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Gatti che manovrano satelliti

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 9 January 2021 at 9:57 AM

Trasformazioni del lavoro nell’età della pandemia

Giovanni Scarafile

Sparkle è il nome del gatto bianco e marrone di Daniel Lakey, un ingegnere aerospaziale impegnato nella missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. Un giorno, durante una importante call, mentre Daniel era collegato da casa, Sparkle è saltato sulla scrivania reclamando le attenzioni del suo padrone, il cui lavoro consiste nel gestire un satellite in volo a milioni di chilometri dalla Terra. Ne ha parlato Marina Koren sul The Atlantic (One Thing Space Agencies Must Watch Out for Now: Cats), rassicurando sull’esistenza di protocolli di sicurezza in grado di mettere al riparo un oggetto costosissimo come un satellite dalle carenze affettive di un gatto.

La vicenda di Sparkle, la sua imprevista presenza in una riunione di lavoro dell’ESA, è utile per farci capire quanto sia diventata ordinaria nell’età dello smart working l’intersezione dei nostri spazi vitali. Come non ricordare, in proposito, la celebre irruzione dei figli del prof. Robert Kelly, durante un’intervista in diretta alla BBC del marzo 2017?

Una delle conseguenze del protrarsi della pandemia da Covid-19 è stata di rendere pressoché stabile una situazione d’emergenza come il lavoro da casa. Ciò ha contribuito a produrre una silente ma inesorabile trasformazione del paradigma del lavoro cui eravamo abituati. Infatti, se, prima della pandemia, la distinzione tra tempo del lavoro e tempo del riposo era considerato vieppiù normale, con l’avvento dello smart working, tale distinzione si è svuotata di significato. Agevolati dalla virtualizzazione consentita dalle nuove tecnologie, abbiamo provato l’ebbrezza della quasi simultanea presenza in luoghi diversi, un tempo impensabile. E così, è divenuto del tutto consueto prendere parte durante la stessa giornata lavorativa a numerose riunioni telematiche; inviare e ricevere email anche in orari notturni o, all’inizio di una nuova giornata, aspettarsi che il nostro interlocutore abbia già letto un documento inviatogli la sera prima.

In pratica, non soltanto lo spazio di lavoro è divenuto altro rispetto a ciò cui eravamo abituati (con buona pace dei gatti e dei figli del prof. Kelly), ma lo stesso corpo del lavoratore si è, per così dire, smaterializzato. Il diritto ad essere il corpo che siamo (e, dunque, anche il diritto alla stanchezza) ha lasciato spazio ad una costante operatività che, di fatto, ci rende mere funzioni delle applicazioni che siamo chiamati ad utilizzare per lavorare a distanza.

È proprio la pervasività di tali trasformazioni a richiedere l’adozione di una rinnovata etica del lavoro. Va detto che, dal punto di vista normativo, le leggi non mancano. Per esempio, la Loi Travail dell’agosto 2016, in Francia, aveva stabilito per il lavoratore un diritto alla disconnessione. Con esiti analoghi si è mossa anche la legislazione italiana, con la legge sul lavoro agile 81/207 del maggio 2017 o più recentemente con il CCNL relativo al personale del comparto Istruzione e Ricerca 2016/2018, dell’aprile 2018.

L’esperienza di ciascuno di noi, tuttavia, tristemente segnala la difficoltà di tali riferimenti normativi ad essere accolti nelle pratiche quotidiane condivise, soprattutto nei rapporti lavorativi di tipo orizzontale, un ambiente ibrido in cui è pressoché impossibile discernere la dimensione professionale, soggetta alle leggi, da quella relazionale, per certi versi più anarchica. Per fare un esempio personale, è del tutto plausibile che, in un messaggio inviato di Capodanno, una collega, approfittando degli auguri, inserisca anche informazioni lavorative che avrebbero potuto tranquillamente essere condivise dopo la ripresa delle attività accademiche.

Di fronte alle trasformazioni delle dinamiche del lavoro in cui siamo immersi, scrollare le spalle, aspettando che esse svaniscano con l’auspicabile venir meno degli eventi avversi che le hanno generate, è controproducente. Ci sono, anzi, buone possibilità che proprio quelle dinamiche siano destinate a permanere, anche quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente superata.

