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Etica del vivente: quando il gusto prevale sul giusto

In Uncategorized on 2 July 2016 at 4:47 PM

Silvia De Luca

Negli spot pubblicitari che ogni giorno ci vengono mostrati è facile vedere oasi naturalistiche, allevatori premurosi che portano al pascolo le mucche con il fiocco rosso, prosciutti considerati alla stregua di neonati. Sembra la normalità.

In rete, tuttavia, sono disponibili diversi documentari che pongono seri dubbi su questa rappresentazione della realtà. Uno di questi documentari, realizzato da Damiano Gori e Marco di Domenico, intitolato Mistificazione e sfruttamento – contro i mattatoi, lascia intendere che le immagini degli spot pubblicitari siano delle deformazioni della realtà, a vantaggio delle aziende produttrici, del commercio e del mercato della salute.

Vediamo, per esempio, un vitellino sul cui muso è stato inserito un dispositivo che rende vani i suoi tentativi di bere il latte della madre, destinato all’imbottigliamento. Noi non sappiamo se, come dice una delle didascalie del video, ciò che le immagini descrivono sia la normalità. Tuttavia, siamo consapevoli del fatto che quei comportamenti abbiano ben poco in comune con l’umano.

Si potrebbe continuare descrivendo le crudeli pratiche mostrate dal documentario, ma forse conviene soffermarsi su noi spettatori/consumatori,  provando a distinguere almeno tre categorie.

1) Colui che “preferisce non vedere”. Si tratta di coloro che preferiscono non guardare con la dovuta attenzione. A differenza di un tempo, oggi ci sono numerosi modi per venire a conoscenza dello sfruttamento degli animali. È sufficiente decidere di aprire gli occhi;

2) Colui che “sa, ma…”. È la categoria più ampia e variegata su cui, a mio avviso, occorrerebbe che si concentrasse l’attenzione da parte degli studiosi di etica della comunicazione. In particolare, occorrerebbe interrogarsi sulle modalità che hanno trasformato la necessità di cibo in arte culinaria, in cui il gusto prevale sul giusto.

3) Colui che “sa e agisce”.  Appartengono a questa categoria il cosiddetto “egoista”, il quale sceglie di cambiare alimentazione per un tornaconto personale, come il tenere sotto controllo la salute; il “cosciente”, che è informato della situazione e giunge a modificare l’atteggiamento nei confronti della vita stessa.

In generale, vi sono due modi di rapportarsi all’altro. Il primo, ponendo al centro l’io, rende l’altro una subordinata e lo reifica. Il secondo modo invece non mette al centro né l’io né l’altro, ma la relazione, cioè quello spazio tra l’io e l’altro.

Queste indicazioni generali possono essere fatte valere anche in materia di etica del vivente, sollecitando l’adozione di pratiche più appropriate e non mistificatorie. Cambiare atteggiamento è possibile. Basta mettere da parte abitudine ed egoismo, meglio definito come specismo, per lasciare spazio alla corretta informazione, alla consapevolezza e al rispetto dell’altro. Che non sempre è umano.

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Silvia De Luca. Studentessa di Filosofia, laureanda con una tesi in Etica della Comunicazione presso l’Università del Salento. Partecipa alle attività del Lab in Applied Ethics and Interdisciplinarity presso il cPDM della Facoltà di Ingegneria dell’Università del Salento.

Food citizenship, esigenze e consapevolezze nella scelta alimentare contemporanea

In Uncategorized on 30 June 2016 at 7:14 PM

Maria Elena Latino

Maria Elena Latino

 

Siamo ciò che mangiamo – Feuerbach, 1862

Il legame tra l’uomo e il cibo è antico e fonda le sue radici in aspetti culturali e multidisciplinari. Sebbene potrebbe sembrare superficiale racchiudere tali aspetti in un’unica frase, è essenziale riconoscere come la scelta alimentare sia elemento cardine del vissuto sociale quotidiano.

I consumi alimentari sono soggetti a cambiamenti per effetto di diverse variabili di natura economica, sociale e culturale (Cerosimo, 2011). Se nei primi anni della recessione (2007-2009), l’indisponibilità finanziaria ha portato il consumatore ad una contrazione della spesa alimentare con la scelta di alimenti essenziali, low cost e di scarsa qualità (Trafiletti, 2011), si registra negli ultimi anni un’importante inversione di tendenza: una crescente fascia di consumatori sceglie prodotti genuini presso mercati locali. Nel 2013 il 67% degli acquisti agroalimentari italiani avviene nei “farmers market” con un tasso di crescita del 25% rispetto all’anno precedente (Coldiretti, 2014).

Si assiste dunque, alla diffusione della “Food citizenship”, una serie di comportamenti legati al cibo che supportano, promuovono e scelgono lo sviluppo di un sistema cibo democratico e sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale (Wilkins, 2005).

Le informazioni di cui il cliente ha bisogno derivano da esigenze personali come ad esempio problemi di salute, scelte etiche o ambientali (Reiche et al., 2012). La complessità del settore alimentare e la varietà dei prodotti offerti, sollevano incertezze per i consumatori.

Quali sviluppi dunque aspettarsi in un contesto in cui la consapevolezza alimentare cresce? Il consumatore necessita di maggiori informazioni grazie alle quali assicurarsi che le scelte alimentari compiute risultino in linea con i propri valori personali (benessere degli animali, commercio equo-solidale, sfruttamento del lavoro, impatto ambientale, benessere e salute, ecc.). L’approccio all’etichetta classico ,“clean labeling” (Hillmann, 2010), ha necessità di evolvere abbracciando al suo interno concetti di trasparenza ed eticità.

 

References

Cersosimo, D. (2011). I consumi alimentari: evoluzione strutturale, nuove tendenze, risposte alla crisi. Edizioni Tellus, Roma.

Feuerbach, L. (1862). Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia.

Hillman, J. (2010). Reformulation key for consumer appeal into the next decade. Food Rev, 37(1), 14-16.

http://www.coldiretti.it/News/Pagine/151––-1-Marzo-2014.aspx

Reiche, R., Lehmann, R. J., Schiefer, G., & und Informationsmanagement, O. (2012). Visions for creating food awareness with future internet technologies. In GIL Jahrestagung (pp. 243-246).

Wilkins, J. L. (2005). Eating right here: Moving from consumer to food citizen. Agriculture and human values, 22(3), 269-273.

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Maria Elena Latino. Laureata con lode in Ingegneria Gestionale presso l’Università del Salento nel 2010. Ha conseguito un master in addestramento alla ricerca interdisciplinare nel settore aeronautica nel 2012. Ricercatrice presso il cPDM Lab del Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione dell’Università del Salento dal 2012. La sua attività di ricerca è caratterizzata da un approccio multidisciplinare e riguarda i temi della tracciabilità agroalimentare, tecnologie applicate al settore marino e dell’acquacoltura, lo sviluppo di nuovo prodotto, il Product Lifecycle Management, la modellazione e simulazione dei processi di business, Technical Knowledge Management e l’Entrepreneurship. Associata di Naica SC. Dal 2013 si occupa delle seguenti attività: fundraising, project management, Business Process Management and Reengineering, Business Plan, Business Model, analisi di mercato e analisi finanziarie.

