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Archive for the ‘editoriale’ Category

Gatti che manovrano satelliti

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 9 January 2021 at 9:57 AM

Trasformazioni del lavoro nell’età della pandemia

Giovanni Scarafile

Sparkle è il nome del gatto bianco e marrone di Daniel Lakey, un ingegnere aerospaziale impegnato nella missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. Un giorno, durante una importante call, mentre Daniel era collegato da casa, Sparkle è saltato sulla scrivania reclamando le attenzioni del suo padrone, il cui lavoro consiste nel gestire un satellite in volo a milioni di chilometri dalla Terra. Ne ha parlato Marina Koren sul The Atlantic (One Thing Space Agencies Must Watch Out for Now: Cats), rassicurando sull’esistenza di protocolli di sicurezza in grado di mettere al riparo un oggetto costosissimo come un satellite dalle carenze affettive di un gatto.

La vicenda di Sparkle, la sua imprevista presenza in una riunione di lavoro dell’ESA, è utile per farci capire quanto sia diventata ordinaria nell’età dello smart working l’intersezione dei nostri spazi vitali. Come non ricordare, in proposito, la celebre irruzione dei figli del prof. Robert Kelly, durante un’intervista in diretta alla BBC del marzo 2017?

Una delle conseguenze del protrarsi della pandemia da Covid-19 è stata di rendere pressoché stabile una situazione d’emergenza come il lavoro da casa. Ciò ha contribuito a produrre una silente ma inesorabile trasformazione del paradigma del lavoro cui eravamo abituati. Infatti, se, prima della pandemia, la distinzione tra tempo del lavoro e tempo del riposo era considerato vieppiù normale, con l’avvento dello smart working, tale distinzione si è svuotata di significato. Agevolati dalla virtualizzazione consentita dalle nuove tecnologie, abbiamo provato l’ebbrezza della quasi simultanea presenza in luoghi diversi, un tempo impensabile. E così, è divenuto del tutto consueto prendere parte durante la stessa giornata lavorativa a numerose riunioni telematiche; inviare e ricevere email anche in orari notturni o, all’inizio di una nuova giornata, aspettarsi che il nostro interlocutore abbia già letto un documento inviatogli la sera prima.

In pratica, non soltanto lo spazio di lavoro è divenuto altro rispetto a ciò cui eravamo abituati (con buona pace dei gatti e dei figli del prof. Kelly), ma lo stesso corpo del lavoratore si è, per così dire, smaterializzato. Il diritto ad essere il corpo che siamo (e, dunque, anche il diritto alla stanchezza) ha lasciato spazio ad una costante operatività che, di fatto, ci rende mere funzioni delle applicazioni che siamo chiamati ad utilizzare per lavorare a distanza.

È proprio la pervasività di tali trasformazioni a richiedere l’adozione di una rinnovata etica del lavoro. Va detto che, dal punto di vista normativo, le leggi non mancano. Per esempio, la Loi Travail dell’agosto 2016, in Francia, aveva stabilito per il lavoratore un diritto alla disconnessione. Con esiti analoghi si è mossa anche la legislazione italiana, con la legge sul lavoro agile 81/207 del maggio 2017 o più recentemente con il CCNL relativo al personale del comparto Istruzione e Ricerca 2016/2018, dell’aprile 2018.

L’esperienza di ciascuno di noi, tuttavia, tristemente segnala la difficoltà di tali riferimenti normativi ad essere accolti nelle pratiche quotidiane condivise, soprattutto nei rapporti lavorativi di tipo orizzontale, un ambiente ibrido in cui è pressoché impossibile discernere la dimensione professionale, soggetta alle leggi, da quella relazionale, per certi versi più anarchica. Per fare un esempio personale, è del tutto plausibile che, in un messaggio inviato di Capodanno, una collega, approfittando degli auguri, inserisca anche informazioni lavorative che avrebbero potuto tranquillamente essere condivise dopo la ripresa delle attività accademiche.

Di fronte alle trasformazioni delle dinamiche del lavoro in cui siamo immersi, scrollare le spalle, aspettando che esse svaniscano con l’auspicabile venir meno degli eventi avversi che le hanno generate, è controproducente. Ci sono, anzi, buone possibilità che proprio quelle dinamiche siano destinate a permanere, anche quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente superata.

Per questo, il gatto che, frapponendosi tra noi e la tastiera, reclama la nostra attenzione continua a ricordarci la nostra dimensione relazionale di cui forse dovremmo maggiormente essere gelosi custodi.

Tu non sei speciale

In Direttore, editoriale on 8 January 2018 at 8:12 PM

Giovanni Scarafile

Siamo spesso bombardati da inviti commerciali o da insegnamenti fasulli in cui, implicitamente e talvolta esplicitamente e senza alcuna vergogna, ci viene spiegato che siamo meglio degli altri. Proprio perché siamo migliori, noi non dovremmo esperire la sofferenza come fanno gli altri.

Dispiace dirlo, ma l’idea che siamo migliori degli altri è sbagliata. In molti cercano di sottrarsi alle sofferenze che inevitabilmente la vita propone, per il fatto di essere affascinati da una idea priva di fondamento. Indipendentemente da quanto tu possa credere, dunque, non sei speciale. Sei una persona normale, come tutti gli altri.

È vero, accettare le sofferenze non è per niente facile e tentare di sottrarsi ad esse è del tutto comprensibile. Tuttavia, se vogliamo veramente mantenere il controllo di noi stessi anche di fronte alla sofferenza, dobbiamo accettare che non siamo speciali. Questo ci aiuterà a trovare di fronte alla sofferenza la giusta collocazione.

La felicità deriva dalla capacità di trovare la giusta collocazione di fronte alla sofferenza. Questo non significa smettere di soffrire, ma piuttosto chiedersi “per quale scopo io soffro?”.

Ogni persona ha uno scopo fondamentale, anche se spesso tendiamo a dimenticarlo perché siamo completamente assorbiti dalle distrazioni.

A queste conclusioni non arriva un noioso filosofo, rinchiusosi per dieci anni in una grotta sperduta. Esse, invece, sono il risultato del ragionamento di Mark Manson, autore del libro The Subtle Art of not Giving a F*ck, un caso letterario, da 55 settimane nelle classifiche dei libri più venduti del New York Times.

Secondo Manson, se vogliamo vivere una vita lieta, è importante riscoprire il nostro scopo. Facendo ciò, sarà più facile concentrare le energie sugli obiettivi che deliberatamente ci poniamo. In questo processo, non va trascurato il valore del dubbio. Conviene, per esempio, chiedersi se lo scopo per cui siamo disposti a soffrire vale veramente la pena di essere perseguito. Ecco, una attitudine critica è ciò che può destarci da ogni sonno dogmatico, cioè da ogni cattiva convinzione riguardo le mete delle nostre azioni.

È fondamentale tenere a mente che i valori, ciò per cui agiamo, non si equivalgono. Esistono valori buoni e meno buoni. In termini generali, i valori cattivi sono quelli che non ci permettono di avere il controllo su noi stessi. Si pensi, per esempio, alla fama che dipende interamente da ciò che gli altri pensano. Occorre invece trovare valori che concretamente ci aiutino a raggiungere il nostro scopo.

Una volta, il filosofo Romano Guardini raccontò di aver fatto un sogno in cui gli fu spiegato che ad ogni uomo al momento della nascita viene donata una parola. Quella parola è determinante per la nostra vita perché “tutto ciò che accade mentre gli anni scorrono è la traduzione di questa parola, è il suo chiarimento, è la sua realizzazione” (L’opposizione polare). Quella parola, dunque, è sia un incarico che un dono. E tu, sapresti dire qual è la parola che ti è stata data in dono al momento della tua nascita?

Malgrado tutto. Dialogo sulla festa

In Direttore, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 10 September 2017 at 7:19 PM

Giovanni Scarafile

 

 

 

Riccardo – Quest’anno, finalmente, proprio una bella estate, anzi un’estate fantastica.

Gianni – Sono contento. Dai, racconta

R. – Abbiamo girato un sacco. Ogni sera, un posto diverso. Alla ricerca delle cose migliori.

G. – Fammi un esempio, sono curioso

R. Le feste, non abbiamo voluto farci mancare nulla. Quell’atmosfera, l’aria frizzante, la gente allegra. E poi, le bancarelle. Non hai idea le bancarelle..

G. – Cioè?

R. – Ogni sera ce n’erano a perdita d’occhio. Di tutti i tipi. E tanta gente

G. – Ah, ecco, tanta gente..

R. – Sì, una meraviglia. Non c’era spazio per camminare, pensa

G. – Eh sì, una vera meraviglia..

R. – Ma è bello!, non essere il solito

G. – Il solito che?, scusa

R. – Il solito musone. Una sera avresti dovuto vedere la fila per il crostone di pane con crema ai fegatini! Poi, c’era uno stand con dei cosciotti di maiale con castagne che erano la fine del mondo.