Per questo, il gatto che, frapponendosi tra noi e la tastiera, reclama la nostra attenzione continua a ricordarci la nostra dimensione relazionale di cui forse dovremmo maggiormente essere gelosi custodi.

Comunicare in tempo

In Direttore, editoriale on 16 July 2017 at 11:03 AM

Giovanni Scarafile

 “Ricalcolo. Ricalcolo”, ripete ossessivamente la voce del navigatore, prendendo atto che le indicazioni suggerite non sono state ascoltate. Nessuno sta guidando, però. Nello spot televisivo di un noto fuoristrada, in onda in queste settimane, vediamo un uomo che si separa dalla folla in cui era immerso fino ad un momento prima; un altro uomo che, dopo essere stato licenziato, abbandona felicemente l’ufficio; una donna che accetta una non preventivata proposta di matrimonio.

“Ricalcolo” è un modo per focalizzare l’attenzione sulle nostre aspettative e sul loro superamento dal quale possono scaturire conseguenze impreviste. Le nostre aspettative costituiscono una vera e propria trama mediante cui organizziamo il nostro lavoro: ognuno di noi ha aspettative nei confronti dei colleghi e viceversa. Generalmente, tali attese sono utili per orientarsi nel corso delle attività lavorative.

Al tempo stesso è anche vero che il fare eccessivo affidamento sulle aspettative rischia talvolta di metterci nella stessa situazione di chi cerchi di partire con il freno a mano alzato.

Spesso i problemi di comunicazione che avvertiamo in ambito lavorativo riguardano proprio le aspettative. Essi sono di tue tipi e hanno a che vedere con il tempo.

Può succedere, per esempio, che noi viviamo in anticipo rispetto agli eventi. Vivere in anticipo comporta il non tener sufficientemente conto dei ritmi dei nostri interlocutori. La nostra immaginazione è allora paragonabile ad una nuvola che giunge ad oscurare la spontaneità degli altri, dal momento che noi abbiamo già previsto tutto. In questo caso, l’altro, cioè il nostro interlocutore, anche se è di fronte a noi, è come se non fosse visto.

Da un altro punto di vista, può succedere che la comunicazione sia difficile perché noi siamo in ritardo. Essere in ritardo è un modo per alludere all’assenza della dovuta attenzione nei confronti degli altri.

Quando gli altri comunicano con noi, lasciando intravedere quanto hanno di prezioso, noi stiamo già pensando ad altro. Siamo altrove, quando l’altro c’è.

In un caso e nell’altro, sia quando siamo in anticipo che quando siamo in ritardo, noi viviamo fuori sincrono. La nostra comunicazione non può che risentire di tale assenza di sincronia.

Comunicare, invece, è sempre da persona a persona.

L’antico termine etrusco per dire persona è phersu, ed esso indica la maschera da cui, nel teatro antico, proveniva la voce dell’attore. Il significato profondo dischiuso da questa immagine è che gli strumenti di cui ci serviamo per comunicare provengono da una zona che non è visibile, cioè non è a nostra completa disposizione. Derivano da tutto questo due conseguenze, la prima riferibile alla comunicazione e la seconda riferibile all’essere persone.

Comunicare, infatti, non è un processo attivabile sempre e comunque. Esso dipende dalla nostra capacità di essere sincronizzati con coloro che sono implicati nel processo comunicativo. Al tempo stesso, siamo veramente persone quando ci rendiamo conto che gli altri non coincidono con l’immagine che noi cogliamo di loro. L’altro autentico è sempre oltre la maschera che possiamo attribuirgli.

Ecco, perché comunicare autenticamente è andare oltre ogni aspettativa, senza essere né in anticipo né in ritardo. È quella disposizione ad andare oltre ogni piano predefinito, per cercare veramente noi stessi.

Ricalcolo, appunto.

[Il presente testo è stato pubblicato in Etica Mente, rubrica della Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter – Luglio 2017]

La filosofia nelle organizzazioni

In Uncategorized on 22 December 2016 at 9:40 AM

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Giovanni Scarafile

1. Il SAS Institute è una società statunitense produttrice di software, dichiarata da Fortune la migliore azienda del mondo per l’attenzione riservata ai suoi dipendenti. I lavoratori del SAS Institute non hanno un limite ai giorni di malattia, possono pranzare e cenare con le proprie famiglie ed hanno un medico a loro disposizione 24 ore su 24. Ogni mese, inoltre, il CEO incontra i dipendenti nell’ambito di un evento chiamato Conversation over Coffee, per discutere di ogni eventuale problematica emersa nell’ambiente di lavoro [1].