Noi disobbediamo

In Uncategorized on 20 September 2015 at 6:22 AM

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Stefano Semplici

Questo è uno strano “manifesto”, perché non è accompagnato da nessuna firma, salvo quella di chi lo ha scritto. Non volevo importunare ancora una volta colleghi e amici per cercare di coinvolgerli nel tentativo di trasformare in pubblico dissenso e dunque in azione politica i mugugni nei corridoi, il docile ossequio a norme e procedure vessatorie e manifestamente inutili giustificato con una nobile ma sempre invisibile obiezione di coscienza, l’abitudine a cercare il compromesso dall’interno “per limitare i danni” anziché scegliere la strada del confronto a viso aperto. Penso però che tutti coloro che condividono la necessità di valutare il lavoro dei professori, ma non il modo in cui ciò è avvenuto e il modello di università che si va così consolidando, dovrebbero finalmente trovare il coraggio di far sentire la loro voce dopo l’uscita del bando per la VQR 2011-2014. Finora solo pochi lo hanno fatto. E quei pochi non bastano. Ecco perché la pagina delle firme è vuota. Io farò naturalmente quello che propongo ai colleghi. Sarò felice se altri riempiranno quel vuoto con proposte migliori.

Stefano Semplici

 

Siamo professori universitari e non abbiamo paura di essere valutati. Perché sono i “capaci e meritevoli” che hanno diritto di raggiungere i gradi più alti delle carriere del sapere, come quelli degli studi (art. 34 della Costituzione). E anche perché sono i soldi dei cittadini a mantenere la libertà della scienza e del suo insegnamento come un bene di tutti e per tutti e non solo per il profitto di pochi. Siamo dunque incondizionatamente favorevoli all’introduzione di tutte le procedure e di tutti gli strumenti che consentano di valorizzare i migliori e di individuare ed eliminare privilegi, inefficienze e tutto ciò che ha compromesso in questi anni la qualità del nostro lavoro e la nostra stessa immagine agli occhi dell’opinione pubblica.

La Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) è stata introdotta in Italia con la promessa che si sarebbe finalmente avviato un percorso virtuoso in questa direzione. La conquista di un “posto” non deve essere considerata come l’autorizzazione ad essere i soli giudici di quel che si fa o non si fa, senza che nulla accada neppure quando non si fa nulla. È un obiettivo importante e che non deve essere messo in discussione. Esso, tuttavia, è diventato il refrain (o forse il cavallo di Troia) di un processo che ha prodotto i seguenti risultati:

  1. La marginalizzazione della “missione” della didattica, da affidare in prospettiva, con l’eccezione di piccole nicchie di eccellenza, alle università di “serie B”, che produrranno laureati “certificati” di serie B e magari trattati come tali, a prescindere dalla verifica delle loro reali capacità e competenze. Praticamente tutti gli incentivi sono stati concentrati sulla qualità dei prodotti della ricerca e se i criteri imposti per la valutazione di questi ultimi sono apparsi subito discutibili quelli infine adottati per assegnare una risibile percentuale dei cosiddetti “fondi premiali” con riferimento appunto alla didattica sono a dir poco imbarazzanti. Risultato: per i professori e per coloro che aspirano a “fare carriera” ogni ora trascorsa al servizio degli studenti rischia di apparire come un’ora di tempo perso.
  2. La radicalizzazione del principio del publish or perish, i cui nefasti effetti collaterali sono da tempo evidenziati nella letteratura internazionale, nella ancor più spietata logica del publish and kill. L’obiettivo non è fare bene il proprio lavoro e dare il proprio contributo affinché tutti possano fare altrettanto nella comunità della ricerca, ma lottare con ogni mezzo per stare 
davanti agli altri. Risultato: una guerra di tutti contro tutti, che, come dimostrano anche l’asprezza e i contenuti del confronto sui criteri e parametri per l’abilitazione scientifica nazionale e il ruolo delle riviste di “fascia A”, non aiuta affatto a combattere le “baronie” e far emergere i talenti e rischia al contrario di rafforzare i gruppi di potere e prepotenza. E basta il buon senso per capire che il divario crescente delle risorse disponibili fra la cima e la coda delle “dettagliatissime” classifiche dell’Agenzia nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) rende e renderà impossibile perfino una leale “concorrenza” e il recupero da parte di chi ha idee potenzialmente vincenti e le capacità per realizzarle.
  3. La spregiudicata utilizzazione della parola d’ordine del “merito” per realizzare una brutale riduzione del finanziamento al sistema universitario, che era già ai livelli minimi fra i paesi più avanzati. Il blocco del turn over e quello degli scatti di anzianità sono gli elementi più evidenti di questa politica, ma gli effetti di lungo periodo della contrazione delle risorse giustificata con l’argomento che esse devono essere concentrate là dove non vengono sprecate riguardano soprattutto la desertificazione universitaria di intere aree del paese, che appunto non meriterebbero di ospitare centri di ricerca e di insegnamento di “serie A”. Risultato: meno opportunità di crescere per i talenti nati nel posto sbagliato, meno laureati di qualità, meno diritto allo studio.

La VQR 2004-2010, nonostante la buona volontà spesa da molti per realizzarla nel modo migliore, è stata nei fatti (ovviamente non nelle parole della retorica pubblica) lo strumento principale utilizzato per rafforzare questa idea di università, con il sostegno più o meno esplicito di tutti i governi che si sono succeduti in questi anni. È un’idea che rispettiamo, perché per alcuni la competizione dura di tutti contro tutti è davvero il modo più efficace per promuovere il sapere. Ma non è la nostra. E siamo convinti che non sia neppure quella che corrisponde allo spirito e alla lettera della Costituzione.

La Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, inviando all’ANVUR le sue osservazioni sul bando della nuova VQR, relativa ai “prodotti” degli anni 2011-2014, ha denunciato in particolare la gravità delle conseguenze del taglio delle risorse, ne ha chiesto il recupero e, confermando il sostegno all’idea di “un sistema di valutazione ben congegnato e implementato per migliorare la qualità della ricerca”, ha ritenuto corretto avvertire la stessa ANVUR e il Ministero che “solo a tale condizione di recupero delle risorse tagliate sarà possibile garantire la collaborazione del sistema universitario allo svolgimento del nuovo esercizio VQR 2011-2014”. Non possiamo che prendere atto del silenzio del Governo su questo punto e pensiamo che, purtroppo, quello confermato da questo bando NON sia un sistema di valutazione ben congegnato.

Per questo riteniamo, con amarezza, che sia davvero arrivato il momento di DISOBBEDIRE e di non fare quello che dal bando viene richiesto. Non è vero che si tratta di un destino ineluttabile, perché la VQR è semplicemente irrealizzabile senza la collaborazione dei professori universitari. Questa VQR, perché noi VOGLIAMO essere valutati e dare così anche in questo modo ai cittadini la certezza che i loro soldi sono spesi bene. Una procedura di valutazione diversa e alla quale ben volentieri ci sottoporremmo potrebbe prevedere per esempio la semplice verifica di soglie e parametri adeguati a garantire che in tutte le università si svolga una almeno dignitosa attività scientifica, abbandonando l’ossessione delle graduatorie e puntando decisamente a promuovere la qualità diffusa del sistema universitario (obiettivo da non confondere con l’idea che tutti debbano necessariamente fare nello stesso modo le stesse cose). Eventuali fondi premiali per le “eccellenze” dovrebbero comunque essere sempre “aggiuntivi” rispetto a quelli necessari per il normale funzionamento degli atenei. Non ci sarebbe comunque spazio per gli aspiranti fannulloni e resterebbe alla politica, come è giusto che sia

e sulla base di una informazione oggettiva e fondata, la responsabilità di altre e più complesse decisioni.