G. – Insomma, avete passato un’intera serata a mangiare, spostandovi come anime in pena di stand in stand?

R. Beh, no.. C’era pure la musica. Bella. Allegra. Musica solare degli anni ’70.

G. Ah, ecco. Così in effetti cambia tutto.

Seduti ai tavolini di un bar di piazza S. Oronzo, a Lecce, in attesa che il cameriere si accorgesse di noi, io e Riccardo ci aggiornavamo sulle ultime novità. Niente avrebbe fatto credere che fosse la metà di settembre. Né il sole, né i turisti che continuavano a passarci davanti a frotte. Tutto simile all’estate appena trascorsa. Sembravamo immersi in un luogo senza tempo. Unica eccezione, l’abbronzatura di Riccardo. Uniforme, assoluta, insuperabile. La giudicai crudele nella sua perfezione. Mentre Riccardo si era alzato per intercettare il cameriere, non riuscii a non pensare a quanto mi aveva appena raccontato. Lo trovai bizzarro. Per quanto trascorrere un’intera serata in luoghi affollati, facendo a gomitate per mangiare qualcosa, non sia il mio ideale, non faccio fatica a riconoscere che in fondo è una questione di gusti. Tuttavia, anche questa considerazione mi lasciava insoddisfatto. Sentivo che qualcosa mi sfuggiva.

“Fatto!”, disse Riccardo, sedendosi. “Ho ordinato due bitter bianchi, così abbiamo pensato pure alla tua gastrite”.

G. – Bravo! Senti un po’, che altro avete fatto?

R. – Tante cose, difficili da ricordare… Anche se, la piscialetta è insuperabile.

G. – Cosa?!

R. – Sì, una sera abbiamo fatto il pieno..

G. – Ma di cosa? Non sto capendo..

R. – Della piscialetta, no?

G. E che sarebbe?

R. Ma dove vivi!! È una specie di focaccina che fanno qui, nel Salento

G. Mai sentita..

R. È perché non ti muovi mai, stai sempre chiuso in casa. La piscialetta è una cosa tradizionale, che abbina cultura e tradizione e soprattutto è buona, buonissima. Poi c’era pure la sagra del polipo e pure lì ci siamo fatti neri

G. Immagino..

Guardavo Riccardo con leggero sgomento. Quell’elenco univoco di situazioni goderecce, cifra di un’estate fantastica, mi facevano venire il dubbio che si trattasse di uno scherzo cui mi stavo prestando involontariamente. Possibile che non vi fosse null’altro da registrare come significativo di una bella estate? A costo di farmi del male, decisi di andare avanti con le domande. Prima o poi, sarebbe venuto fuori un dettaglio di altro genere.

G. – Dai, dimmi qualche altra cosa. Possibile che non abbiate trovato qualcosa di più poetico?

R. Pensandoci un po’ su. –  Beh, sì. La panissa.

G. Non ne ho mai sentito parlare. È un’antica abbazia?

R. Nooo, che vai a pensare?!! È un piatto della cucina piemontese a base di riso, fagioli e salame.

Smisi di ascoltare. Purtroppo, Riccardo non si stava prendendo gioco di me. Era sincero e niente avrebbe potuto scuoterlo dalle sue certezze. Distolsi per un attimo lo sguardo da lui, per guardare sulla mia sinistra l’anfiteatro romano dove un gruppo di ragazzi, forse studenti, cercava di mettersi in posa per una foto di gruppo. Fu così che mi tornò alla mente un libricino di Josef Pieper, dedicato al senso della festa. Tentando di recuperare i dettagli di quella lettura, tornai a guardare Riccardo, che intanto sorseggiava il suo aperitivo. Il cameriere si allontanava dal nostro tavolino, dopo aver posato gli aperitivi, ed io non mi ero accorto di niente. Ora guardavo Riccardo aprire la bocca e parlare –  forse della panissa –  ma io non lo sentivo. Non sentivo più alcun suono. Era il segnale che il mio organismo stava mandandomi che non avrei potuto tollerare oltre una ulteriore sequenza di insulsaggini.

G. – Sai, Ricca’, la cosa strana?

R. – No, qual è?

G. – Se ogni giorno è festa, non c’è più festa.

R. – Cioè? Che vuoi dire?

G. – Voglio dire che la festa ha un senso se è l’eccezione rispetto ad un quotidiano vissuto come ferialità, come tempo del lavoro. In questa prospettiva, la festa è l’altro rispetto al lavoro. Insomma, la festa, per essere autenticamente tale, deve essere alternativa al lavoro, ma in qualche modo lo implica. Non può eliminarlo del tutto. Se ciò avvenisse, verrebbe meno il senso stesso della festa.

R. – Vabbè, ma io ero in ferie.

G. – Sì, d’accordo. Ma non sto parlando proprio di te. Sto facendo un ragionamento in generale.

R. – No, dai, non cominciare a fare discorsi complicati. Godiamoci ‘st’aperitivo in santa pace..

G. – è che mi pare esistere un modo per godersi veramente la festa più vero rispetto ad altri, tutto qua.

R. – Se è così, la cosa mi interessa.

Josef Pieper

G. – Beh, proprio la constatazione – come in fondo tu hai potuto verificare quest’estate – che ogni giorno c’è una festa rischia di farci perdere di vista il senso della festa e questo è un bel problema.

R. – Francamente, non vedo dove sia il problema.

G. – Il senso della festa non si esaurisce nel godimento di ciò che viene festeggiato. Quel senso, se inteso in modo corretto, conduce al di là della festa.

R. – Già, ma se conduce al di là della festa, come dici tu, significa che la festa è finita?

G. – Ma no. Significa che la festa può farci vedere, può farci considerare delle cose che altrimenti non avremmo visto. Per fare questo, però, la festa non può essere qualcosa di totalizzante ed onnicomprensivo.

R. – Scusa, ma che cacchio significa totalizzante e onnicomprensivo?

G. – In parole povere, significa che ci sono degli argomenti che possono essere colti veramente se si apre lo sguardo, se si prova a guardare oltre. È una cosa che scrive Josef Pieper in un libro che dovresti leggere.

R. – No, per carità. Mi vedi a leggere un libro di filosofia?

G. – In effetti, non ti vedo. Ma forse potrebbe essere utile

R. – Io invece credo di no. Insomma, che cosa c’entra la filosofia con la festa? Possibile che i filosofi si debbano mettere in mezzo a tutto? È tanto difficile ammettere che ci sono tanti tipi di feste e che ognuno è libero di scegliersi la festa che vuole tutte le volte che vuole? Che c’è di male?

G. – Quello che tu dici non è sganciato da una concezione più generale, ma anzi la esprime.  L’idea secondo cui esistono diverse scelte dotate di uguale valore è una idea vecchiotta. Proprio mentre pensi di agire, rivendicando con orgoglio la distanza da qualsiasi atteggiamento riflessivo, ci sei invischiato dentro. Con la differenza, che non lo sai.

R. –   Sarà come dici tu, ma io mi trovo benissimo.

G. – Non sei l’unico. È una cosa che riguarda la gran parte delle persone.

R. – E quindi, qual è il problema?

G. – Ricca’, tu sostieni una cosa chiamata “relativismo”.

R. – è grave?

G.  – Il problema del relativismo è che, mentre sostiene che tutte le scelte e tutte le opzioni teoriche hanno uguale valore, deve, per poter esistere ed essere considerato valido, fondarsi sull’idea che almeno una di queste opzioni, la sua, sia più valida delle altre. Se ciò non fosse, dal punto di vista logico, l’intero castello crollerebbe.

R. – Non ci ho capito nulla..

G. – Non è complicato: per poter sostenere che tutte le cose hanno uguale valore, il relativismo ha bisogno che almeno una di queste cose non sia equivalente alle altre, non abbia cioè lo stesso valore delle altre..

R. – .. si trovi su un gradino più alto, diciamo.

G. – Esatto, bravo! Questa cosa che deve trovarsi su un gradino più alto, cioè che deve valere più delle altre è il relativismo stesso. Mentre afferma che tutto ha uguale valore, il relativismo nega che tutto ha uguale valore. Capito ora?

R. – Mi sembra di sì. Ma da questo cosa deriva?

G. – Deriva una cosa semplice: che puoi continuare quanto vuoi a credere che ciò che pensi sia vero, solo che stai credendo ad una cosa senza fondamento.

R. – Cazzarola.. A questo non avevo mai pensato.. Ma come siamo arrivati qua? A proposito di che cosa?

G. – Siamo arrivati qua perché ci stavamo chiedendo se tutte le feste si equivalgano ed io ti stavo parlando di un libretto che ho letto qualche tempo fa.

R. – Beh, e che dice questo libretto?

G. – Pieper, l’autore del libretto, spiega che la festa è un modo per raggiungere l’autenticità.

R. – Ah, sì, la vita autentica, come il libro di quel teologo, come si chiama..

G. – Mancuso

R. – Ecco sì, Mancuso. Me l’hanno regalato, ma non l’ho letto.

G. – Mancuso dice che anche la condizione sociale, le stesse relazioni possono diventare luoghi dell’inautenticità quando sono la casa della menzogna. Vivere nella menzogna può essere qualche volta comodo, poi però arriva un momento nella vita in cui ti guardi indietro e, nonostante tutti gli eventuali successi che puoi aver raggiunto, ti accorgi che non rimane niente di vero. Quando sei arrivato al punto in cui la menzogna è tutta la tua vita, allora..

