima

E io prima di prima del tuo prima

E io l’ho visto che non esistevi ancora

E io è la prima cosa che ho visto

E io lo vedo ora

E io ti pesto

Facciamo a turno

No, facciamo a botte

Facciamo io di giorno e tu di notte

Facciamo io d’estate e tu d’inverno

Facciamo io nel cielo e tu all’inferno

Facciamo a chi fa prima

Facciamo a chi fa rima

Ce lo giochiamo a correre

Ce lo giochiamo a carte

Ce lo giochiamo al tiro della corda

Che cos’è che era mio?

Chi se lo ricorda

E’ chiaro che non si stanno più contendendo l’oggetto. Stanno ritualizzando su un piano diverso che è quello di vincere l’altro con la frase più astuta. Questo è un modo di far fiammeggiare la rabbia con le parole senza farla sfociare nelle botte.

Un’altra cosa che mi ha fatto riflettere è la gestione imbarazzata dei conflitti da parte degli adulti. I bambini se vengono lasciati soli sono in grado di accendere e risolvere un elevato numero di conflitti mentre giocano.

Quindi l’adulto è ad essere imbarazzato dal conflitto?

E’ straordinariamente contraddittorio che l’adulto, imbarazzato dal conflitto dei bambini è incline, ora più che mai, ai conflitti.

Noi adulti siamo litigiosissimi, urliamo per strada, siamo intolleranti, stizzosi, quasi sempre arrabbiati. C’è questa sproporzione tra la nostra litigiosità e la vista della litigiosità dei bambini che, a volte lo vivono come un gioco.

Anche se bisogna stare attenti a dire che tutto è un gioco perché se un gioco diventa brutto non fa stare bene.

Sono convinto che i bambini, anche ora che non sono mai lasciati soli, riescono a trovare degli spazi per risolvere i conflitti in modo orizzontale, confrontandosi, picchiandosi come personaggi di un gioco fatto in due. L’imbarazzo è solo nostro.

[Leggi l’intera conversazione, scaricando l’ebook di YM ]

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Bruno Tognolini, nato a Cagliari nel 1951, ha studiato al DAMS di Bologna, dove ora vive (quando non è in viaggio per i mille incontri coi lettori). Dopo un decennio di teatro negli anni ’80, ora lavora a tempo pieno come scrittore “per bambini e per i loro grandi”. Due volte Premio Andersen (e finalista per il 2013), è autore di programmi TV (4 anni di “Albero Azzurro” e 13 di “Melevisione”) e di una trentina di libri di narrativa e poesia.
Altre notizie e testi su www.tognolini.com

Feeding on the leviathan. Conflict in the doctor-patient relationship

In Filosofia, Uncategorized on 15 February 2015 at 8:39 AM

Giovanni Scarafile

My paper is related to applied ethics with special reference to the ethics of communication. The task of this discipline is to defend otherness in the various contexts where it exists. The departure point for my paper is the observation that the physician-patient relationship, instead of being the place of therapeutic alliance, is increasingly becoming a source of conflict, as is shown by the statistics on legal actions between doctors and patients, lack of communication skills identified amongst patients, and cases of burnout amongst doctors. This situation calls on ethics to take two steps simultaneously. Firstly, it must not forego the duty of indicating the rules. Secondly, it must be capable of suggesting directions where those same rules can be applied. Succeeding in this task is decisive not only in domains where the ethical approach may be welcomed, but also for ethics as such, otherwise destined to be a disembodied specialization.

1. Did you know that on average a doctor interrupts the patient’s account of their symptoms about twenty-two seconds after the patient starts talking? This is what was discovered by major international research published in 2002 in the British Medical Journal by Wolf Langewitz, executive director of the Department of internal medicine at the University Hospital in Basle, Switzerland. The article in question, entitled Spontaneous talking time at start of consultation in outpatient clinic: cohort study, written by Langewith and five other researchers, though consisting of only two pages, is still arousing discussion today due to the topical nature of its findings. In fact, 90% of patients spontaneously conclude the story of their symptoms within the first 90 seconds (and at any rate, all the symptoms within two minutes). However, very few of the patients manage to get to the end of the description of their symptoms.