Questa disobbedienza, che non mette dunque in questione il principio della valutazione ma solo la sua applicazione, che ha prodotto e produrrà conseguenze che consideriamo inaccettabili, può avere successo solo se sarà una scelta condivisa .

Chiediamo alla CRUI di confermare la sua posizione e annunciare che le università italiane non parteciperanno alla VQR 2011-2014, almeno fino a quando Governo e Parlamento non avranno dato una risposta concreta e definitiva sul recupero delle risorse.

Chiediamo al CUN di esprimersi in modo inequivocabile sulla posizione della CRUI e sulla possibilità di considerare “ben congegnato” l’attuale sistema della VQR, assumendosi le sue responsabilità se ritiene di doverlo sostenere e indicando, in caso contrario, le azioni da intraprendere in alternativa a quella che stiamo proponendo e che ha il vantaggio di non togliere nulla ai nostri studenti e al nostro impegno per la ricerca.

Chiediamo alle società scientifiche di invitare i loro soci a ritirare la loro eventuale disponibilità a far parte dei Gruppi di Esperti della Valutazione, in modo da bloccare l’intera procedura fino a quando non ne siano stati ridefiniti obiettivi e modalità.

Chiediamo ai singoli docenti e ricercatori di esplicitare la loro adesione a questa protesta, annunciando pubblicamente l’intenzione di acquisire l’identificativo ORCID, come previsto tassativamente dal bando della nuova VQR, ma di non elencare in ordine di preferenza i prodotti di ricerca attraverso lo strumento informatico messo a disposizione dal CINECA. Almeno fino a quando, una volta verificata l’indisponibilità della maggior parte dei colleghi a scegliere la via del rifiuto, ciò non venisse imposto come condizione imprescindibile per l’invio degli stessi da parte delle rispettive istituzioni.

Siamo consapevoli di non poter chiedere di più, perché la disobbedienza solo di pochi si tradurrebbe automaticamente in un danno non solo per loro ma anche per le comunità alle quali appartengono. È un’astuzia diabolica del sistema. Se saremo tanti, potremo però superarla e costringere Governo e Parlamento a cambiare rotta. In caso contrario, la responsabilità sarà solo nostra. Della nostra pigrizia, della nostra rassegnazione, della nostra incapacità di scegliere il coraggio delle parole chiare e distinte. Chiediamo in ogni caso a chi vorrà aggiungersi a noi l’impegno a non prestare nessuna ulteriore forma di collaborazione, lasciando a chi sostiene questa VQR o comunque non ritiene di doversi opporre ad essa almeno l’onere di farla funzionare.

Chiediamo infine ai nostri studenti di non considerare questo problema come “un affare dei professori” e di dare la loro risposta sui tre punti che abbiamo sollevato. Presentando i risultati della prima VQR, l’ANVUR li ha indicati, insieme alle loro famiglie, fra i soggetti che potranno trarre vantaggio da questo sistema. Per noi è importante sapere se sono d’accordo.

 

YOD MAGAZINE ringrazia il prof. Stefano Semplici per aver dato il permesso alla pubblicazione di questo scritto, apparso originariamente su Roars.it

 

 

La fede di tutti

In credere, editoriale, Filosofia, Uncategorized on 20 September 2015 at 5:50 AM

Giovanni Scarafile

«Sa, spesso, durante le omelie, sento il bisogno di mettermi ad urlare», mi confessa candidamente Ermanno, un apparentemente pacato signore di mezza età, durante un lungo volo intercontinentale. «Non l’ho mai fatto», aggiunge sommessamente, decrittando la mia espressione preoccupata.

Ci sono dei momenti nella vita di un uomo – ragiona Ermanno – in cui si ha bisogno di parole calde. Non consolazioni a buon mercato, ma piuttosto la speranza che un senso nella vita possa esserci. Sì, è vero, ci sono gli psicologi che aiutano a cercare dentro di te. Ma questo può non bastare. No, di consulenza filosofica non ha mai sentito parlare. «A cosa alludi – siamo passati al tu molto rapidamente – esattamente?», gli ho infine chiesto.

«Sono un credente sui generis, Gianni. Sì, insomma, non sono mai stato un praticante in piena regola. Ma mi piace, mi è sempre piaciuto sentir parlare di Gesù. Quando accade, sento una pace dentro inimmaginabile altrimenti. E così, qualche volta, vado a sentire le omelie. Entro in una chiesa scelta a caso. Mi siedo come un qualsiasi fedele e aspetto che arrivi il momento giusto. Poi, ascolto. Beh, che ti devo dire? Mi scende il latte alle ginocchia. Non che io abbia gli strumenti teologici per giudicare il grado di preparazione di un prete. No, non è questo. È che non mi sento toccato. Mi chiedo come possa il commento della parola di salvezza non partecipare del senso di ciò che dovrebbe esprimere».

Mentre – annuendo – socchiudo gli occhi, tentando di capire se il mio interlocutore è un convertitore seriale in incognito, sento la mente inondarsi di ricordi della delusione provata a mia volta di fronte all’insipienza dell’ennesima predica “a vuoto”.

* * *

Quelle parole che splendevano luminose, «vangelo», «apostolo», «battesimo», «conversione», «eucarestia», sono state svuotate di senso o riempite di un senso diverso, banale e innocuo. «Buona cosa è il sale,» dice Gesù «ma se il sale perde sapore, con che cosa verrà salato?» [4].

È vero che stiamo assistendo ad un ritorno alla letteratura religiosa nell’attuale panorama editoriale? Numericamente, non direi. Il numero dei libri a contenuto religioso è infatti fin troppo esiguo anche solo per avviare qualsiasi verifica. Non si può, tuttavia, negare che alcuni libri recenti (Il Regno di Emmanuel Carrère, prima di tutto e poi anche Sottomissione di Michel Houellebecq, Giuda di Amos Oz, La ballata di Adam Henry di Ian McEwan) sollevino il problema del ruolo della religione nella nostra vita, come Lucetta Scaraffia [7] ricorda: «A cosa serve la religione? Quali sono le ragioni per cui val la pena vivere anche senza Dio? Come ci si può mettere al posto di Dio per decidere se una persona deve vivere o morire? Decisioni sempre più difficili e drammatiche, situazioni emotive sempre più dolorose pesano sulle spalle di persone che non sanno più come orientarsi, che hanno perduto ogni punto di riferimento che non sia la loro razionalità».