R. – Allora, è proprio un casino.. Ho fatto bene a non leggere ’sto libro, che tristezza, Madonna santa!

G. – Non è che il libro sia triste è che fa un’analisi di alcune situazioni..

R. – No, no, parlami di questo libretto che hai letto tu che parla della festa.

G. – Ah, sì, ecco, secondo Pieper nella vita si può vedere più o meno bene, più o meno profondamente nelle cose. Vedere di più o vedere di meno non sono la stessa cosa, no?

R. – Beh, sì, c’è una bella differenza.

G. – Questa capacità di vedere meglio le cose, non è soltanto una capacità dell’intelletto. C’è dentro anche una disponibilità a cercare un accordo, chiamalo sentimento, con quello che vedi. É un concetto di cui aveva scritto anche Teilhard de Chardin “essere di più è unirsi di più … la unità cresce solo se è sorretta da un accrescimento di coscienza”. Insomma, nelle cose che ci stanno di fronte è possibile cogliere un valore aggiunto.

R. – Quindi, se ho capito, parlare di valore aggiunto è come dire che non tutte le vie si equivalgono e che c’è una via più umana rispetto alle altre?

G. – Sì, è così, bravo! A questo aggiungi, che, secondo Pieper, questa via è raggiungibile partendo dalla festa.

R. – Non ho capito però dove si arriva seguendo questa via.

G. – Se ci si allena a distogliere lo sguardo dalle cose mutevoli per cercare ciò che resiste ad ogni mutamento, ciò che i filosofi chiamano l’essenza delle cose, allora si è acquisita una disponibilità alla contemplazione.

R. – Contemplazione?!! Ma allora è una cosa da preti!

G. – Senti, mi sono scocciato. Basta, non parliamone più. Qualsiasi cosa ti dica, mi sembra che ti rimbalzi sopra.

R. – Eeeehh, come siamo suscettibili! No, veramente, mi interessa. Qual è il senso del discorso di Pieper?

G. – Secondo questo filosofo, è possibile festeggiare in senso autentico non partendo dal motivo di una festa. Il motivo è sì importante, ma non è la cosa più importante.

R. – E qual è la cosa più importante?

G. – La cosa più importante è raggiungere, tramite ciò che prima chiamavamo contemplazione, un consenso con il mondo. Lui dice un “consenso universale, che si estende al mondo intero, alla realtà delle cose e alla stessa esistenza umana”.

R. – Senti Gia’, non è per prenderti in giro, ma a parte il fatto che ho parecchi dubbi su questa cosa della contemplazione, non vedo come si possa concordare con questa teoria. Insomma, ammesso e non concesso che si riesca attraverso la contemplazione a vedere il senso di tutte le cose, tu veramente credi che si possa essere d’accordo con il senso, cioè che si possa gioire con il senso delle cose?

G. – Spiegati meglio, per favore.

R. – Ma, dico, siamo matti?! A me sembra che la realtà sia in generale negativa. Come si può pensare, ragionando seriamente, di potersi accordare con la realtà? Di gioire con la realtà nella realtà? C’è forse bisogno di fare un elenco delle cose che non vanno in questo mondo?

G. – In effetti, di questo parla Pieper quando dice “celebrare una festa significa: celebrare per un motivo speciale e in modo inusuale l’approvazione del mondo già data da sempre”.

R. – Senti, questa teoria non è credibile, razionalmente parlando.

G. – Effettivamente, c’è un elemento di fiducia, di affidamento verso la bontà del senso del mondo. Per vedere, per sentire questa fiducia, bisogna allenare lo sguardo e questo lo si può fare solo se si recupera il senso autentico della festa.

R. –  Io penso invece che siccome il mondo non va, in senso generale, si deve ogni tanto allontanarsi da questo mondo, prendersi una pausa. È questo il senso vero della festa.

G. – Io penso che ci sia da fare i conti con una sensibilità sismografica.

R. – E che sarebbe?

G. – Mah, è un po’ quello che ti dicevo agli inizi. Ci sono delle cose che possono essere viste integralmente se si guarda più lontano rispetto alle cose stesse. La festa è una di queste cose. Se non si acquisisce uno sguardo diverso sulla realtà, è difficile raccapezzarsi. Solo così la festa è festa, malgrado tutto.

R. – Sì, vabbè, lo sguardo diverso, la sensibilità sismografica. Mah… Forse hai ragione tu, non so. A me sembrano solo teorie, complicazioni inutili. E poi, diciamocela tutta, vuoi mettere ’sto Pieper con la sagra della municeddha?!

 

[Questo testo è l’editoriale del numero di YM Della Festa]

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Dai segni del cambiamento al cambiamento dei segni

In editoriale on 1 September 2017 at 10:29 PM

EDITORIALE

Giovanni Scarafile

Una pagina tratta dal Systema Naturae di Carl von Linnè

1. Carl von Linnè, celebre medico e naturalista svedese, nel 1735 pubblicò il Systema Naturae, un’opera che sarà universalmente ricordata perché in essa per la prima volta il mondo naturale viene classificato in regno animale, vegetale e minerale. Nella sua prima edizione, l’opera includeva 549 specie. Nel 1766-68, quando fu preparata l’ultima edizione, le specie erano diventate 7000 e le pagine del volume erano lievitate da 10 a 2300. Sembrerebbe un dato privo di particolare significato, eppure secondo alcuni studiosi (Weingart 2010), proprio in questo dato, è ravvisabile il passaggio dall’antico al moderno. Ma come, generazioni di studenti hanno sudato le sette camicie sui testi di Heidegger – solo per citare uno dei filosofi più famosi – per capire l’avvento della modernità, fatta coincidere con l’avvento della capacità di rappresentarsi il mondo, ed ora quello stesso paradigma sarebbe contenuto in un evento editoria- le di così poco conto?

In realtà, l’avere più dati porta con sé l’esigenza di organizzare quei dati. Paradossalmente, più dati significa meno dati da gestire, se sei in grado di escogitare un metodo per maneggiare le informazioni. L’aumento dei dati a disposizione, sperimentata da Linnè, non è allora solo una questione quantitativa. È il gate attraversando il quale il metodo della concettualizzazione matematica degli oggetti comincia ad essere riferito ad altri campi del sapere.

2. Siamo propri sicuri che una tale estensione da un campo all’altro funzioni? Chi ce lo garantisce? Quali antidoti esistono? Domande del genere devono essersele poste coloro che hanno assistito a questa evoluzione, nient’affatto scon- tata. La scienza inizia a rivendicare una validità su ambiti sempre più vasti e, come contrappeso, viene delineandosi il ruolo arbitrale di coloro cui è demandato il compito di vigilare.

E così, gli scritti, gli articoli, i libri diventano sempre più specializzati. Non ci si rivolge più al pubblico, ma ai colleghi studiosi. È il periodo in cui sorgono le società scientifiche interne a ciascu- na disciplina. Secondo Hermann von Helmholtz, noto medico e fisiologo tedesco, vissuto alla metà dell’Ottocento: «Ogni singolo ricercatore è indotto a sce- gliere una sempre più piccola area come suo luogo di lavoro e può soltanto man- tenere una conoscenza incompleta delle aree vicine» (Weingart 2010: 7). L’ideale dell’unità del sapere non scompare del tutto, ma esso comincia ad apparire come chi si ostini a ballare il twist mentre ascolta i ritmi tipici dell’electro-house. Essere fuori tempo, potremmo anche dire.

3. Le forme della comunicazione scientifica (prosa e struttura degli articoli scientifici, per esempio) non sono decisi dal caso, né sono eterni. Essi scaturiscono dai particolari bisogni di un periodo. Nell’editoriale Preparation of Abstracts, pubblicato nel 1920 sull’Astrophysical Journal, Gordon Scott Fulcher, uno studioso noto soprattutto per le sue ricerche sulla viscosità, suggeriva il metodo di far precedere ciascun articolo scientifico da un abstract, “preparato dall’autore e consegnato con il manoscritto”. L’inserimento di un abstract è diventato per noi del tutto consueto, ma non era così quando Scott Fulcher scriveva. La sua idea, che avrebbe di fatto rivoluzionato il modo scientifico di pubblicare un articolo, era una novità assoluta e scaturiva dalla necessità di consentire agli scienziati di individuare velocemente il tipo di contenuto più confacente alle proprie ricerche, escludendo articoli meno pertinenti.

4. Esaminando in una ricerca pluriennale un campione significativo di articoli scientifici scritti dal 1600 al 1900, Alan Gross, Joseph Harmon e Michael Redy hanno provato ad individuare la linea selettiva seguita dalle forme di espressione. Per descrivere tale progressione occorre fare riferimento ai tre elementi costitutivi di un contributo scientifico. Si tratta dello stile, della presentazione e dell’argomentazione.

a) Lo stile indica ogni caratteristica di un testo il cui focus è formato dalla sin- tassi delle frasi o dalla scelta delle parole.

b) La presentazione indica i modi in cui il testo è organizzato ed in cui sono mostrati i dati in esso contenuti.

c) L’argomentazione indica l’insieme dei mezzi impiegati per supportare le affermazioni.

Dalla disamina di centinaia di articoli scientifici dal 1600 al 1900 emerge un triplice referto:

  1. nel corso dei secoli ed in modo costante, lo stile si adatta per consentire alla mente del lettore di concentrarsi sulle cose;
  2. nel corso dei secoli ed in modo costante, si assiste allo sviluppo di stile e presentazione per far fronte ad una crescente complessità;
  3. nel corso dei secoli ed in modo costante, le rappresentazioni visive sono progressivamente integrate con gli argomenti.