Although today there has been a dramatic increase in the doctors’ capacity to make a precise diagnosis starting from the few elements reported by the patient, it is hard to deny that twenty-two seconds is actually a very short time. Furthermore, this is all confirmed by other indicators. In an interview a few years ago, for instance, published in the daily paper La Repubblica[1], Giuseppe Remuzzi, Director of the Mario Negri pharmacological research institute in Bergamo, explained that in 2005 in the United States medical errors caused the death of 90 thousand patients. In Italy, every year about 15 thousand doctors are sued for damages and it is significant that 9,5% of these cases are due to communication problems.

In more recent years, as shown by the Health Report 2010 of the Tribunale dei diritti del Malato (Tribunal of the Rights of the Sick)(3), there has been further confirmation: the lack of attention and the essential absence of good communication are what is at the bottom of the demand for intervention made by many patients.

There is, therefore, a “communication emergency” that can transform the potential therapeutic alliance between doctor and patient into an extremely conflictual relationship with judicial aspects. Faced with this discouraging feedback, something is starting to change. The ethics of communication has not yet been introduced in the curriculum a student has to study to become a doctor. Such a result would be a reasonable solution since it would gradually introduce the future doctor to the communicative competence required in the practice of the medical profession.

Today, faced with the problem of the communication gap between doctor and patient, an extremely practical solution is adopted. It consists of a series of supports provided to doctors and health professionals (managers, pharmaceutical consultants) to help them solve possible problems encountered in their professional practice. In such cases, the key-words are empowerment or coaching. The two terms are not exactly synonymous, but refer to the same sort of activity. Empowerment consists of making the person aware of their own potential. Coaching on the other hand consists of calling a group of experts to assist the health professional in carrying out their work, suggesting the best solutions to adopt on a specific issue. These two techniques enable doctors to find solutions that are often satisfactory without avoiding the problems. The quality of the doctor-patient relationship is therefore safeguarded. However, although the availability of ready-made solutions initially seems a great success, in the long-run it becomes a lost opportunity. In fact, the marked orientation of counseling (empowerment and/or coaching) towards practice, does not allow the doctor to gain familiarity with the criteria underlying the possible solutions. The result is that quality is confused with efficacy. The doctor-patient relationship, reduced to a standardized scenario in which certain strategies are to be used, loses the complexity of its relational dimension. This complexity is an indispensable factor in identifying solutions suited to the needs of the single patient. Without losing sight of efficacy in adopting possible solutions, it is therefore necessary to try to restore the relational aspect that is the foundation of the doctor-patient relationship. In other words, what should be done is the exact opposite of what is actually done. Is that impossible?

2. Faced with a feat that does not seem achievable, we are saved by the Leviathan. Yes, that very same marine monster that the western tradition has been depicted in many different ways. Thomas Hobbes, for example, a 17th century English philosopher, used the title Leviathan for his book about the legitimacy and the form of the state. Hobbes himself, however, used the image of the monster taken from the biblical tradition. The book of Job says that the monster: «makes the depths churn like a boiling cauldron, and stirs up the sea like a pot of ointment. It leaves a glistening wake behind it, one would think the deep had white hair» (Job 41.23-24 31-32?). In the later biblical tradition, every other description of this frightening creature only serves to emphasise its terrifying aspects. However, in rabbinical literature, specifically in the midraš[2] Levitico rabbah, the Leviathan and Behemoth (another legendary denizen of the deep) will fight a battle to the benefit of the the righteous all over the world. At the end of the spectacle, both monsters will be killed and the flesh of the Leviathan will be used to feed the righteous. The destiny of the Leviathan has changed. No longer the bogey-man, but a source of food. This reversal suggests the possibility that a similar transformation may also take place in the context of the doctor-patient relationship. In clinical practice, is there an element universally regarded as negative which if taken can produce positive effects for everyone?

[Read the full article, downloading the entire issue]
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[1] Cf. La Repubblica, 27 June 2007.

[2] In the rabbinical tradition, midrash designates firstly an activity and a method of interpreting the Scriptures which, by going beyond the literal meaning – called peshat or pashut (פשות), simple, obvious – scrutinizes the text in depth.

Painful conflicts

In Uncategorized on 7 February 2015 at 4:18 PM

Alberta Giani

I would like to interpret conflict through two strong emotions, deep and intense: shame and guilt.