Si tratta, in realtà, di domande “inattuali”, destinate a non essere superate dalle mode passeggere e che, probabilmente proprio per questo, riaffiorano oggi, testimoniando la centralità della domanda di senso. Eppure, sembra che domanda ed offerta siano destinate a non incontrarsi. Non del tutto, almeno. Come segnalato dalle parole di Carrère ricordate all’inizio e dalla vana ricerca di Ermanno incontrato in aereo, le parole della fede sono inefficaci, spesso desuete, destinate nel migliore dei casi ad essere comprese appieno solo dagli addetti ai lavori.

L’aggiornamento dei contenuti (espressioni, ma anche gesti liturgici) della fede richiede competenze specialistiche, ovviamente. Tuttavia, da un punto di vista opposto, quella stessa attualizzazione dei contenuti della fede si sottrae ad una “esecuzione” riservata a pochi esperti. Essa, è, piuttosto, un compito universalmente rivolto a tutti i credenti. Non so, infatti, immaginare il motivo per cui ogni singola coscienza credente o, prima ancora, pensante, non dovrebbe essere interpellata in merito alla adozione di strumenti più appropriati per comunicare i dati fondamentali di un credo.

È strano, no? La fede è per tutti, è di tutti, non è certo una proprietà privata. Proprio per questo, dovrebbe essere formulata in un linguaggio ordinario comprensibile a tutti. In cosa crede chi crede se il linguaggio della fede è incomprensibile?

1. Le ragioni di una crisi

Le parole iniziali di Carrère parlano di una crisi. Ci sono – spiega lo scrittore francese – parole della massima importanza che, tuttavia, non sono più in grado di farsi comprendere da coloro cui sono destinate. In questi casi, ciò che viene meno non è tanto la possibilità di riferirsi alla realtà ordinaria indicata dalle parole che utilizziamo più spesso. No, nella misura in cui a perdere “peso” sono le parole fondamentali di una religione, ciò che rischia di venir meno è il grado di incisività dell’appello alla salvezza inizialmente veicolato da quelle parole.

Per rendersi conto del danno, è bene ricordare come ogni religione proponga ai suoi fedeli una via verso la pienezza del senso. Le vie possono essere diverse, a seconda delle religioni, sebbene non vi sia unanimità su tale assunto[1]. Nella molteplicità delle vie, il dato costante è comunque rappresentato dall’attestazione che il senso, molto spesso un senso ultraterreno, sia conseguibile o, prima ancora, che un senso vi sia. In questa vita, possono esserci molte cose di cui non comprendiamo appieno o non comprendiamo affatto il senso. Non importa, dice la religione. Questa eclissi del senso è solo una condizione temporanea, dovuta alla nostra natura mortale. Superata la fase delle mortalità, il senso del tutto potrà finalmente essere contemplato ed anzi, perché ciò accada, è bene che già in questa vita si adottino determinati comportamenti. Nel momento in cui le parole sono svuotate, come dice Carrère e molti altri al suo fianco, è la stessa dinamica di conseguimento del senso ad implodere. Ecco perché discutere dell’attualità del linguaggio religioso riguarda tutti.

2. La consunzione delle strutture segniche

Il nostro consueto comunicare è spesso accompagnato dal tacito convincimento che le parole di cui ci serviamo abbiano il potere pressoché eterno di riferirsi ai significati delle cose. In realtà, esse rappresentano forme di significazione “a tempo”. Rinviano a ciò che rappresentano, ma solo a determinate condizioni. La durata rappresenta una di queste condizioni: con il passare del tempo, i modi del dire diventano desueti.

Quando una parola non conduce più nei pressi di ciò che indica, ma anzi disorienta o lascia indifferenti, allora ci troviamo di fronte al fenomeno della consunzione delle strutture segniche. Nella vita di una parola, come si arriva a tale consunzione? La domanda è importante, perché se comprendiamo la genesi della consunzione possiamo sperare di trovarle un antidoto.

Nel corso della sua esistenza, una parola oscilla tra due poli: originalità e stereotipia.

Esiste, com’è noto, un serbatoio linguistico dentro il quale troviamo la gran parte delle parole di cui ci serviamo ogni giorno. Di solito, per dare un nome alle cose o alle situazioni, il nostro compito consiste nel combinare le parole esistenti oppure nel fare uso di espressioni linguistiche già preformate. La differenza tra il primo ed il secondo approccio è sostanziale.

Nel primo caso, nel processo di creazione o combinazione creativa di termini desunti dalla tradizione, noi facciamo appello alla parte più intima di noi, l’individualità essenziale. La parola o l’espressione che scaturisce è il risultato della nostra meraviglia di fronte a ciò che è da nominare. Si tratta di una esperienza fondante ed originaria che, non a caso, la tradizione di pensiero occidentale fa coincidere con l’inizio del senso.

Nel secondo caso, quella della parola prêt-à-porter, il ricorso all’individualità essenziale è ridotto al minimo. Si tratta, infatti, per lo più di mutuare e fare propria una parola o espressione già costituita. Ecco, dunque, i due poli cui accennavo. Sul primo versante, l’originalità di una espressione scaturita dalla parte più intima di noi stessi; sul secondo, la stereotipia inevitabile conseguente l’uso di «gettoni verbali» [8] convenzionali.

A questo punto, la fisiologia della parola è quasi del tutto determinata. Manca solo un ultimo passaggio. Infatti, una volta individuata, un’espressione linguistica non mantiene inalterato il suo potere di rinvio al significato. Tutt’altro. È possibile, anzi, riferire un naturale decadimento che accompagna la vita delle espressioni. Si tratta di una parabola discendente, che dal momento della nascita, acme della significatività, conduce fino all’insignificanza.

La dinamica della parola fin qui accennata ha conseguenze dirette per il nostro discorso. Infatti, proprio perché una parola non permane nella sua iniziale significatività, se non si vuole smarrire ciò cui essa rinvia, occorre che sia aggiornata, ovvero resa nuovamente adeguata al contesto. “Comunicare in tempo”, allora, significa avvalersi di strutture segniche non desuete, ma adeguate al contesto: i segni del mutamento richiedono un mutamento dei segni.

3. Tornare a cercare la verità

Le parole di Carrère, citate all’inizio, si riferiscono ad un caso particolarmente significativo di questo processo: come rendere di nuovo attuali, cioè incisive, vincolanti ed irrinunciabili, parole fondamentali della fede cristiana oggi considerate obsolete?

Prima di rispondere a questa domanda, occorre mettere in conto una scontata obiezione: ma come – si dice – non sono le parole del cristianesimo valide in eterno? Che bisogno c’è di “aggiornarle”? Oppure – si obietta – non si corre il rischio che con l’aggiornamento di quelle parole si relativizzi il loro significato?

L’assunto, molto spesso inconsapevole, su cui poggiano tali obiezioni è che le parole possano indicare in eterno, secondo una procedura già confutata nel paragrafo precedente. Consapevolmente o meno, infatti, si continua a ritenere che la lingua originariamente scelta per veicolare il cristianesimo sia immutabile, sottraendole quel carattere di storicità che invece ed incontrovertibilmente le appartiene. In aggiunta, si potrebbe ricordare con il gesuita Pierre Gibert [5] che «Già per le prime generazioni cristiane, quelle provenienti da un paganesimo saturo di racconti mitici quanto di cinici racconti di guerra e violenza, solo l’allegorizzazione di tutte le loro figure dava ad esse un senso conforme alla fede in Cristo».