[Continua la lettura, sostenendo YM]
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La signora che tradì il marito perché non caricava la lavatrice

In Direttore, editoriale on 26 August 2017 at 5:51 PM

 

Edward Hopper, Compartment C Voiture 193

Come reagireste di fronte ad una signora che, conosciuta in un viaggio in treno da non più di dieci minuti, candidamente confessi di aver tradito il marito perché «non caricava mai una lavatrice»? Me lo sono chiesto, mentre la signora, sulla quarantina, lunghi capelli biondi, elegante in un tailleur blu, mi guardava in attesa di una reazione.

  • «Sei una pazza furiosa e le tue cose sentimentali non mi interessano. Ora, fammi leggere in santa pace, ammesso che tu capisca il senso della parola ‘leggere’», avrei voluto dirle.
  • «Scusi, e che cosa le rispondeva suo marito, quando gli faceva notare di detestare il suo disimpegno domestico?», le ho invece chiesto.

E lei, a quel punto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ha risposto: «Beh, non gliel’ho mica detto, ovvio no?».

Poi, per mia fortuna, la conversazione è scivolata su altri argomenti.

Per giorni mi sono comportato nei confronti di questo episodio con lo stesso atteggiamento di chi cerchi di ritrovare le chiavi di casa smarrite. Ci pensavo in continuazione, ripercorrendo mentalmente ogni singolo frammento di discorso, ogni movimento del corpo, ogni pausa. Niente, non trovavo niente. Eppure, ero convinto che qualcosa di rilevante ci fosse nel dialogo con la signora in blu. Poi, una mattina, appena sveglio, ho visto meglio. Non era la scelta della signora, né il fatto che avesse deciso di farne menzione ad un estraneo, ad interessarmi. Ciò che mi aveva colpito era il modo in cui la donna aveva inteso sancire la presunta normalità della sua scelta, ancorandola alla domanda «ovvio, no?». Compiere una scelta, fondandola su un singolo aspetto del problema, non dovrebbe essere una cosa ovvia. Eppure, un tale modo di procedere, non è infrequente anche in ambito lavorativo: ammettiamolo, quante volte ci capita di giudicare una intera situazione, partendo da una singola vicenda? Decidere in base ad una valutazione parziale ha profonde implicazioni sul versante della comunicazione. Spesso, infatti, comunichiamo male non perché usiamo strumenti inefficaci, ma perché la valutazione della realtà – su cui la comunicazione si fonda – era insufficiente.

Nel 1999, Christopher Chabris e Daniel Simons, due studiosi dell’Università di Harvard, realizzarono un esperimento chiamato The Invisible Gorilla. Ai partecipanti veniva mostrato un filmato in cui due gruppi di ragazzi, vestiti rispettivamente con una maglietta bianca e una maglietta nera, simulano una partita di basket. I partecipanti all’esperimento vengono informati che lo scopo è di contare il numero di passaggi dei ragazzi con la maglietta bianca. Quando il filmato finisce circa la metà dei partecipanti non ha notato che, ad un certo punto del video, una persona travestita da gorilla ha attraversato il campo di gioco da destra verso sinistra, fermandosi in mezzo ai giocatori, battendosi il petto, per poi allontanarsi indisturbato. Quell’esperimento dimostra che la nostra percezione è fuorviata ogniqualvolta ci concentriamo solo su un particolare, tralasciando di considerare l’intero. L’esperimento del gorilla (noto come “Test di attenzione selettiva”, visibile su Youtube) ha confermato che la possibilità stessa di percepire qualcosa si fonda non tanto su una presunta capacità di identificare l’elemento che vogliamo mettere a fuoco, ma sul rapporto che si istituisce tra l’oggetto da vedere e lo sfondo in cui esso si colloca. Per farla semplice: la nostra percezione funziona correttamente quando è relazionale, quando cioè è in grado di riconoscere le relazioni. Di conseguenza, per essere effettiva, anche la comunicazione deve tener conto dello stesso processo. Possiamo comunicare compiutamente quando siamo in grado di vedere bene ogni singolo elemento insieme all’intero in cui esso si colloca.

Ecco perché una decisione (tradire o meno il marito), non andrebbe assunta ancorandosi esclusivamente ad un singolo elemento (la scelta di caricare la lavatrice), isolato rispetto al contesto.

L’indicazione che scaturisce da quanto precede è che per comunicare bene, bisogna vedere bene.

Spesso, molte comunicazioni falliscono prima ancora di nascere per un difetto di percezione, perché non abbiamo tenuto conto dello spazio. Non andrebbe mai dimenticato che le persone, ogni persona, già dalla stessa etimologia del termine, si pone sempre al di là di ogni nostra possibile determinazione. La persona è il tutto, mentre ciò che possiamo dirne è solo una parte. Siamo invece soliti inchiodare gli altri alle nostre visioni parziali e, inesorabilmente, quando ciò succede, la comunicazione è condannata al fallimento.

A questo punto, la domanda iniziale torna ad essere attuale e non smette di pungolarci: quante volte ci è capitato di valutare l’intero, partendo da una parte?

Ecco che, ora che ci penso, forse c’è poco da meravigliarsi della scelta della signora in blu, perché mutatis mutandis ciò che lei rappresenta è dentro ognuno di noi.

(Il presente testo è stato scritto per SIC DIXIT, Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter).

Comunicare in tempo

In Direttore, editoriale on 16 July 2017 at 11:03 AM

Giovanni Scarafile

 “Ricalcolo. Ricalcolo”, ripete ossessivamente la voce del navigatore, prendendo atto che le indicazioni suggerite non sono state ascoltate. Nessuno sta guidando, però. Nello spot televisivo di un noto fuoristrada, in onda in queste settimane, vediamo un uomo che si separa dalla folla in cui era immerso fino ad un momento prima; un altro uomo che, dopo essere stato licenziato, abbandona felicemente l’ufficio; una donna che accetta una non preventivata proposta di matrimonio.

“Ricalcolo” è un modo per focalizzare l’attenzione sulle nostre aspettative e sul loro superamento dal quale possono scaturire conseguenze impreviste. Le nostre aspettative costituiscono una vera e propria trama mediante cui organizziamo il nostro lavoro: ognuno di noi ha aspettative nei confronti dei colleghi e viceversa. Generalmente, tali attese sono utili per orientarsi nel corso delle attività lavorative.

Al tempo stesso è anche vero che il fare eccessivo affidamento sulle aspettative rischia talvolta di metterci nella stessa situazione di chi cerchi di partire con il freno a mano alzato.

Spesso i problemi di comunicazione che avvertiamo in ambito lavorativo riguardano proprio le aspettative. Essi sono di tue tipi e hanno a che vedere con il tempo.

Può succedere, per esempio, che noi viviamo in anticipo rispetto agli eventi. Vivere in anticipo comporta il non tener sufficientemente conto dei ritmi dei nostri interlocutori. La nostra immaginazione è allora paragonabile ad una nuvola che giunge ad oscurare la spontaneità degli altri, dal momento che noi abbiamo già previsto tutto. In questo caso, l’altro, cioè il nostro interlocutore, anche se è di fronte a noi, è come se non fosse visto.

Da un altro punto di vista, può succedere che la comunicazione sia difficile perché noi siamo in ritardo. Essere in ritardo è un modo per alludere all’assenza della dovuta attenzione nei confronti degli altri.

Quando gli altri comunicano con noi, lasciando intravedere quanto hanno di prezioso, noi stiamo già pensando ad altro. Siamo altrove, quando l’altro c’è.

In un caso e nell’altro, sia quando siamo in anticipo che quando siamo in ritardo, noi viviamo fuori sincrono. La nostra comunicazione non può che risentire di tale assenza di sincronia.

Comunicare, invece, è sempre da persona a persona.

L’antico termine etrusco per dire persona è phersu, ed esso indica la maschera da cui, nel teatro antico, proveniva la voce dell’attore. Il significato profondo dischiuso da questa immagine è che gli strumenti di cui ci serviamo per comunicare provengono da una zona che non è visibile, cioè non è a nostra completa disposizione. Derivano da tutto questo due conseguenze, la prima riferibile alla comunicazione e la seconda riferibile all’essere persone.

Comunicare, infatti, non è un processo attivabile sempre e comunque. Esso dipende dalla nostra capacità di essere sincronizzati con coloro che sono implicati nel processo comunicativo. Al tempo stesso, siamo veramente persone quando ci rendiamo conto che gli altri non coincidono con l’immagine che noi cogliamo di loro. L’altro autentico è sempre oltre la maschera che possiamo attribuirgli.

Ecco, perché comunicare autenticamente è andare oltre ogni aspettativa, senza essere né in anticipo né in ritardo. È quella disposizione ad andare oltre ogni piano predefinito, per cercare veramente noi stessi.

Ricalcolo, appunto.

[Il presente testo è stato pubblicato in Etica Mente, rubrica della Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter – Luglio 2017]

L’invisibile parte degli esseri

In Direttore, editoriale, Uncategorized on 3 January 2017 at 7:11 PM

Giovanni Scarafile

 

1. «Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri».