From the etymological point of view, the word shame is derived from the Latin word “vereor” which means fear, while in English the word shame is derived from the Indo-European root “kam” meaning to hide or cover. Both of these verbs describe well, the meaning of what a person experiences when living the emotion of shame, not only are they afraid, but they would also like to hide and disappear from the face of the earth. It is primarily a social emotion because it affects the image and exposure of the self socially.

First of all, it is a negative emotion that you feel towards others and society in general. It stems from fear or more often, from the certainty of the negative opinions of others about you. When that happens, the Self-image becomes severely compromised. The negative judgment can be caused by an inappropriately said sentence, from a gesture produced that was not intended to be visible by others, by one or more actions that have been the protagonists. The feeling is that of being suddenly perceived by people in a completely different way than usual, or at least from what we wish. It is the public loss of your personal image. Also the habitual attitude or behavior of others can be interpreted in a distorted and accusatory manner. This is because in shame, we experience the negativity of the self and self-image. We witness a lack of self-acceptance for which the individual is seeing himself through the eyes of others. However, at the same time, the person perceives himself as being seen as someone different from who he is , a kind of splitting: the person treats himself as if he is detached from himself, as if he is an object. It is this process of reification that results in the loss of identity. As a result, a variety of aspects are involved: for example, honour is violated, that is the collective form of reputation and esteem based on the social image, one’s confidentiality and privacy is stolen, there is a strong feeling of failure, inability and at the same time helplessness and anger. From a psychological point of view, we have said that shame concerns the social image of the self. Even pride, embarrassment and guilt are emotions that affect the self in society. When the self becomes the center of attention it transforms these emotions, into conscious emotions depending on events and situations. This happens in an interpersonal context in which the evaluation of ourselves in relation to others and by others is at stake. In other words, the heart of the emotional experience in self-reported emotions is given by some incident involving ourselves and puts us at the center of awareness of what has happened. This family of emotions can take place only in an interpersonal context and depends on the relationships a person has with others in a social context. Being social and self-conscious, shame, embarrassment and guilt are a cultural construction, resulting from the socialization process. Despite emotions being universal, every culture establishes norms and criteria by which the conduct and behavior of the people, who are part of that particular culture are assessed. It is on the basis of these criteria that processes of social evaluation are activated after which you feel pride, guilt or shame. It is these emotions, along with others, that contribute to regulate interpersonal relationships in the flow of daily life and are often the subject of psychological games between individuals within families and social groups.

I think, for example about the quite frequent process, of humiliation, inferiorization or exaltation of others whether it is a partner, child or co-worker (Anolli, 2002).

At this point I would like to clarify about the two self-conscious emotions of shame and guilt, identifying similarities and differences. In the first place, due to the loss of self-esteem, they are both unpleasant experiences, for which each of us is led to minimize or at least avoid them. Both fall into the moral emotions, that are sensitive to the violation of rules. Moreover, they are also linked to the sense of shame and a sense of indebtedness to others: in fact, you feel a strong need for atonement. They are raised, finally, by situations of failure, defeat or in any case they are the result of rejected expectations, not only social but also emotional/affective that the individual has developed in the course of his life.

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L’arte della provocazione visuale. Dialogo con Mauro Balletti.

In Uncategorized on 6 February 2015 at 10:44 AM

Roberto Greco

Fare arte per stupire è un dono di pochi, fare arte e generare un vero e proprio conflitto visuale è davvero per rari eletti. Ho intervistato il fotografo e pittore Mauro Balletti, forse l’unico artista che ha trasformato la sottrazione di un corpo, quello della cantante Mina, nella esaltazione di un’estetica iconografica che muta e sconvolge, attraendo nel “conflitto”. Ci si accorge di come questa presenza fotografica che segnala una distanza, un confine, provoca nello spettatore un effetto straniante, non immediatamente catalogabile secondo criteri di positività o negatività. Questa battaglia inconscia dimostra, in un certo senso, l’inferiorità dello spettatore-cannibale, abituato ad assimilare e giudicare immagini sempre più velocemente.