Alle obiezioni appena richiamate, si dovrebbe rispondere, che è senz’altro vero che il messaggio di Cristo è eterno. Tuttavia, non è meno vero che tale messaggio, per essere efficacemente conosciuto ed applicato, deve essere espresso nella lingua degli uomini. È stato fatto così agli inizi del cristianesimo. Perché non dovrebbe essere così, oggi? O si vuole forse sostenere che sia meglio una fede abitudinaria in cui l’accesso al significato sia fondato sulla tradizione o sulle pratiche devozionali e non sulla Parola? O si vuole auspicare una fede basata sull’ossequio all’autorità e non sulla Parola? O si vuole difendere una fede fondata sulla paura di affrontare il proprio destino e non sulla Parola?

Si tratta allora di eliminare ogni possibile incrostazione (linguistica, ideologica o di altro tipo) per fare in modo che quel messaggio possa risuonare nel pieno della sua efficacia anche agli uomini di questo tempo. Senza necessariamente fare proprie tutte le sue tesi, basti qui ricordare che nel 1985 il Jesus Seminar[2] ha osservato che l’attribuzione dell’84% delle parole di Gesù non è fondata.

Ora, la sola eventualità che si continui a ritenere vero ciò che vero non è, dovrebbe spingerci, come credenti, ad intraprendere ogni sforzo perché questo genere di questioni possa essere almeno dibattuto.

Il mio timore è che una delle principali ragioni per cui questo non accada o non accada con la stessa forza con cui dovrebbe accadere secondo il buon senso, è che si è forsennatamente impegnati a gestire l’esistente. Inutile dirlo: la gestione dello status quo non sembra operazione di particolare assennatezza. Per intendersi: nell’ambito della vita ecclesiale, di fronte al rischio di credere in ciò che potrebbe essere non vero, si continua – come se nulla fosse – ad organizzare processioni e comitati feste patronali, a scendere nelle piazze per cantare in coro a squarciagola canti in cui Dio stesso è divenuto un oggetto di cui sbandierare il possesso o a fare il “trenino” – sì, anche questo – sulle note di “Ho visto Gesù Cristo, ho visto Gesù Cristo, eh mammà, innamorato sono”.

In questo scenario, nel migliore dei casi, nell’ambito della pastorale, la routine ha sostituito la ricerca della verità. Qualche tempo fa, il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong, sostenne che i membri del clero fossero impegnati a nascondere ogni conoscenza sul reale Gesù Cristo «per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale», concludendo che «Ogni divinità che ha bisogno di protezione nei confronti della verità, da qualunque fonte provenga, è già morta» [1]. Quella previsione, che comunque presupponeva un atteggiamento avveduto, critico e consapevole da parte del clero, sembra oggi fin troppo ottimistica. È difficile, a questo punto, non essere d’accordo con Ermanno, l’uomo dell’aereo: basta ascoltare la maggior parte delle omelie oggi per rendersi conto che il cristianesimo proposto ai fedeli sembra sprofondato in una sorta di melassa insapore.

4. La fede di tutti

In diversi momenti del suo libro, Carrère ricorda di non essere credente, pur essendolo stato. Questa sua condizione non lo legittima di meno a parlare della fede e della fede cristiana in particolare. Perché la fede e la fede cristiana, cioè la  proposta di un senso specifico per la vita dell’uomo, è fede di tutti. Non soltanto di un gruppo di uomini autorizzati a parlare perché in possesso di una particolare patente, ma di tutti.

Perché ciò accada, però, è necessario che si torni a proporre quei contenuti nel linguaggio degli uomini di questo tempo. Questo è il principale merito de Il Regno, anche quando sembra allontanarsi dalla ortodossia. Esso rimane comunque la testimonianza di un’anima in ricerca.

Nella sua opera, lo scrittore francese “offre se stesso” come materia di narrazione. Tale implicazione personale ha fatto parlare, forse un po’ enfaticamente, di «rito eucaristico» [2]. Tuttavia, ancor più che nei romanzi precedenti (uno su tutti, L’avversario), la scelta formale dello scrittore di implicarsi non è aliena dalla sostanza di ciò che è narrato. Questo mi sembra debba essere sottolineato. Attraverso tale espediente, si realizza ciò che Baumgarten [3] definiva «grandezza estetica», ovvero la perfetta corrispondenza ed adeguatezza tra pensieri ed oggetti. Il risultato è l’invito alla immedesimazione rivolto implicitamente al lettore: «Il lettore depone progressivamente le armi, non tanto sedotto dalla parola che non potrebbe dominare, ma perché sorpreso nel riconoscere se stesso in bagliori diversi […] che gli permetteranno di andare oltre per ritrovarsi un po’ più lontano, toccato personalmente» [5]. Tale merito è riconosciuto anche da Scaraffia: «Ma la domanda sulla resurrezione, fondamentale, è vera, e percorre tutto il libro a domandarci, a nostra volta, se ci crediamo veramente. Ci costringe a prendere atto che se ne parla pochissimo, perfino da parte della Chiesa stessa, come se fosse un argomento leggermente sconveniente» [7].

* * *

– «Quante volte nell’ultimo mese hai pronunciato la parola “misericordia” nei tuoi discorsi?». Intuendo dove conducessero le sue parole, ho esitato qualche istante prima di rispondere al mio interlocutore a 11000 metri d’altezza.

– «Mah… Nessuna, mi pare».

– «E non ti sembra un autogol che, per indicare un evento rivolto all’umanità intera come un anno santo, si sia fatto ricorso ad un termine obsoleto, del tutto caduto in disuso nel linguaggio ordinario? Usando parole da “addetti ai lavori” non si continua a vanificare la forza di una fede per tutti, della fede di tutti?»

Riferimenti bibliografici

  1. Adista documenti, n. 28 del 21/07/2012.
  2. Bajani, A. 2015. Storia di Gesù al filtro del proprio Io. Il Manifesto. 01.03.2015
  3. Baumgarten, A.G. 2000. Palermo: Aesthetica Edizioni
  4. Carrère, E. 2015. Il Regno. Milano: Adelphi
  5. Gibert, P. 2015. Da Lui a noi: qual è il «Regno» di Emmanuel Carrère?. La Civiltà Cattolica 3963-3964, pp. 308-317
  6. Intervento del cardinale prefetto Joseph Ratzinger In occasione della presentazione della dichiarazione “Dominus Iesus”, reperibile su: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000905_dominus-iesus-ratzinger_it.html
  7. Scaraffia, L. 2015. Nuovi romanzi ‘religiosi’. Sul ritorno del cristianesimo nella narrativa contemporanea. La Rivista del Clero italiano, 5/2015, pp. 362-372.
  8. Steiner, G. 2001. Linguaggio e silenzio. Milano: Garzanti

[1] Basti ricordare quanto scriveva l’allora cardinale Ratzinger [6]: «Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l’idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell’opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall’orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo».

[2] Il Jesus Seminar fu fondato nel 1985 da Robert Funk e John Dominic Crossan e riuniva un gruppo di 150 studiosi specializzati nell’ambito degli studi biblici. Cf. [1].