Nelle parole scritte da Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione si fa riferimento ad uno dei primi referti dell’attività percettiva. Per certi versi, quanto rivelato nelle parole del filosofo francese e, prima di lui, in quelle del movimento della psicologia della forma, è sorprendente per diverse ragioni.

Prima di tutto, perché quel referto riguarda il modo in cui è possibile vedere tutto ciò che ci sta intorno. L’esperienza del vedere è una attività talmente costitutiva di ciò che siamo che difficilmente si è disposti ad ammettere che possa essere diversa da come l’abbiamo sempre direttamente esperita. Il vedere è la nostra prima fonte di informazioni e se si scoprisse che le cose stanno in modo diverso rispetto a come ce le aspettiamo, allora saremmo costretti a trarne le conseguenze su molti livelli.

i-segreti-della-scogliera-di-marco-esposito-188x300L’indicazione di Merleau-Ponty sta, dunque, lì come un monito, alludendo ad un rapporto non aggirabile tra visibile ed invisibile. Il nostro vedere, dicono quelle parole, è possibile perché si istituisce una relazione tra la figura e lo sfondo. La figura è l’oggetto su cui di volta in volta dirigiamo lo sguardo. È ciò che vogliamo vedere quando vediamo. È ciò che mettiamo a fuoco. Tale visto è individuato tramite le relazioni che lo collegano a ciò che gli sta intorno.

Si tratta di dinamica inavvertita. Si compie ogni giorno in modo del tutto automatico ed è quindi inevitabile che ad essa non solo non si presti alcuna consapevole attenzione, ma che sotto silenzio cadano le sue implicazioni: alla identificabilità di qualcosa (ciò che vogliamo vedere) noi giungiamo per il tramite di ciò che si oppone a quella stessa identità in costituzione. Per dirla altrimenti, si individua l’essere per il tramite del non essere, o in termini più figurati, la luce per il tramite del buio. Queste entità, pur rimanendo opposte, sono dunque molto meno separate di quanto solitamente si pensi [1].

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Marco Esposito, autore de I segreti della scogliera.

 

2. Giuseppe Scrimieri, lo scrittore protagonista de I segreti della scogliera di Marco Esposito, si rifugia a Torre del Fiume, una località marina sulla costa salentina, per cercare di trovare l’ispirazione giusta per scrivere il suo ultimo libro.

La scelta del luogo non è casuale. Venti anni prima, infatti, il successo del romanzo precedente, ambientato nello stesso posto, era stato in gran parte dovuto alle storie surreali ed inquietanti degli abitanti del paesino. Modificare ad arte i loro nomi, tuttavia, non era stato sufficiente per evitare che si potessero riconoscere come protagonisti della storia narrata. A spiegare l’atmosfera che attende Giuseppe ci pensa lo stesso Esposito:

«Per anni, il male strisciante era cresciuto e si era alimentato sotto di loro, nutrendosi della calunnia come un parassita silenzioso. Le conseguenze del libro l’avevano portato alla luce, svelandolo in tutto il suo orrore. […]. Avevano nutrito il male tutto quel tempo, divenendo inconsapevolmente carne da macello, e ormai era quello il loro destino».

Giunto a destinazione, Giuseppe dovrà ben presto abbandonare l’ingenuità che all’inizio, forse eccessivamente, lo connotava e rendersi conto che la realtà è diversa rispetto alle attese.

Il vecchio Joe, per esempio, con cui nel passato aveva trascorso molto tempo a giocare a scacchi, ora inspiegabilmente gli riserva una accoglienza fredda e distaccata. Maria Cipressi, le vicende del cui figlio Pasquale erano state al centro del precedente libro di Giuseppe, si rivela glaciale, nonostante il garbo apparente. Nadia Cataldo, la pescivendola, con cui lo scrittore aveva avuto un fugace flirt, decide di non farsi trovare.

Nonostante tali diffidenze, Giuseppe si ambienta nella casa sulla scogli9788806129705_0_0_324_80.jpgera dove, ispirato dal mare, ritrova la liturgia della scrittura, fatta di silenzi e concentrazione. Tale ricercata solitudine, tuttavia, non lo isola dalla vita della comunità in cui è tornato a vivere. E così, gradualmente ed inesorabilmente, le vicende dei personaggi del romanzo iniziano ad incastrarsi e Giuseppe comincia a rendersi conto dell’esistenza di fili invisibili che li legano. La vicenda assume un ritmo vertiginoso nella parte finale del libro. Simile ad un lampeggiante di una sirena che, ruotando su se stesso, proietti la sua luce su ciò che gli sta intorno, la scrittura di Esposito con agilità inizia a mostrare i lineamenti di una realtà che, a lungo sopita, si risveglia lentamente. Tanto erano reali le descrizioni dei posti e delle persone nella prima parte del libro, tanto ora nella seconda parte quella accuratezza delle descrizioni lascia spazio ad una inversione delle matrici del reale. Ciò che sembrava normale, si rivela patologico.

Certo, nel libro di Esposito non mancano alcune distonie, come un caminetto acceso in piena estate e forse l’eccessiva ingenuità di Giuseppe. Tuttavia, esse non inficiano il valore di una scrittura che riesce nel difficile compito di rivelare come l’invisibile sia costitutivo delle nostre esperienze, molto più di quanto saremmo soliti aspettarci.

Varcata la soglia della plausibilità dell’invisibile, la stessa realtà assume connotati prima inimmaginabili. Ne I segreti della scogliera tale mutazione viene misteriosamente incarnata da un’anziana donna, che, riconoscibile anche per la presenza di un dente giallo lungo fino al mento, è presente nei momenti salienti in cui la vicenda si dipana. L’identità della vecchina, vestita di nero, seduta su una sedia bianca di plastica in compagnia di un grosso cane nero (richiamo a Cani neri di McEwan?) sarà rivelata solo nelle ultime pagine del romanzo.

3.

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H.P. Lovercraft

Lovercraft, Poe, King, ma anche il cinema di Argento, Cronenberg, Carpenter rappresentano la dichiarata fonte di ispirazione di Marco Esposito, il quale riesce nel tentativo di delineare un affresco della vita di una piccola comunità, ritratta nel momento in cui essa viene a contatto con un agente patogeno in grado di stravolgerne la più intima natura. In assenza di antidoti efficaci (si veda in proposito la timida figura di don Gino, il prete, alla cui assistenza spirituale la comunità di Torre del Fiume è vanamente affidata), una coltre di silenzio e forzato quieto vivere si impossessa di quella comunità, corrodendo dall’interno l’anima dei suoi abitanti.

 

Il libro di Esposito è anche una celebrazione della forza della scrittura, sia perché essa è la materia stessa della narrazione, sia perché lo stesso libro scaturisce, come spiegato dallo stesso Esposito nei Ringraziamenti alla fine del volume, dall’indomita volontà del suo autore di vedere pubblicato il suo manoscritto che lo porta nel febbraio del 2013 a dare inizio ad una felice campagna di crowdfunding.

In conclusione, mentre i personaggi de I segreti della scogliera si congedano, tornando nell’ombra, noi siamo abitati da una certezza nuova: quella invisibilità, infatti, non è tanto una destinazione lontana, frutto della fervida fantasia di un giovane scrittore, ma – in virtù della stretta interconnessione tra visibile ed invisibile – un esito sempre attuale, a seconda dello sguardo di noi lettori. De te fabula narratur.

 

[1] Uno dei modi più convincenti e profondi di pensare le conseguenze di un tale rapporto è dato dagli scritti di Virgilio Melchiorre. In particolare, si vedano i volumi Essere e parola: idee per una antropologia metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1992; Figure del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1994 ed il saggio Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, introduzione all’edizione italiana di Finitudine e colpa.

 

La fede di tutti

In credere, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 20 September 2015 at 5:50 AM

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Giovanni Scarafile

«Sa, spesso, durante le omelie, sento il bisogno di mettermi ad urlare», mi confessa candidamente Ermanno, un apparentemente pacato signore di mezza età, durante un lungo volo intercontinentale. «Non l’ho mai fatto», aggiunge sommessamente, decrittando la mia espressione preoccupata.

Ci sono dei momenti nella vita di un uomo – ragiona Ermanno – in cui si ha bisogno di parole calde. Non consolazioni a buon mercato, ma piuttosto la speranza che un senso nella vita possa esserci. Sì, è vero, ci sono gli psicologi che aiutano a cercare dentro di te. Ma questo può non bastare. No, di consulenza filosofica non ha mai sentito parlare. «A cosa alludi – siamo passati al tu molto rapidamente – esattamente?», gli ho infine chiesto.

«Sono un credente sui generis, Gianni. Sì, insomma, non sono mai stato un praticante in piena regola. Ma mi piace, mi è sempre piaciuto sentir parlare di Gesù. Quando accade, sento una pace dentro inimmaginabile altrimenti. E così, qualche volta, vado a sentire le omelie. Entro in una chiesa scelta a caso. Mi siedo come un qualsiasi fedele e aspetto che arrivi il momento giusto. Poi, ascolto. Beh, che ti devo dire? Mi scende il latte alle ginocchia. Non che io abbia gli strumenti teologici per giudicare il grado di preparazione di un prete. No, non è questo. È che non mi sento toccato. Mi chiedo come possa il commento della parola di salvezza non partecipare del senso di ciò che dovrebbe esprimere».