Mauro Balletti nasce a Milano nel 1952. Figlio e nipote di pittori, è pittore e fotografo a sua volta. L’incontro fatale avviene all’incirca nel 1972, con Mina, negli uffici del grafico Luciano Tallarini. Sempre lei, nel 1973, lo convince ad utilizzare la macchina fotografica, dando vita agli scatti per il doppio album di quell’anno. Inizia contemporaneamente a curare le copertine di numerosi altri artisti e detiene, dal 1984, l’esclusiva di art director mazziniano (la copertina del disco Attila è stata esposta al MoMa di New York). Dal 1983 è fotografo di moda e realizza regolarmente lavori per Vogue ed altre riviste di grande prestigio.

Cos’è il conflitto? È la diretta conseguenza di una divergenza. Avvertirla però non è un processo scontato, anzi. Esiste un vero e proprio percorso del pensiero nella percezione di una divergenza: esso può mutare volta per volta, a seconda del “linguaggio” (testo, immagine e così via) dal quale è partito il suddetto conflitto. Nel campo iconografico ogni traccia, ogni segno contenuto nell’immagine paradossalmente può essere discontinuo e generare conflitto. Il segno “eccedente” non entra in discontinuità col resto dei segni contenuti nell’immagine: essa è percepita comunque nella sua unità. Il puzzle di tutti questi segni, semplicemente, è stridente allo sguardo. Perché? Ciò che differenzia l’immagine, nella sua essenza, da altri linguaggi è la possibilità di realizzare a letture di diverso tipo. Ogni segno, infatti, è circondato sempre da un contesto, un margine dinamico entro cui esso possa essere codificato positivamente, generando consenso, o negativamente, generando conflitto. Oltre al contesto è necessario tener presente che ogni segno ha anche una propria storia culturale che ne determina, appunto, la ricezione. In ragione di questo, non è possibile trovare un’immagine totalmente oggettiva, “adamitica” (come la definiva il saggista francese Roland Barthes), in grado di annullare qualsiasi possibile giudizio. Un’immagine può essere solo apparentemente oggettiva, perché carica di segni che rimandano ad una simbolica universale (icone, accostamenti ed espressioni presenti già nelle rappresentazioni più antiche e trascinati, che si sono trascinate di epoca in epoca, fino a diventare una sorta di patrimonio iconico). Questa riserva di accostamenti è il motore del “già visto”; per questo motivo idee apparentemente inedite sono in realtà frutto di una rielaborazione di elementi e, soprattutto, composizioni già utilizzate. Spesso e volentieri è proprio la rielaborazione del “già visto” a creare scalpore. La scelta personale di uno stile è la propria risposta di accoglienza, spesso a livello inconscio, di una forma di espressione pre-esistente ma introiettata in maniera più manifesta rispetto ad altro.

Questa intervista nasce dall’esigenza di far capire, a chi non è del mestiere, cosa vuol dire mostrare e saper mostrare.

Mauro Balletti rappresenta l’emblema dell’artista tout-court, ha l’arte nel dna (padre e nonno erano pittori). L’alone di mistero sulla sua persona è immediatamente spazzato via dalla professionalità e dal calore umano con i quali è riuscito a concedere questa intervista: un semplice “sì”e l’emozione del sottoscritto che ha realizzato un sogno. Basta osservare le opere, dipinte o fotografate, presenti sul suo sito (www.mauroballetti.com) per capire come sia impossibile tratteggiare e circoscriverlo in un unico universo creativo. Oltre ai tanti servizi di moda, è l’unico fotografo che riesce a restituire al pubblico l’immagine di Mina, disco dopo disco, attraverso foto, disegni ed elaborazioni digitali. È reduce dalla mostra L’eleganza del segno, tenutasi a Varese dal 4 al 18 ottobre di quest’anno.

La scelta si è rivelata a dir poco automatica: da appassionato di fotografia, di musica e di Mina è impossibile non imbattersi almeno una volta nelle sue opere. Fare arte per stupire è un dono di pochi, fare arte e generare un vero e proprio conflitto visuale è davvero per rari eletti. Balletti ha trasformato la sottrazione di un corpo, quello della cantante, nella sublimazione di una voce, di un’estetica iconografica che si destruttura, copertina per copertina, pur restando coerente a se stessa. E il più delle volte è questa destrutturazione, questa presenza fotografica che segnala una distanza, un confine, a generare il conflitto. Scoprire in questi anni questi scatti è stata una rivelazione, a tratti respingente ma di un fascino che non riesce a spegnersi. Per un pittore e fotografo cosa vuol dire conflitto nell’immagine? Insieme, proviamo a rispondere a questo quesito.