Dagli asili per i figli dei dipendenti di Google, al programma di finanziamento degli studi per i dipendenti di Starbucks, gli esempi relativi alla promozione delle istanze dei lavoratori sono molteplici, anche se – superata la meraviglia iniziale – non sfugge che in molti casi si tratti di abili strategie funzionali al miglior perseguimento del profitto più di autentica attenzione alle persone. Indipendentemente dalla valenza che possiamo loro attribuire, tali dinamiche segnalano una trasformazione in atto nei contesti lavorativi, dove si affaccia, talvolta in modo prepotente, la possibilità di un lavorare bene, per il tramite del coinvolgimento delle risorse della filosofia.

Ad indagare i molteplici aspetti di una tale trasformazione interviene La filosofia nelle organizzazioni (Carocci 2016), il volume di Stefania Contesini, filosofa e counselor filosofica, da anni impegnata a riflettere su queste tematiche. In termini generali, il merito del libro è di fornire la cornice teorica ed alcuni strumenti di metodo perché la filosofia possa essere ritenuta credibile come sapere di riferimento affianco agli approcci teorici, ritenuti – a torto o a ragione – più accreditati.

2. La consulenza filosofica rientra nell’ambito della filosofia applicata. A scanso di equivoci, tuttavia, un tale applicabilità non è sinonimo di secondarietà in relazione ai compiti della stessa filosofia. In altri termini, sarebbe errato concepire i contesti come meri contenitori di idee pensate eminentemente in un altrove puro ed incontaminato. In ambito filosofico, la riscontrabile persistenza di tale pregiudizio è principalmente ascrivibile alla confusione tra rigore ed esattezza. Spesso, infatti, si tende a far coincidere la filosofia tout court con la sua distanza dal reale. Secondo questo modello, più questa distanza è accentuata più la filosofia può cogliere esattamente l’essenza delle cose. È senz’altro vero che la filosofia è sapere dell’immutabile. Tale constatazione, tuttavia, non fa della filosofia un sapere esatto. L’esattezza, propriamente detta, infatti, è più appropriatamente riferibile alle scienze il cui oggetto è statico, mentre nel caso della filosofia l’oggetto di pertinenza – pur nei limiti e con tutte le riserve insite in una tale attribuzione – è dinamico. In tal senso, andrebbe ricordata l’indicazione di Rickert secondo il quale, a differenza dei saperi particolari il cui obiettivo è di produrre conoscenze specialistiche di singoli ambiti del reale, la filosofia è quel sapere al cui interno deve essere assegnata una posizione anche all’io, cioè all’uomo. In virtù di tale specifica configurazione, l’ambito di pertinenza del filosofare non può che essere pensato come dinamico, senza con questo incorrere nell’errore di ritenere che tale dinamicità sia sinonimo di mancanza di rigore.

Del resto, già Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea, con il riferimento al regolo di Lesbo, l’unità di misura flessibile, simile al metro oggi utilizzato dai sarti, aveva proposto una delle più efficaci metafore per indicare la specificità di un sapere filosofico che rimane universale ed oggettivo in virtù della sua specificità di conformarsi ai contesti, per quanto non lineari essi possano essere. L’applicabilità è valore aggiunto, dunque. Del resto, l’idea di giustizia, senza l’equità, che della giustizia rappresenta la declinazione ai casi particolari per il tramite della phronesis, rischierebbe di diventare una idea disincarnata e decontestualizzata. In anni più recenti rispetto ad Aristotele, e sulla scia del movimento della Rehabilitierung der praktischen Philosophie, è stato Gadamer in Verità e metodo, a ricordare che «il sapere morale non può mai, per principio, avere il carattere di un sapere insegnabile tutto compiuto prima dell’applicazione» [2].

L’operatore morale, cioè, può trovare il valore non prescindendo dalla situazione in cui quello stesso valore dev’essere perseguito. Il contesto, dunque, costituisce non un ambito derivato, ma essenziale per lo stesso costituirsi del sapere morale. Conseguentemente, anche la filosofia che si confronta con i contesti non può essere sdegnosamente derubricata ad una esercitazione, secondaria rispetto ad una presunta attitudine filosofica pura.