Mentre – annuendo – socchiudo gli occhi, tentando di capire se il mio interlocutore è un convertitore seriale in incognito, sento la mente inondarsi di ricordi della delusione provata a mia volta di fronte all’insipienza dell’ennesima predica “a vuoto”.

 

* * *

Quelle parole che splendevano luminose, «vangelo», «apostolo», «battesimo», «conversione», «eucarestia», sono state svuotate di senso o riempite di un senso diverso, banale e innocuo. «Buona cosa è il sale,» dice Gesù «ma se il sale perde sapore, con che cosa verrà salato?» [4].

 

È vero che stiamo assistendo ad un ritorno alla letteratura religiosa nell’attuale panorama editoriale? Numericamente, non direi. Il numero dei libri a contenuto religioso è infatti fin troppo esiguo anche solo per avviare qualsiasi verifica. Non si può, tuttavia, negare che alcuni libri recenti (Il Regno di Emmanuel Carrère, prima di tutto e poi anche Sottomissione di Michel Houellebecq, Giuda di Amos Oz, La ballata di Adam Henry di Ian McEwan) sollevino il problema del ruolo della religione nella nostra vita, come Lucetta Scaraffia [7] ricorda: «A cosa serve la religione? Quali sono le ragioni per cui val la pena vivere anche senza Dio? Come ci si può mettere al posto di Dio per decidere se una persona deve vivere o morire? Decisioni sempre più difficili e drammatiche, situazioni emotive sempre più dolorose pesano sulle spalle di persone che non sanno più come orientarsi, che hanno perduto ogni punto di riferimento che non sia la loro razionalità».

Si tratta, in realtà, di domande “inattuali”, destinate a non essere superate dalle mode passeggere e che, probabilmente proprio per questo, riaffiorano oggi, testimoniando la centralità della domanda di senso. Eppure, sembra che domanda ed offerta siano destinate a non incontrarsi. Non del tutto, almeno. Come segnalato dalle parole di Carrère ricordate all’inizio e dalla vana ricerca di Ermanno incontrato in aereo, le parole della fede sono inefficaci, spesso desuete, destinate nel migliore dei casi ad essere comprese appieno solo dagli addetti ai lavori.

L’aggiornamento dei contenuti (espressioni, ma anche gesti liturgici) della fede richiede competenze specialistiche, ovviamente. Tuttavia, da un punto di vista opposto, quella stessa attualizzazione dei contenuti della fede si sottrae ad una “esecuzione” riservata a pochi esperti. Essa, è, piuttosto, un compito universalmente rivolto a tutti i credenti. Non so, infatti, immaginare il motivo per cui ogni singola coscienza credente o, prima ancora, pensante, non dovrebbe essere interpellata in merito alla adozione di strumenti più appropriati per comunicare i dati fondamentali di un credo.

È strano, no? La fede è per tutti, è di tutti, non è certo una proprietà privata. Proprio per questo, dovrebbe essere formulata in un linguaggio ordinario comprensibile a tutti. In cosa crede chi crede se il linguaggio della fede è incomprensibile?

 

1. Le ragioni di una crisi

Le parole iniziali di Carrère parlano di una crisi. Ci sono – spiega lo scrittore francese – parole della massima importanza che, tuttavia, non sono più in grado di farsi comprendere da coloro cui sono destinate. In questi casi, ciò che viene meno non è tanto la possibilità di riferirsi alla realtà ordinaria indicata dalle parole che utilizziamo più spesso. No, nella misura in cui a perdere “peso” sono le parole fondamentali di una religione, ciò che rischia di venir meno è il grado di incisività dell’appello alla salvezza inizialmente veicolato da quelle parole.

Per rendersi conto del danno, è bene ricordare come ogni religione proponga ai suoi fedeli una via verso la pienezza del senso. Le vie possono essere diverse, a seconda delle religioni, sebbene non vi sia unanimità su tale assunto[1]. Nella molteplicità delle vie, il dato costante è comunque rappresentato dall’attestazione che il senso, molto spesso un senso ultraterreno, sia conseguibile o, prima ancora, che un senso vi sia. In questa vita, possono esserci molte cose di cui non comprendiamo appieno o non comprendiamo affatto il senso. Non importa, dice la religione. Questa eclissi del senso è solo una condizione temporanea, dovuta alla nostra natura mortale. Superata la fase delle mortalità, il senso del tutto potrà finalmente essere contemplato ed anzi, perché ciò accada, è bene che già in questa vita si adottino determinati comportamenti. Nel momento in cui le parole sono svuotate, come dice Carrère e molti altri al suo fianco, è la stessa dinamica di conseguimento del senso ad implodere. Ecco perché discutere dell’attualità del linguaggio religioso riguarda tutti.

 

2. La consunzione delle strutture segniche

Il nostro consueto comunicare è spesso accompagnato dal tacito convincimento che le parole di cui ci serviamo abbiano il potere pressoché eterno di riferirsi ai significati delle cose. In realtà, esse rappresentano forme di significazione “a tempo”. Rinviano a ciò che rappresentano, ma solo a determinate condizioni. La durata rappresenta una di queste condizioni: con il passare del tempo, i modi del dire diventano desueti.

Quando una parola non conduce più nei pressi di ciò che indica, ma anzi disorienta o lascia indifferenti, allora ci troviamo di fronte al fenomeno della consunzione delle strutture segniche. Nella vita di una parola, come si arriva a tale consunzione? La domanda è importante, perché se comprendiamo la genesi della consunzione possiamo sperare di trovarle un antidoto.

Nel corso della sua esistenza, una parola oscilla tra due poli: originalità e stereotipia.

Esiste, com’è noto, un serbatoio linguistico dentro il quale troviamo la gran parte delle parole di cui ci serviamo ogni giorno. Di solito, per dare un nome alle cose o alle situazioni, il nostro compito consiste nel combinare le parole esistenti oppure nel fare uso di espressioni linguistiche già preformate. La differenza tra il primo ed il secondo approccio è sostanziale.

Nel primo caso, nel processo di creazione o combinazione creativa di termini desunti dalla tradizione, noi facciamo appello alla parte più intima di noi, l’individualità essenziale. La parola o l’espressione che scaturisce è il risultato della nostra meraviglia di fronte a ciò che è da nominare. Si tratta di una esperienza fondante ed originaria che, non a caso, la tradizione di pensiero occidentale fa coincidere con l’inizio del senso.

Nel secondo caso, quella della parola prêt-à-porter, il ricorso all’individualità essenziale è ridotto al minimo. Si tratta, infatti, per lo più di mutuare e fare propria una parola o espressione già costituita. Ecco, dunque, i due poli cui accennavo. Sul primo versante, l’originalità di una espressione scaturita dalla parte più intima di noi stessi; sul secondo, la stereotipia inevitabile conseguente l’uso di «gettoni verbali» [8] convenzionali.

A questo punto, la fisiologia della parola è quasi del tutto determinata. Manca solo un ultimo passaggio. Infatti, una volta individuata, un’espressione linguistica non mantiene inalterato il suo potere di rinvio al significato. Tutt’altro. È possibile, anzi, riferire un naturale decadimento che accompagna la vita delle espressioni. Si tratta di una parabola discendente, che dal momento della nascita, acme della significatività, conduce fino all’insignificanza.

La dinamica della parola fin qui accennata ha conseguenze dirette per il nostro discorso. Infatti, proprio perché una parola non permane nella sua iniziale significatività, se non si vuole smarrire ciò cui essa rinvia, occorre che sia aggiornata, ovvero resa nuovamente adeguata al contesto. “Comunicare in tempo”, allora, significa avvalersi di strutture segniche non desuete, ma adeguate al contesto: i segni del mutamento richiedono un mutamento dei segni.

 

3. Tornare a cercare la verità

Le parole di Carrère, citate all’inizio, si riferiscono ad un caso particolarmente significativo di questo processo: come rendere di nuovo attuali, cioè incisive, vincolanti ed irrinunciabili, parole fondamentali della fede cristiana oggi considerate obsolete?

Prima di rispondere a questa domanda, occorre mettere in conto una scontata obiezione: ma come – si dice – non sono le parole del cristianesimo valide in eterno? Che bisogno c’è di “aggiornarle”? Oppure – si obietta – non si corre il rischio che con l’aggiornamento di quelle parole si relativizzi il loro significato?

L’assunto, molto spesso inconsapevole, su cui poggiano tali obiezioni è che le parole possano indicare in eterno, secondo una procedura già confutata nel paragrafo precedente. Consapevolmente o meno, infatti, si continua a ritenere che la lingua originariamente scelta per veicolare il cristianesimo sia immutabile, sottraendole quel carattere di storicità che invece ed incontrovertibilmente le appartiene. In aggiunta, si potrebbe ricordare con il gesuita Pierre Gibert [5] che «Già per le prime generazioni cristiane, quelle provenienti da un paganesimo saturo di racconti mitici quanto di cinici racconti di guerra e violenza, solo l’allegorizzazione di tutte le loro figure dava ad esse un senso conforme alla fede in Cristo».