  1. Per quale motivo, secondo lei, determinate immagini hanno la proprietà di sconcertare, disturbare?

Credo che ci siano delle motivazioni antropologiche e d’innato senso di equilibrio estetico nell’occhio e quindi nella mente dello spettatore. Per non parlare del campo emotivo che, comunque, presiede all’approccio immediato della visione di qualunque cosa o rappresentazione. Ognuno di noi ha una struttura emotiva ed una sovrastruttura estetica che in sintesi ci dà la possibilità di una valutazione immediata di qualificazione di un’immagine, di darle un voto. Il semplice ed elementare: “Mi piace, non mi piace”.

  1. In che quantità il conflitto con l’immagine è provocato dal ritrattista/fotografo e in che quantità dall’osservatore?

C’è una co-partecipazione d’intenti, sicuramente. A volte consci a volte inconsci. La provocazione intelligente ed ironica è sempre accompagnata da un godimento sottile da parte dell’autore dell’immagine “provocatrice”. Quando la provocazione non è gratuita è sicuramente una delle molle che hanno accompagnato l’evolversi dell’arte moderna, insieme alla ricerca del “nuovo”. Questo accade quando c’è la stessa lunghezza d’onda immaginifica tra il creatore d’immagine e lo spettatore; spesso però per motivi culturali o semplicemente di gusto, può provocarsi un corto circuito tra l’intenzione casuale o prioritaria dell’esecutore rispetto alla ricezione del fruitore. […].

Leggi l’intervista integrale:

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Affection and Longing: an interview with Dheeraj Akolkar about the architecture of film and the structure of life.

In Uncategorized on 6 February 2015 at 10:28 AM

Juliana de Albuquerque Katz

Dheeraj Akolkar is an Indian filmmaker internationally acclaimed for the documentary “Liv and Ingmar” (2012), a film about the lives of Norwegian actress Liv Ullmann and Swedish director Ingmar Bergman. Mr. Akolkar is an architect graduated from the University of Pune, and wrote his master on film at the University of London. He is also the head of Vardo Films, a young film production company based in England. The company is currently having two titles in production. On October 23rd, 2013 Mr. Akolkar finished working on a new film, a documentary about the life and work of another Scandinavian genius, the painter Edvard Munch.

I had the opportunity to interview Mr. Akolkar just a few days before my trip to the Ingmar Bergman Estate at Fårö, Sweden. The place where Bergman lived and worked from 1969 until his death in 2006, and which inspired him to develop a kind of cinematic existentialism, where the language of film becomes fragmented and minimalistic, and the human condition emerges as cinema’s only natural resource. When I told him about my trip, Mr. Akolkar said: “The island is so minimal and simplified. It’s almost Zen-like. It shows that life can only exist between a couple of things— between survival, between presence and company of each other. There is not much distraction. It sets the atmosphere for Bergman.”

 

Upon hearing that, all the questions I had planned ask Mr. Akolkar lost their importance. After a two-hour Skype call between Tel Aviv and London, I discovered that I had not interviewed Dheeraj Akolkar and, instead of simply reading and answering my questions from a script, we have had a real conversation. What you can read now in Yod is a fragment of the ideas Mr. Akolkar shared with me about life, Bergman, and the spatiality of film.

YOD: Hello, Dheeraj! Before we begin to discuss your documentary, I have a question about your background. It says on IMDB that you graduated in architecture at Pune University. What made you choose architecture in the first place and how do you think architecture contributed to the way you work with cinema?

D.A.: I don’t think you ever stop being an architect. For me, architecture was a great advantage because it introduced me to a very physical process. I had to start from a concept and work for weeks until the design was made; until the project was made…and as you begin from a tiny little dot of an idea, to a three-dimensional structure, you start to think about things spatially. I look at cinema very spatially— when I’m writing the script; when I’m sitting with my editor, or when I’m editing my notes, I unconsciously use architecture as a guide. Architecture really, immediately guides you through the creation process. You can see this when you are adjusting a frame, and you ask yourself “where is this force diagram going?” The same happens in painting. I paint a little. When you start a painting you notice that you’re actually trying to figure out how the force of the painting is working. And now I see architecture more cinematically; more as an emotive medium. So, if I design a building, I will probably design it like cinema.