Stefania Contesini, autrice del volume La filosofia nelle organizzazioni

Stefania Contesini, autrice del volume La filosofia nelle organizzazioni

3. All’interno delle organizzazioni, le prime richieste rivolte al filosofo sono di individuare e fornire strumenti operativi originali per conseguire nel modo più efficace possibile gli obiettivi che il management si pone. Ovviamente, già nella definizione di una tale richiesta, è operante una sorta di retorica del management che, in base al presunto valore taumaturgico assegnato alle soluzioni prêt-à-porter, intende canalizzare le competenze filosofiche in una direzione specifica. Se, dunque, una delle condizioni poste al filosofo è di essere concreto e non astratto, perché è solo al livello della concretezza che si pongono i fatti, il lavoro del filosofo nelle organizzazioni mira invece, senza demonizzare gli strumenti, a far cogliere il valore di una risemantizzazione delle stesse nozioni di astratto e concreto. Con l’avversione per la teoria, spiega Contesini, «si perde di vista il fatto che ognuno di noi agisce sulla base di teorie, o abbozzi e frammenti di esse, che rimangono spesso impliciti e che costituiscono quel sapere tacito attraverso cui formuliamo i nostri giudizi sul mondo e prendiamo le nostre decisioni».

Nella esaltazione dei fatti, contrapposti alla teoria, si dimentica «il loro intrinseco legame con il pensiero che li significa, con le emozioni che li qualificano e con la comunicazione che li scambia e li trasforma». Il risultato paradossale è che «le aziende, nonostante la loro dichiarata avversione per l’astratto, finiscono per praticare l’astrazione molto più di quanto non credano».

4. A questo punto, la filosofia può mettere in campo almeno cinque grandi competenze.

1) Competenze di concettualizzazione. Corrispondono all’abilità di assumere una distanza dalla immanenza fusionale, la corrente continua che ci lega alle cose, per fare in modo che le cose stesse ed il nostro modo di riferirci ad esse possano diventare oggetto di uno sguardo critico;

2) Competenze di argomentazione. È una vera e propria «postura etica», corrispondente al confronto di ragioni mediante le forme espressive utilizzate per comunicare. È anche vero – e puntualmente segnalato dall’Autrice – che questo genere di competenze nelle attuali prassi lavorative, sempre più connotate dall’incremento della velocità con cui produrre risultati e dalla riduzione dei tempi a disposizione, rischiano di sembrare desuete. A maggior ragione, il ricorso al loro uso costituisce una scelta qualificante per un approccio autenticamente filosofico.

3) Competenze di giudizio. Non solo la capacità di unire universale e particolare, ma anche di considerare, rendere tematica e confrontare i criteri in base ai quali si giudica.

4) Competenze di valutazione morale. Corrispondono al necessario orientamento comportamentale in una determinata situazione: «Valutare razionalmente la moralità di un’azione significa metterla in questione, cioè effettuare un’indagine critica delle argomentazioni che vengono presentate a sostegno dell’azione medesima».

5) Competenze di sensibilità morale. Consistono nel fare uso e corretto riferimento al mondo degli affetti, considerate dall’autrice alla stregua di precondizioni per la vita etica. L’Autrice sembra così prendere le distanze dall’etiche sentimentalistiche che considerano il sentimento «la fonte normativa del giudizio morale».

Dopo il loro richiamo, tali competenze vengono calate nel contesto delle organizzazioni in modo da coinvolgere le persone in «scenari culturali nuovi, chiamate a recidere, anche se per poco, il rapporto diretto con il quotidiano e a sperimentare un effetto di estraniamento, di spiazzamento cognitivo ed emotivo». Scopo di tale distanziazione è di consentire un reingresso nelle situazioni lavorative alla luce di un nuovo sguardo sull’esistente. Ovviamente, una tale operazione non può riguardare solo i singoli, coinvolti in un percorso di formazione, ma deve trovare la disponibilità delle stesse organizzazioni al cui interno i singoli operano, «perché se è vero che le persone sono in grado di fare massa critica e modificare dal basso le prassi lavorative, è altrettanto vero, e purtroppo più ricorrente, che una cultura organizzativa dissonante ha un forte potere inibitore rispetto a qualsiasi cambiamento si chiede ai soggetti».