Cybersex e cybersex addiction: le nuove frontiere del sesso

In Uncategorized on 20 September 2015 at 5:39 AM

Nunzia Marciante

La recente diffusione del computer e l’utilizzo sempre più massivo dei social network ha determinato un cambiamento nel contesto sociale, generando modificazioni dei comportamenti, dei linguaggi e delle abitudini di milioni di persone. Diversi studiosi americani hanno spiegato la diffusione di questo fenomeno con la teoria della tripla “A”, sottolineando le caratteristiche di “Anonimity” (anonimato), “Access” (facilità d’uso) e “Affordability (economicità) che hanno consentito un rapido sviluppo del fenomeno. Questi aspetti col tempo hanno finito con il coinvolgere anche ambiti come la sessualità che erano esclusi dalla rete e dal suo utilizzo. La progressiva chiusura dei cinema a luci rosse e la drastica riduzione della tiratura dei giornali hard hanno aperto uno spazio nel mondo del World Wide Web, dove la sessualità è divenuta via via sempre più virtuale, mediante il desiderio di vivere emozioni attraverso uno schermo, piuttosto che con un partner reale. La rete diventa così il luogo dove potersi esprimere ed incontrare, con l’obbiettivo di trasgredire ed evadere dalla quotidianità di un rapporto di coppia. Per alcuni versi il cybersex può essere visto come la possibilità di incontrare nuovi partner sessuali virtuali con i quali simulare attraverso chat scritte o video chat, di avere rapporti sessuali, anche con l’ausilio di web cam. D’altro canto, il sesso cibernetico può essere anche finalizzato alla ricerca di forme di sessualità non tradizionali e pertanto non riconosciute all’interno delle forme convenzionali di intimità. In quest’ottica la rete diventa una vera e propria incubatrice, una sorta di “Grande Madre” dove poter custodire insieme alle fantasie più recondite anche la propria domanda di riservatezza e di protezione.

Sono gli uomini di età compresa tra i 35 e 55 anni, sposati o separati, ad essere i più importanti frequentatori di internet a scopo sessuale. Dietro a questo identikit si cela spesso un individuo che ha difficoltà nel relazionarsi ad un partner reale, o che preferisce instaurare un rapporto con l’altro esclusivamente virtuale, superficiale, senza dover mettere in gioco se stesso e la propria capacità di amare. Infatti, per alcuni uomini e per un esiguo numero di donne, il sesso più soddisfacente è rappresentato da quello che si pratica con un partner attraente e allo stesso tempo compiacente, con il quale però non creare nessun tipo di coinvolgimento emotivamente profondo. Inoltre, la necessità di cercare all’interno della rete stimoli sempre più intensi può portare l’individuo a trascorrere sempre più ore connesso al computer, attuando un comportamento compulsivo che si può trasformare in una vera e propria forma di dipendenza, creando un distaccamento dal mondo reale. Si parla così di cybersex addiction, intendendo la propensione dell’individuo a provare piacere esclusivamente attraverso la rete, senza riuscire mai a smettere di essere collegato e manifestando contemporaneamente gravi difficoltà relazionali con un partner reale e con il mondo circostante.

Bibliografia

Schneider J.P., Untangling the web: sex, porn, fantasy obsession in the Internet age, New York, Alyson Book, 2006

Cooper A., Sexuality and  the internet: surfing in to the new millennium, 1998

Kimberly S. Young e Cristiano Nabuco de Abreu, Internet Addiction. A Handbook and Guide to Evaluation and Treatment, Wiley, 2010

Le fantasie sessuali, giardino segreto o spazio condiviso nella coppia

In Uncategorized on 4 September 2015 at 3:12 PM

Nunzia Marciante

Qualche anno fa feci un consulto a una coppia che manifestava l’apparente richiesta di risolvere i suoi problemi relazionali. I due riferivano di essere entrati in crisi dopo che avevano realizzato una fantasia sessuale. La moglie, soprattutto, lamentava di aver assecondato l’insistente richiesta del marito di avere rapporti sessuali a tre, con un dipendente dell’azienda del marito stesso. Questo desiderio, relegato inizialmente nella sfera dell’immaginario, si era trasformato in realtà, rappresentando per il marito la realizzazione di una fantasia, ma generando allo stesso tempo un esito dirompente nella dinamica della coppia. In seguito a questo “menagè a trois” l’uomo aveva notato dei cambiamenti nella moglie, che ammise di aver provato piacere nel corso di quel rapporto sessuale, in maniera più intensa rispetto a quando loro due facevano l’amore. La donna confessò anche di essersi infatuata di quell’uomo, generando nel marito non solo un sentimento di sconforto, ma anche un senso di inadeguatezza che sfociò in un vero e proprio disturbo erettile. Il percorso fu così focalizzato sul recupero degli aspetti positivi della loro relazione, ponendo l’attenzione sia sui sentimenti della moglie, che si rivelarono passeggeri, che sull’autostima del marito e sul recupero della potenza sessuale.

La riscoperta dell’intimità della coppia e l’utilizzo funzionale delle fantasie divennero strumenti centrali per condividere il piacere all’interno della coppia, piuttosto che all’esterno. Da sempre, però, il loro utilizzo è stato considerato ad appannaggio esclusivamente maschile, come se ricorrere all’immaginario erotico fosse qualcosa di “sporco” o eticamente disdicevole per una donna. Tabù sessuali e pregiudizi di genere hanno supportato l’idea che il ricorso alle fantasie sessuali fosse un’attitudine prettamente maschile, una specie di vizio inconfessabile al partner, una sorta di giardino segreto da non coltivare con il proprio compagno. Inoltre, l’educazione ricevuta o l’ambiente sociale in cui l’uomo e la donna si trovano a vivere possono rendere difficoltosa la capacità di esprimere i propri desideri più reconditi. Per la donna, ad esempio, lasciar spazio alla propria fantasia e all’immaginario sessuale può far riattivare antichi sensi di colpa legati all’esperienza sessuale, come la paura di essere giudicate negativamente dal proprio partner. Studi più recenti hanno invece evidenziato profonde differenze tra le fantasie maschili e femminili. Mentre queste ultime utilizzano una modalità che potremmo definire “situazionale”, cioè legate a luoghi o situazioni particolari (fare sesso in ascensore, per strada, nella vasca da bagno) per gli uomini le stesse fantasie sono finalizzate a prestazioni sessuali specifiche come il sesso orale, anale, o fatto in posizioni particolari. Tali fantasie, non necessariamente divengono agite all’interno della coppia. Al contrario, si è visto che esse risultano eccitanti unicamente nella fantasia, in quanto finirebbero con il perdere la propria capacità di generare il desiderio e quindi l’eccitazione.

Bibliografia

Willy Pasini, Umberto Galimberti, Claude Crèpault, L’immaginario sessuale, Raffaello Cortina, 1988

Lido Valdrè, Il linguaggio dell’eros. La parola come segnale erotico, Rusconi, 1991

Nancy Friday, ll mio giardino segreto. Le fantasie erotiche femminili,TEA, 1997

L’ascoltatore 2.0. Per un approccio etico alla musica

In Uncategorized on 21 August 2015 at 5:58 PM

Roberto Greco

La voracità, l’ingordigia distruttiva che talvolta assale nel momento dello svago personale e collettivo, permette, quasi come fosse un contraltare, una lentezza nella ricerca di stili che siano in grado di definire le generazioni viventi (solo in determinate parti del mondo, s’intende). Così non è stato fino a pochi decenni fa, in cui arti come moda e musica segnavano punti di demarcazione di un’epoca.