Alle obiezioni appena richiamate, si dovrebbe rispondere, che è senz’altro vero che il messaggio di Cristo è eterno. Tuttavia, non è meno vero che tale messaggio, per essere efficacemente conosciuto ed applicato, deve essere espresso nella lingua degli uomini. È stato fatto così agli inizi del cristianesimo. Perché non dovrebbe essere così, oggi? O si vuole forse sostenere che sia meglio una fede abitudinaria in cui l’accesso al significato sia fondato sulla tradizione o sulle pratiche devozionali e non sulla Parola? O si vuole auspicare una fede basata sull’ossequio all’autorità e non sulla Parola? O si vuole difendere una fede fondata sulla paura di affrontare il proprio destino e non sulla Parola?

Si tratta allora di eliminare ogni possibile incrostazione (linguistica, ideologica o di altro tipo) per fare in modo che quel messaggio possa risuonare nel pieno della sua efficacia anche agli uomini di questo tempo. Senza necessariamente fare proprie tutte le sue tesi, basti qui ricordare che nel 1985 il Jesus Seminar[2] ha osservato che l’attribuzione dell’84% delle parole di Gesù non è fondata.

Ora, la sola eventualità che si continui a ritenere vero ciò che vero non è, dovrebbe spingerci, come credenti, ad intraprendere ogni sforzo perché questo genere di questioni possa essere almeno dibattuto.

Il mio timore è che una delle principali ragioni per cui questo non accada o non accada con la stessa forza con cui dovrebbe accadere secondo il buon senso, è che si è forsennatamente impegnati a gestire l’esistente. Inutile dirlo: la gestione dello status quo non sembra operazione di particolare assennatezza. Per intendersi: nell’ambito della vita ecclesiale, di fronte al rischio di credere in ciò che potrebbe essere non vero, si continua – come se nulla fosse – ad organizzare processioni e comitati feste patronali, a scendere nelle piazze per cantare in coro a squarciagola canti in cui Dio stesso è divenuto un oggetto di cui sbandierare il possesso o a fare il “trenino” – sì, anche questo – sulle note di “Ho visto Gesù Cristo, ho visto Gesù Cristo, eh mammà, innamorato sono”.

In questo scenario, nel migliore dei casi, nell’ambito della pastorale, la routine ha sostituito la ricerca della verità. Qualche tempo fa, il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong, sostenne che i membri del clero fossero impegnati a nascondere ogni conoscenza sul reale Gesù Cristo «per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale», concludendo che «Ogni divinità che ha bisogno di protezione nei confronti della verità, da qualunque fonte provenga, è già morta» [1]. Quella previsione, che comunque presupponeva un atteggiamento avveduto, critico e consapevole da parte del clero, sembra oggi fin troppo ottimistica. È difficile, a questo punto, non essere d’accordo con Ermanno, l’uomo dell’aereo: basta ascoltare la maggior parte delle omelie oggi per rendersi conto che il cristianesimo proposto ai fedeli sembra sprofondato in una sorta di melassa insapore.

 

4. La fede di tutti

In diversi momenti del suo libro, Carrère ricorda di non essere credente, pur essendolo stato. Questa sua condizione non lo legittima di meno a parlare della fede e della fede cristiana in particolare. Perché la fede e la fede cristiana, cioè la  proposta di un senso specifico per la vita dell’uomo, è fede di tutti. Non soltanto di un gruppo di uomini autorizzati a parlare perché in possesso di una particolare patente, ma di tutti.

Perché ciò accada, però, è necessario che si torni a proporre quei contenuti nel linguaggio degli uomini di questo tempo. Questo è il principale merito de Il Regno, anche quando sembra allontanarsi dalla ortodossia. Esso rimane comunque la testimonianza di un’anima in ricerca.

Nella sua opera, lo scrittore francese “offre se stesso” come materia di narrazione. Tale implicazione personale ha fatto parlare, forse un po’ enfaticamente, di «rito eucaristico» [2]. Tuttavia, ancor più che nei romanzi precedenti (uno su tutti, L’avversario), la scelta formale dello scrittore di implicarsi non è aliena dalla sostanza di ciò che è narrato. Questo mi sembra debba essere sottolineato. Attraverso tale espediente, si realizza ciò che Baumgarten [3] definiva «grandezza estetica», ovvero la perfetta corrispondenza ed adeguatezza tra pensieri ed oggetti. Il risultato è l’invito alla immedesimazione rivolto implicitamente al lettore: «Il lettore depone progressivamente le armi, non tanto sedotto dalla parola che non potrebbe dominare, ma perché sorpreso nel riconoscere se stesso in bagliori diversi […] che gli permetteranno di andare oltre per ritrovarsi un po’ più lontano, toccato personalmente» [5]. Tale merito è riconosciuto anche da Scaraffia: «Ma la domanda sulla resurrezione, fondamentale, è vera, e percorre tutto il libro a domandarci, a nostra volta, se ci crediamo veramente. Ci costringe a prendere atto che se ne parla pochissimo, perfino da parte della Chiesa stessa, come se fosse un argomento leggermente sconveniente» [7].

* * *

 

– «Quante volte nell’ultimo mese hai pronunciato la parola “misericordia” nei tuoi discorsi?». Intuendo dove conducessero le sue parole, ho esitato qualche istante prima di rispondere al mio interlocutore a 11000 metri d’altezza.

– «Mah… Nessuna, mi pare».

– «E non ti sembra un autogol che, per indicare un evento rivolto all’umanità intera come un anno santo, si sia fatto ricorso ad un termine obsoleto, del tutto caduto in disuso nel linguaggio ordinario? Usando parole da “addetti ai lavori” non si continua a vanificare la forza di una fede per tutti, della fede di tutti?»

 

 

Riferimenti bibliografici

  1. Adista documenti, n. 28 del 21/07/2012.
  2. Bajani, A. 2015. Storia di Gesù al filtro del proprio Io. Il Manifesto. 01.03.2015
  3. Baumgarten, A.G. 2000. Palermo: Aesthetica Edizioni
  4. Carrère, E. 2015. Il Regno. Milano: Adelphi
  5. Gibert, P. 2015. Da Lui a noi: qual è il «Regno» di Emmanuel Carrère?. La Civiltà Cattolica 3963-3964, pp. 308-317
  6. Intervento del cardinale prefetto Joseph Ratzinger In occasione della presentazione della dichiarazione “Dominus Iesus”, reperibile su: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000905_dominus-iesus-ratzinger_it.html
  7. Scaraffia, L. 2015. Nuovi romanzi ‘religiosi’. Sul ritorno del cristianesimo nella narrativa contemporanea. La Rivista del Clero italiano, 5/2015, pp. 362-372.
  8. Steiner, G. 2001. Linguaggio e silenzio. Milano: Garzanti

 

[1] Basti ricordare quanto scriveva l’allora cardinale Ratzinger [6]: «Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell’opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall’orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo».

[2] Il Jesus Seminar fu fondato nel 1985 da Robert Funk e John Dominic Crossan e riuniva un gruppo di 150 studiosi specializzati nell’ambito degli studi biblici. Cf. [1].

La vita difficile degli alfabeti quotidiani

In editoriale on 14 June 2015 at 3:47 PM

feedback

Riccardo Dell’Atti

Secondo uno studio di qualche anno fa[1], il 71% degli italiani ha difficoltà a comprendere interamente un testo di media complessità.

In un contesto in cui i fenomeni politici, culturali e sociologici che ci coinvolgono aumentano di complessità giorno per giorno, quindi, solo un italiano su quattro ha le potenzialità per interpretare autonomamente e con spirito critico, lucido e imparziale, quello che gli avviene intorno.

L’informazione, come sappiamo, viaggia su vari canali: di questi, alcuni hanno una natura tipicamente “passiva” per l’utente (la radio e la televisione); altri, come i giornali o il web, richiedono un gesto attivo: leggere.

Disporre di una capacità di lettura e comprensione, però, non basta a garantire che essa venga utilizzata: se non c’è la volontà di comprendere e quindi di investire del tempo per prendere informazioni ed elaborarle, la suddetta capacità rimane dormiente e inutilizzata, e dopo un po’ di tempo, non essendo allenata, tende ad atrofizzarsi.

Per formarsi un’opinione corretta, poi, non basta saper leggere un testo e comprenderlo: in una realtà eterogenea come quella attuale diventa sempre più importante saper scegliere la fonte; per molti le fonti più comuni per recuperare informazioni non sono i giornali (cartacei o elettronici) o i libri, ma i post di Facebook e i tweet su Twitter perché più agilmente consultabili e meno impegnativi.

Inoltre, tra l’atto fisico di leggere dei testi e quello più astratto di “leggere” la realtà c’è una serie di attività quali: costruire delle idee, svilupparle attraverso un’azione raziocinante, intrecciarle e connetterle fino a generare un’opinione, condividere la propria opinione con altre persone al fine di raffinarla o correggerla arricchendosi del contributo altrui.

Tutti i processi individuali di lettura, comprensione e ragionamento devono, infine, fare i conti con la velocità con cui la realtà cambia e quella con cui l’informazione viaggia.

È fin troppo banale osservare che uno degli “acceleratori” della realtà e della velocità di propagazione delle notizie è l’esplosione della dimensione “social” delle nostre esistenze.