5. Un ulteriore aspetto esaminato dall’A. sono le soft skills, competenze trasversali a più figure professionali, fondamentali per la corretta gestione del ruolo lavorativo. Assertività, autovalutazione ed ascolto fanno parte di tali competenze. Ad ognuna di esse, l’Autrice dedica specifici paragrafi, ricostruendone la genesi e gli sviluppi possibili. Nel caso dell’ascolto, non si tratta soltanto di individuare una serie di pratiche in cui esso può essere praticato. Richiamando il pensiero di Jean-Luc Nancy, Contesini ricorda come l’ascolto sia tensione verso un senso possibile, anche se non immediatamente dato. L’effettivo accoglimento della proposta filosofica dell’ascolto, con i tempi richiesti da una sua attuazione, è anche il discrimine per distinguere quei contesti lavorativi in cui l’intervento del filosofo non sia vissuto come semplice operazione di maquillage da parte del management. Riconoscere tali istanze di subordinazione della filosofia è fondamentale anche per scongiurare e disinnescare il sempre operante snobismo dei puristi del pensare i quali, ricordando Foucault, ritengono che la formazione nelle organizzazioni sia funzionale al mantenimento degli equilibri di potere sussistenti. Di fronte ai due approcci confliggenti, l’esaltazione del management da un lato e la rivendicazione della specificità di una presunta filosofia pura dall’altro, l’A. cerca una terza via, non prima di aver opportunamente segnalato che il rifiuto sdegnato ad occuparsi dei contesti tristemente consegna questi ultimi all’anomia vera e propria. Scrive, in proposito, Contesini: «lavorare per un miglioramento di capacità e atteggiamenti non esime dal continuare a battersi per realizzare, con altri metodi e interventi, quei cambiamenti in grado di portare maggiore equità, diritti e sicurezza nell’ambito lavorativo».

6. Muovendo dall’ottimo libro di Stefania Contesini, in conclusione, sia consentito di riflettere in termini più generali sulla stessa consulenza filosofica.

Essa sembra fronteggiare una sorta di cortocircuito: per poter essere accolto, il counseling richiede nei destinatari quell’attitudine all’ascolto la cui palese assenza è lo stesso presupposto per l’invocazione del counseling. Da tale inaggirabile prospettiva, sembrerebbe allora che ogni possibile proposta di counseling sia destinata, a causa dell’assenza di una grammatica comune con i suoi potenziali beneficiari, a sortire effetti blandi nelle realtà alle quali si rivolge.

In altri termini, il rischio è che si convincano della bontà della consulenza filosofica coloro che ne sono già convinti. Lo spazio della persuasione razionale mediante cui si cerca con buoni argomenti e fondate ragioni di convincere i propri interlocutori può non essere sufficiente.

Più convincente appare l’indicazione contenuta nella parole di Adam Smith, il quale ne La ricchezza delle nazioni [4] aveva osservato che «non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi ci aspettiamo la nostra cena, ma dal lor rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e non parliamo loro delle nostre necessità ma della loro convenienza». Di fatto, quelle parole suggeriscono un paradigma diverso che, certo, non rinunciando alla persuasione razionale e all’attitudine all’ascolto degli interlocutori, faccia leva sulla loro convenienza: «Perseguendo il proprio interesse – osserva ancora Smith – un individuo spesso fa progredire la società più efficacemente di quando intende davvero farla progredire». Nel richiamo alla convenienza, il filosofo ed economista scozzese individua un movente interno, effettivamente presente negli interlocutori e non semplicemente auspicato.

A mio avviso, oggi noi ci troviamo in una posizione per certi versi analoga. Il cambiamento che cerchiamo richiede risorse e leve che non possono essere soltanto auspicate o ritenute esistenti di fronte all’evidenza della loro assenza. A maggior ragione, quindi, la formulazione di proposte cogenti costituisce ancora di più un ideale regolativo irrinunciabile con il quale il counseling non può fare a meno di confrontarsi quale condizione della sua stessa efficacia.

 

 Riferimenti bibliografici

 

  1. D. D’Acquisto, 5 grandi aziende che hanno reso i propri dipendenti felici, http://www.ninjamarketing.it/2015/06/10/5-grandi-aziende-che-hanno-reso-i-propri-dipendenti-felici/, visitato il 12 dicembre 2016.
  2. H-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani 1992.
  3. Rickert, Filosofia, valori teoria della definizione, a cura di M. Signore, Milella, Lecce 1987.
  4. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 2005.