And now a very interesting point: now that you’re going to Fårö, please walk from one end of the Bergman house to the other. I wanted to write an article about the architecture of Bergman’s house as a theme from his cinema. Walk from one end of the house to the other and you will see exactly what I am saying—

 

There is one particular spine in the house and the rooms fall on either side. Most of the exterior of his house is stone, the interior is glass. It’s a long, fragmented house with different rooms set away from each other, yet joined from this one walkway like “Scenes from a Marriage,” or the original “Fanny and Alexander” (…six or seven different chapters connected by a single theme of two or three characters running throughout, exactly like the house.

 

YOD: I never thought about cinema in relation to space and, when I am working with Bergman, I always try to prioritize the element of time. Mostly because I believe that the reality of man, the truth about human existence reveals itself in time. But what you say about space is very interesting because, the discontinuity of time in space makes you wonder if each chapter of Bergman’s TV productions could be represented as an aphorism…in a sense that they grow with you, just like the space of a house that is built like that.

 

D.A.: Coming from architecture I don’t think that he looks at cinema very spatially. I think his films, as you rightfully said, are so much about time; about the moment. He gives a lot of importance to that. They are also very, very human. But when you look at his house you say “oh, this house is also cinematic,” his cinema translates into this house.

YOD: Did he draw the house?

D.A.: Yes. The architect said “give me all the directions of how you want this house to be and then I will design it for you.” The house is very Scandinavian in terms of its elements. There’s privacy, so that the exterior is completely impenetrable. You come there and you don’t know where to go. The entrance is so casual, it’s not grand. The house is hidden; it’s not a showoff kind of a place at all, which is also his personality— he’s drawing you in. He’s not giving you anything immediately, even in his work. And all these things are translated into his house. I have so many different interpretations of that house as an architect, and parallels with his cinema…it’s amazing.

YOD: What you say about the interior is very interesting and it really draws from his philosophical influences; from authors like Kierkegaard or even Rilke. For instance, Rilke writes about an inversed pyramid of our subjective constitution and, in a way, I believe that most of our concerns are always revolving about depth and interiors.

 

D.A.: Absolutely. If you imagine some of the interiors designed by architects like Le Corbusier, where you have gray concrete and white surfaces, you would look at Bergman and probably suggest that he is going to be all about the blacks, and the whites, and the grays. But that is not the case. He’s into the warmth of really beautiful red interiors. I say interiors, not exteriors because the exteriors are always dark.

Imagine a man with a really harsh exterior who, from the outside may appear like a monster, or may appear unperceivable, on the inside is all transparent. It’s all about the inside. The colors inside are warm and transparent, and overlooking the ocean. And what that ocean represents, really? It’s constantly buzzing; it doesn’t rest. That restlessness is what Bergman has opened his house to.

YOD: But that’s interesting too because for me it touches…going for the warm colors and leaving the exterior toward the interior…many people believe that Bergman is a nihilistic filmmaker. I don’t think so. Okay, his characters struggle to achieve forgiveness and redemption but they don’t actually achieve it. But he doesn’t exclude the possibility of forgiveness; there is always the thin little hope that something will happen.

Yes. I agree. The best scene to describe this happens in the end of “Passion of Anna.” This scene speaks a lot about this “thin little hope” that you talk about. All his films are open-ended, really! In that scene, the car drives away. Anna (Liv Ullmann) drives away and Max von Sydow’s character walks back and forth, back and forth, as the camera pulls back until he decides he doesn’t have enough strength or courage to follow her. But he’s trying to, you see? We can imagine that, if the film continues, there is still a tiny possibility that Anna will feel guilty and turn around; that she will come back to the man. There is always the possibility that they will meet. The reason why “Scenes from a Marriage” ends in that beautiful scene of the couple in bed, which is all about that intimate hope of togetherness and, the man says “Oh my back is cold,” but the beautiful possibility of togetherness he explores in “Saraband” thirty years later.