In queste brevi note, vorrei provare a mettere a tema l’evoluzione creativa (e relativa fruizione) musicale degli ultimi anni, che per le sue caratteristiche – che spiegherò tra breve – definirò “etica”. Sarebbe anacronistico parlare di quanto l’industria musicale abbia subìto una rilevante crisi, nonostante la debole risalita verificatasi a cavallo dell’ultimo biennio. L’intenzione è un’altra. Il problema che l’industria discografica stessa tende a nascondere sotto il tappeto è la sempre minore possibilità di scelta musicale che ha l’ascoltatore in relazione non solo a cosa vorrebbe ascoltare ma anche, secondo ciò che gli si propone, a scapito della varietà (stilistica e non solo) e della qualità. L’utente medio è talmente assuefatto al facilissimo accesso alla musica da non sentire prima di tutto il bisogno di acquistarla (e in questo lo streaming legale ha salvato un bel po’ l’industria) né, in secondo luogo, sente il bisogno di supportarla. Sono le turnée a garantire gli incassi agli artisti che con le vendite dei soli dischi, nella migliore delle ipotesi, riescono solo a rientrare nelle spese. Il mezzo-internet, purtroppo, è sfruttato solo in parte a dispetto delle sue potenzialità e la nascita degli stores digitali ha avuto se non altro il pregio di far nascere una generazione di “ascoltatori 2.0”. Prendo in prestito il “2.0” da Tim O’Reilly, CEO della O’Reilly Media, che si accorse dell’evoluzione del Web affiancata, per la prima volta, da un feedback dell’utente definendola, appunto, Web 2.0. L’ascoltatore 2.0 appartiene alla stessa generazione che ha vissuto coscientemente il passaggio dall’acquisto fisico (con tutti i rituali del caso, il negozio di dischi di fiducia e così via) alla comodità dell’acquisto digitale: spazio utilizzato dal disco rigido e non più dalla libreria di casa. Il nuovo ascoltatore è figura ancora non storicizzabile perché nascosta dal “carnefice musicale”, da chi si accontenta, ascoltando qualsiasi cosa (gratis). Eredita dal vecchio ascoltatore il rispetto riservato al prodotto e la voglia di giudicarlo, attraverso elogi o critiche scritti sulle piattaforme dedicate, siano esse gli stessi stores, i forum e le pagine ufficiali, sperando che l’artista in questione abbia l’accortezza di leggerli. Il punto di forza di queste strategie è il recupero del fan. Ed è proprio il legame diretto tra artista e acquirente a garantire ancora qualche risultato di vendita. Piattaforme musicali italiane come Artist First sono nate con lo scopo di riavviare questo contatto, mettendo in vendita edizioni discografiche (cd e vinili) personalizzabili o autografate. Una nuova alternativa, stavolta nata oltremare, è quella del crowdfunding, del finanziamento collettivo. L’acquirente diventa un mecenate e finanzia, se lo ritiene interessante, il progetto dell’artista che ha chiesto il sovvenzionamento.

In Italia, la cantante Meg ha dato alle stampe la sua ultima opera, Imperfezione, proprio grazie ad un crowdfunding, impreziosendo ogni copia acquistata del cd o del vinile non solo attraverso una dedica o delle personalizzazioni particolari ma anche con un packaging “imperfetto”, fatto a mano. È necessario allora parlare di ascoltatore etico: egli ascolta e, soprattutto, sceglie cosa ascoltare e cosa supportare. In tal modo, diventa parte integrante nel processo creativo dell’artista. Se i risultati premiano queste nuove strategie di vendita, la ricerca di un contatto più puro con i propri fan dovrebbe partire dall’artista stesso. Verrebbe meno l’autoreferenzialità, vero veleno che rende sempre più piatta la già magra scelta musicale in questi ultimi anni.

Alimentare il desiderio?

In Uncategorized on 21 August 2015 at 9:10 AM

Nunzia Marciante

È di poche ore fa la notizia che dal prossimo ottobre le donne americane potranno annoverare nel prontuario dei farmaci a loro riservati anche l’Addyi, nome commerciale della molecola nota come flibanserina. Questa sostanza regalerà la promessa di un aumento della libido e di rapporti sessuali  più frequenti e soddisfacenti. Già ribattezzata dai non addetti ai lavori come il Viagra rosa, in realtà si differenzia dal suo omonimo destinato agli uomini sia per il principio attivo che per le indicazioni terapeutiche. Questa molecola agisce a livello cerebrale, regolando il livello di due neurotrasmettitori, la dopamina e la noradrenalina, che attivano i meccanismi del piacere durante il rapporto sessuale. A differenza della pillola blu che, aumentando l’afflusso di sangue provoca l’erezione nell’uomo, dando luogo a un rapporto sessuale soddisfacente, questa nuova sostanza sembra indicata nei casi di Disturbo da Desiderio Ipoattivo, quando cioè la donna, pur riuscendo a provare l’orgasmo nel corso di un rapporto sessuale, non manifesta il desiderio di fare l’amore. La FDA ha approvato il medicinale destinandolo peró esclusivamente alle donne in cui il calo o la mancanza di libido causi stress o difficoltà interpersonali, e non sia il risultato di malattie o conseguenza dell’uso di altri farmaci. Questa molecola, però, non rappresenterà il Sacro Graal delle “separazioni di coppia procrastinate”, come invece spera l’opinione pubblica americana, che intravede in questa nuova opzione terapeutica la possibilità di salvare i matrimoni attraverso un incremento dei rapporti sessuali che deriverebbero semplicemente da un aumento della libido, indotta chimicamente. Sarebbe troppo semplicistico, infatti, pensare di ridurre lo stato di salute di una coppia al numero di attività sessuali nel corso della vita. Quale sarebbe infatti la norma a cui aspirare o il numero di rapporti da consumare al giorno, alla settimana, al mese o in un anno per sentirsi socialmente “buoni partner”? Il rischio di voler ridurre tutto a dei numeri ha in seno lo stesso rischio di chi si trincera dietro al potere assolutistico della parola, che può  assolvere ma allo stesso tempo condannare, inesorabilmente, ad un’etichetta di “anormalità “. Ed è per questo timore che la stessa Società produttrice della molecola ha scelto di non pubblicizzare nei primi 18 mesi di commercializzazione il farmaco, per il sospetto che ne venga fatto un uso improprio, interpretandolo come la bacchetta magica per la soluzione di problematiche di coppia ben più profonde e radicate, creando più problemi che benefici. D’altra parte, l’introduzione di questo farmaco rappresenta una vera e propria rivoluzione dopo quello della pillola contraccettiva, in quanto colma un gap socio-culturale che sembra privilegiare il sesso maschile come destinatario di soluzioni farmacologiche atte al miglioramento della prestazione sessuale. Ma, al di là di semplicistiche rivendicazioni di stampo pseudo-femministe, sicuramente questo farmaco potrà rappresentare una soluzione per chi non riesce più a provare il desiderio di avere un rapporto sessuale con il proprio partner, pur non soffrendo di altri disturbi. In questa prospettiva avrà senso una scelta terapeutica capace di lasciare lo spazio alla libertà del singolo individuo di scegliere in autonomia quale strada intraprendere, opzione che però si può esercitare solo con una corretta informazione, resistendo sia alle pressioni del marketing che alle sirene ideologiche di chi vuole a tutti i costi sostenere l’irrinunciabilità della ricerca di un orgasmo extra a tutti i costi.