Viviamo ormai in una dimensione che ci eleva da un piano di “prossimità” limitato alle nostre conoscenze e agli incontri che facciamo quotidianamente (più o meno casuali) ad uno spazio di voci che si estende alle cerchie di amicizie su Facebook o alle valanghe di tweet e re-tweet di Twitter. In questa polifonia non organizzata succede che spesso ci si perda.

La causa principale dello smarrimento è, appunto, la natura intrinsecamente volatile e cangiante dei nuovi strumenti di comunicazione. Un post su Facebook si valuta con il numero di “mi piace” che totalizza. Se trovo un post con molti “mi piace”, una curiosità dettata dal constatare l’approvazione altrui mi invoglierà a leggerlo; così è molto probabile che le parole di quel post entrino nella formazione della mia opinione e sedimentino, anche inconsciamente. Tuttavia, sappiamo che un post troppo lungo spesso non è molto apprezzato, sia per la difficoltà materiale (specie se si usa il telefono, magari in autobus o mentre si guida o mentre si aspetta qualcuno o qualcosa) sia per una sorta di pigrizia patologica che sta ammorbando sempre di più le generazioni attuali.

La bacheca di Facebook, così come quella di Twitter, si aggiornano in un orizzonte temporale dell’ordine dei minuti, per cui i post devono essere corti, paratattici, frequentemente ridotti a slogan, a frasi a effetto, a brandelli di informazione, a conclusioni affrettate e ovviamente drammaticamente contaminate dal giudizio personale di chi scrive, il tutto magari condito da una foto a effetto, da una canzone a tema, cioè da orpelli che, solleticando le corde dell’emotività, anestetizzano la capacità di discernimento.

Accade perciò che, per pigrizia e per necessità, ci riduciamo a formarci un’opinione che altro non è se non una mera somma di parole invece che una connessione di concetti; e molte di queste parole sono solo contenitori temporanei e sbrigativi di embrioni di idee, mai di percorsi meditati, elaborati, corretti, approfonditi.

In tale marasma il cittadino medio, anche quello che sta nel 29% dei “normodotati”, può finire per capire poco e disorientarsi, per dare poca profondità all’interesse che pure mostra nei confronti della realtà, e capita che si affidi a idee precarie, instabili, passeggere, attribuendo loro un carattere di definitività del tutto improprio e farraginoso.

Solo per fare degli esempi: la riforma del lavoro, quella della scuola, l’ISIS, i disordini in medioriente, l’immigrazione, la crisi… sono fatti, processi, momenti storici dei quali ci stiamo costruendo una valutazione approssimata, sfilacciata e superficiale.

Per comprendere le ragioni dell’immigrazione dal nordafrica si dovrebbe conoscere l’etnia delle persone che arrivano sulle nostre coste, risalire alla storia del luogo da cui partono e alla loro attualità, meditare sul loro bisogno di fuga, comprendere che intorno a questo bisogno nascono interessi secondari e stratificati di chi li traghetta, di chi costruisce consenso politico (da una parte dell’altra), di chi sfrutta il caos mediatico per incanalare pensieri distorti. Bisognerebbe attivarsi, insomma, ma spesso, invece, ci accontentiamo di dare uno sguardo al fenomeno attraverso la lente “social” del post in bacheca, di ascoltare la voce di chi condanna o di chi giustifica a priori quel fenomeno, e di unirci al coro al quale ci sentiamo più vicini per natura, storia o sentimento.

È chiaro che, in un senso o nell’altro, questo schierarsi è il modo più povero ed elementare di agire.

Il rischio che sta dietro un comportamento di questo tipo è che chi ha un interesse diretto in uno o nell’altro atteggiamento utilizza a proprio tornaconto l’informazione e la fa viaggiare: tecnicamente pilota il pensiero e impone strumentalmente il proprio punto di vista.

La dimostrazione di come questo modus operandi sia ormai penetrato nel tessuto dell’opinione pubblica sta nell’osservare che, tipicamente, i punti di vista su un fatto sono sempre e solo due: quello favorevole e quello contrario. Le sfumature di pensiero diventano sempre più un fattore formale o estetico e mai sostanziale. Non esistono punti di vista “terzi” rispetto alle logiche dominanti più forti, cioè quelle con gli interessi maggiori. E il 71% della popolazione non può che sguazzare in questo scenario semplicistico e ridotto a suo uso: non avendo la capacità di comprendere e non avendo nemmeno la voglia di dotarsi dei necessari strumenti per farlo, la via più facile è cedere all’attrattiva dell’opinione preconfezionata, costruita ad arte e “colorata” sulla base del favore o della contrarietà di sorta.

La domanda è: come si esce da questa logica perversa? Come si può sovvertire questo ordine di cose che sembra sempre più consolidarsi e funzionalizzarsi ad una sorta di addormentamento prolungato?

Forse con una rivoluzione gentile che non consiste nello scassare le vetrine o urlare in piazza (ormai non serve più, perché se l’obiettivo di una manifestazione di piazza è quello di colpire le coscienze, le coscienze saranno attente a quella manifestazione per il tempo che dura la lettura di un post, la sua condivisione, l’eventuale commento e poco più) ma nel recuperare parte del nostro tempo, togliendolo alla frenesia della quotidianità e alla logica del divertimento a tutti i costi, che è ormai diventato idolo e feticcio di una vita felice, social e realizzata e dedicandolo alla formazione, cioè al dare forma alle proprie azioni e non condurle solo perché lo fa la massa o il resto del pubblico.

In poche parole, per diventare cittadini attivi e informati non ci resta che capire che siamo passivi e disinformati e desiderare il cambiamento prima che sia troppo tardi. Un cane che si morde la coda non smette di girare su se stesso fino a quando non si morde per davvero e si fa male…

 

 

[1] http://www.corriere.it/cultura/11_novembre_28/di-stefano-italiani-non-capiscono-la-lingua_103bb0fa-19a8-11e1-8452-a4403a89a63b.shtml

[1] Fonte: Corriere della Sera, 28 novembre 2011.

La sensibilità al nascondimento di Dio

In credere, editoriale, Filosofia, teologia on 29 May 2015 at 2:17 PM

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Francesca Drago

La sensibilità al nascondimento di Dio dà origine a un’attenzione creativa per i luoghi in cui Dio si rivela in maniera più autentica: nella croce, nella negatività, nel conflitto, nella sofferenza; la lotta con il nascondimento di Dio non deve cedere alla tentazione di trovare una spiegazione teoretica al problema del male o di giustificare razionalmente l’esistenza di Dio. Soccombendo a questa tentazione, le forme moderne di teismo eludono troppo spesso la realtà dell’infelicità, nonostante, o forse a causa, di soluzioni moderne, argomentative al problema del male o “teodicea”. Muovendoci lungo queste linee,  le forme moderne di teodicea sono spesso sotterfugi idolatrici che distraggono e distolgono il nostro sguardo dall’infelicità umana. La distruzione di tali idoli fa di una lotta col male nella storia e nella natura da un lato, e con Dio stesso dall’altro, un momento necessario del pensiero teologico e filosofico. La lotta con il nascondimento di Dio è, dunque, tutt’altra cosa che apatia e indifferenza anzi è il sentiero privilegiato che porta al contatto con lui, così come afferma la Weil: “Mi pareva infatti – e lo credo ancora oggi – che non si resista mai abbastanza a Dio, se lo si fa per puro scrupolo di verità. Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è verità. Se ci si allontana da lui per andare verso la verità, non si farà molta strada senza cadere tra le sue braccia”. Nella sua lettura della tragedia greca, la Weil sosterrà che la sapienza nasce soltanto dalla sofferenza, dal dolore, dalla lotta; la grazia viene con violenza.

La lotta con Dio e l’esperienza concreta della sofferenza umana sono incontri indispensabili per far luce sul conflitti fra Dio e la sofferenza umana. La riflessione sulla questione del male non può essere isolata dal confronto esistenziale con la sofferenza. La questione del male si oppone a soluzioni teoretiche e mette in ginocchio l’intelletto. Il solo contatto con gli afflitti è la via più significativa per giungere al contatto con Dio. E’ qui che l’assenza apparente di Dio manifesta una presenza nascosta. E’ nei volti degli afflitti che scopriamo che il vuoto di Dio è una pienezza più grande della presenza di tutte le entità mondane. Il contatto con Dio ci è dato attraverso il suo nascondimento. “Il contatto con le creature umane ci è dato attraverso il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato attraverso il senso dell’assenza. Paragonata a questa assenza, la presenza diventa più assente dell’assenza”.

GvCroce

Come nella “notte oscura” di Giovanni della Croce, quando affronta l’infelicità, la memoria si perde e si svuota. “La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità del mondo è la croce di Cristo”. Ciò non implica che il mistero del male abbia una soluzione teoretica, fosse pure nella foggia della croce di Cristo. Quest’ultima è, piuttosto, una risposta divina al male ed il modello per la nostra risposta alla presenza dell’infelicità. E’ una risposta contrassegnata dalla solidarietà, senza un perché per la sofferenza. Essa rimane silenziosa.

La croce di Cristo non è soltanto una redenzione del peccato, ma comprende come suo significato centrale l’abbraccio della infelicità e la trasformazione del male radicale in gioia piena.