YOD: Yes, I was thinking about Saraband. That’s also a movie with an open end. Although it merges with scenes from a marriage in the beginning…

D.A.: But I think “Saraband” is more close-ended. Remember, at the end of the movie she says “today I touched my daughter for the first time.” I think that you cannot truly touch anybody before you have forgiven yourself. I think that something comes to an end in “Saraband”; something is solved or achieved— Bergman feels ready for forgiveness at the end. He has given forgiveness a chance in the end.

YOD: Now that we are talking about closure…why did you decide to make a film about Liv and Ingmar? Scandinavian film and culture, how did they come to you? Growing up in Latin America, Scandinavia seemed to me a whole other world to me. So, what was your experience?

D.A.: I was asked this question before, but never in this way. You ask it more interestingly. Many people are very surprised to learn that I’m an Indian filmmaker living in London. They ask me what I am doing with a film about a Norwegian actress and a Swedish director. My answer to that is—the film is about being human.

Cinema is about emotions. No matter where you are, we feel just in the same way. Art is the only place, literally the only place, where boundaries dissolve creatively and in an enterprising manner. When we come to a Philip Glass concert, or a Bergman film, we go in together with a lot of different people and in the darkness we experience something together. Art is the last place on this earth where borders don’t matter.

I really think that one of the most beautiful aspects of creating art is this lack of boundaries. I have stories in all parts of the world, and I should be able to tell them. So for me, it is not really Scandinavia, the film isn’t about Norway or Sweden. While preparing the film, what appealed to me was a passage in Liv Ullmann’s book. There is a moment in that book when she describes the day when Ingmar lost his mother. He told Liv “mama died today, now I have no one.” Then she writes “in that moment I knew I could never leave him and in a way I never have.” Liv says, I knew. She doesn’t say I felt or I thought. She says I knew, and that knowledge is love.

That line of the book became the theme for “Liv and Ingmar.” Our film is really about a very unique kind of togetherness. You don’t have to be under the same roof; married to a person; in a relationship of any kind to be each other’s soul mates. You have to be connected. You have to be connected in one moment of truth. That’s what being a soul mate is about.

That isn’t a Scandinavian emotion; that’s a human emotion. For this reason, we don’t divide the film into “Persona,” “Hour of the Wolf,” or “The Passion of Anna.” We divide it into “Love,” “Loneliness,” “Pain,” “Longing,” etc. You know, it’s a human story.

YOD: Upon my first contact with Scandinavian culture, I had the impression that people in that part of the world are more open to talk about their emotions; to express their strengths and expose their weaknesses, etc. I had the impression that they feel more comfortable in their own skin. Their behavior helps me understand what you said earlier about art as an expression of the human condition.

Yes. I went to Scandinavia to do this film because they were very positive about it. Nordicstories, the production company in Oslo, wanted to make the film. They took a chance on me. Since it was a story told from Liv’s perspective, it was possible for the Norwegian Film Institute to come on board. But I like that you fell in love with Scandinavia, I really fell in love with it— with the landscape and the people, because they may look cold and harsh on the outside but on the inside they’re really warm. And they’re so content in the land that they live in.

[…]

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Conflitto: realtà scissa e forme cangianti

In Uncategorized on 6 January 2015 at 3:53 PM

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Giovanni Scarafile, Direttore di YOD MAGAZINE

In generale, che ci si riferisca alla vita individuale o alla vita lavorativa, la gran parte di noi rinuncerebbe volentieri ai conflitti. D’altro canto, va anche detto che una vita dalla quale il conflitto sia espunto difficilmente potrebbe essere considerata tale. È questa duplice natura del conflitto ad averci interpellato in questo volume di YOD MAGAZINE, partendo dalla riflessione di Karl Jaspers posta in copertina.

Se si ha la pazienza di mettersi in ascolto delle diverse parti coinvolte in un conflitto, è difficile non rimanere sorpresi dalla varietà dei loro racconti. Essi non descrivono tanto – come sarebbe lecito aspettarsi – una stessa realtà colta da diverse prospettive, ma numerose realtà, profondamente diverse l’una dall’altra. Il risultato è che il conflitto che permea quei racconti sembra aver addirittura frantumato l’unità del reale, creando un labirinto inestricabile di elementi.

Ricostruire l’accordo significa prima di tutto provare a comporre in modo armonico e condiviso i diversi piani in cui, in ragione della situazione conflittuale, la realtà è stata scissa. L’immagine che abbiamo scelto come copertina si riferisce esattamente alle forme mutevoli e cangianti in cui la realtà viene convertita all’interno di una situazione conflittuale.

Ovviamente, dei conflitti esistono diversi piani di lettura possibili e la letteratura in merito ne è testimonianza. Per esempio, è difficile sottrarsi ad una tassonomia dei conflitti che consente di distinguere i conflitti insanabili dai conflitti in cui la conciliazione sembra più a portata di mano. Tuttavia, e questa è la mia tesi, qualsivoglia tassonomia non può prescindere dalla originarietà di quanto indicato in precedenza in relazione alla mutevolezza delle forme costituenti la realtà conflittuale. Parlare appropriatamente di ciò che i conflitti implicano, racchiude il tentativo di dare voce a quella multivocità di prospettive cui facevo cenno in precedenza. Secondo tale chiave di lettura, abbiamo interloquito con studiosi ed esperti autorevoli e pensato gli interventi tematici ospitati in questo volume.

Oggigiorno, anche in conseguenza dell’azione di molteplici agenzie dedicate allo studio e alla risoluzione dei conflitti, come anche della riflessione di studiosi affermati, sono disponibili numerosi vademecum sul conflitto, in grado di suggerire soluzioni prêt-à-porter, consultabili all’occorrenza (per esempio, di fronte ad un litigio con un collega sul posto di lavoro o all’interno di uno scambio comunicativo disfunzionale con il proprio partner).

È senz’altro evidente che sono ben pochi coloro che, anche in virtù dei tempi sempre più ristretti imposti dai ritmi lavorativi, possono dedicare tempo ed energie a comprendere appieno le dinamiche strutturali del confliggere. Da tale punto di vista, un orientamento pratico è senz’altro utile. Tuttavia, le guide ed i manuali, per quanto performanti possano essere, non consentono di addentrarsi proficuamente all’interno della particolarità di ciascun conflitto. Concepiti per la generalità delle situazioni, essi risultano deficitari di fronte alla necessità di farsi carico del principio di individuazione di ciascuna situazione conflittuale. Si tratta di una carenza di non poco conto, dal momento che agire su un conflitto richiede non soltanto la conoscenza di leggi che regolano il confliggere in generale, ma anche una “disponibilità” nei confronti del particolare. Per raggiungere questo risultato, è richiesta una singolare disposizione da parte di coloro che, a buon diritto, possono essere considerati operatori di pace.

In conclusione, mi si consenta di fare cenno proprio a questa disposizione che costituisce la chiave di volta di ogni risoluzione di realtà conflittuale. In un saggio del 1946 dedicato a descrivere La psicologia del transfert, Carl Gustav Jung prendeva in prestito alcune categorie dell’alchimia per spiegare le possibili dinamiche della relazione tra psicoterapeuta e paziente. Lo psicoterapeuta – questa la tesi dello studioso tedesco – non rimane impassibile di fronte alle istanze del paziente, ma in qualche modo si rende disponibile a subire una modificazione.

Carl_Gustav_Jung_portrait

Carl Gustav Jung

Parafrasando quei concetti, potremmo dire che il risolutore dei confitti deve mettere in campo non soltanto una competenza intellettuale e tecnica, ma anche una qualità morale: la disponibilità a lasciarsi “toccare”, seppure ad una distanza di sicurezza, dalle vicende che è chiamato a regolare. Questa disposizione è ben descritta nel Tractatus Aureus di Hermes, uno scritto originariamente arabo, citato dallo stesso Jung: “Chi vuol essere iniziato a quest’arte e a questa sapienza nascosta deve liberarsi del peso della superbia, essere pio e probo, profondo di spirito, umano di fronte agli uomini, di viso ilare e di lieta disposizione”.

Non una mera esercitazione accademica, ma l’attitudine a mettersi in gioco. Di fronte al conflitto, è dunque richiesta l’integrità dell’umano.

Sarà questo il motivo per cui ancora troppi conflitti risultano irrisolti?

Leggi l’intero numero di YM.

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