Bibliografia

Carrol, J. 2015. The FDA blundered badly on the Addyi approval

Walton, A.G. 2015. Why libido drug Addyi is not the “Female Viagra”

Nunzia Marciante, sessuologa, ha collaborato con l’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma, svolgendo numerosi interventi scolastici di prevenzione del disagio adolescenziale, di prevenzione dell’HIV. Ha collaborato con la Pfizer Italia nella realizzazione di corsi rivolti a medici di famiglia, finalizzati a sensibilizzare sul corretto uso del Viagra. Svolge attività clinica individuale sui principali disturbi sessuali e di coppia attraverso un approccio integrato. Insieme a Chiara Simonelli e Adele Fabrizi, è autrice del volume La sessualità femminile tra vecchi chichè e nuovi obblighi (Franco Angeli 1998).

Stalker

In Uncategorized on 17 March 2015 at 9:40 AM

Mattia Jacopo Zaterini

Acting on our being, on our very nature can be a challenging process, especially if this action produces a conflict, a rift between the need for a change and our choices that have accompanied us up to that point: fighting for ourselves and with ourself has consequences not easily predictable. What is certain is that at the end of the battle we have to choose the winners and losers.

You know what, Professor? I do not want to argue with her. With the discussion comes the truth… Water shakes my ankles, my left hurts since we crossed the border of the Zone. The forehead resting on the hands, the cold makes me forget the pain I live only a few minutes at a time, then reappears and becomes mind, recaptures my attention, lowers my peace. Words, relentless words, I cannot hold them, they slip through my fingers, dripping in pools around the feet, slow, and their noise keeps track of time in a world that does not understand us, that does not want us. And my dear fellow travelers can still breathe and move their lips as if this air were not for them, as if every breath was their right and not a conquest of their lives. I rise, we have to start over. We walk for a long time and we are four. The Writer, the Professor, the Stalker. We got in line, in an order without criteria, determined from our guide without name, like all of us. I asked her to take me into the Zone, to be escorted into the room. I’d go alone if only it were possible. But the Zone needs a stalker, and a stalker and needs the Zone. I am the last this time and I have orders not to turn around. Rain must have fallen recently, the gray sky hides perhaps a distant sun. We move slowly through tall grass, metal skeletons, dilapidated buildings, meadows and streams, with little noise, little reason to talk, little desire to do so and even less to see foreign eyes planted on us. Wait. The stalker is launching yet another of his bolts attached to a piece of cloth a few yards in front of him. I see it draw an arc in the air before falling near a bush and disappearing among the flowers. Here it is, the room is there. A little house on a hill resists crumbling, half a mile further on, draws unnatural lines against the gray sky. The roof collapsed because of the war or time or by the hand of God, the lower floor is without doors or windows, the porch mired in the muddy ground. We’re almost there. No, Professor, we cannot proceed. We have to go around. Why? In the area the straight road is not the safest. The area is perhaps a very complex system of traps and they are all mortal. I do not know what happens here in the absence of man, but as soon as someone comes around it starts to move. The old traps disappear and new ones arise. Safe places become impassable and the way now is simple and easy, now complicated beyond belief. This is the zone. Perhaps to some it may seem capricious, but it is just as we create it, like our state of mind. I do not deny that there have been cases where people have to go back empty-handed. Some are even dead in the doorway of the room. But what happens does not depend on the Zone, it depends on us. The good man goes on and the bad one loses his head? I do not know, it seems to me that those who have no hope can go on, not bad or good, but unhappy. The wind starts to pick up, the cold intensifies. We need to continue. We follow a line that runs from the house. I cannot think, the professor and the writer yell, insult each other. Why you are here, Professor? Well, I’m a scientist. And why you are here? You are a writer, will certainly have all the women you want. I am looking for inspiration, I came here to beg. And why you are here? For the first time the writer speaks to me. I’m here because I want to become the most skilled thief who ever lived. He is a few steps away, but I can clearly see the skin on her face bend, a smirk, half smile. I envy you, dear two-bit thief. Alone in the dark, living at the limit of what is permissible, even a little beyond, you appropriate the belongings of others, take advantage of the distraction of those who have something that you do not have but want. Weak, and for this reason, clever. I remain to hear the last words in silence. I’m good, but not quite. I will ask to the, to steal whatever I want, with the confidence to stand overnight in a warm bed, not to be caught. Shut up, everyone. Have you heard? The stalker stops, looks around terrified. No, I do not think I’ve heard anything. More silence. He began to move cautiously, slowly, resumed his unsteady gait. We’re almost there, we have to come in here. A kind of trap, or at least what’s left of a trapdoor. A hole in the ground, a well turned out, a passage into a hallway from the roof down, with dirty walls and four inches of water covering the floor. We have to go there? Unfortunately there is no other way. Now slowly, we must move forward one at a time. Writer, you will go first. It is very dark. The idea of going first is not my thing. He starts to walk away, without ever turning back. There is a door. Wait for us at the entrance, do not go ahead, it’s dangerous. The stalker now guides us with less conviction, is hesitant, unsure. We reach the door, but the writer is not waiting for us. The door opens into a small room, completely flooded. After a few meters a scale emerges from the water, leading to another door. We have to move from here. The professor moves, the water up to his neck, holding the bag upon his head. Then me and the stalker. The water is cold, I feel the warmth leave my body while I immerse myself. I continue to move forward, the water bathes my chest, forcing me to lift my chin, I will not wet my face. It stinks, filthy, dark, I cannot see the bottom. Now I’m surrounded, I move up. I’m afraid of what will happen to me. The water. The water does not support my weight. I feel the cold become more acute, my eye blinks. Why? I want to scream for help to the teacher, I look at him going out of the water slowly, bracing himself on his arms and legs. That image does not comfort me, it scares me. I will stay here, alone, drown in this slurry, to slump in the dirt, and no one will look. I want to get out of here, I have to do it quickly, soon I will not be able to do so. I close my eyes, I look for the strength and courage to move, to get out of the pool. I want to live, I have to get to the room, I have to get to the stairs, I have to take another breath. I feel my heart beating in my ears, beat after beat, then nothing. I’m dying. The water makes its way between my lips, it slips into the throat, lungs, cold, disgusting, heavy, black. Why am I here? What do I want now? Yes I want to live, live again. Experience is the only way I can understand, to discover, take, steal what I need. I do not want to suffer again, I need to see for myself what I can do. The professor turns and looks at me. Come on, watch out for the steps. He holds out his hand, I climb the stairs, breathing, walking. I see the sand first, the room is invaded. The writer is sitting in the shade at the end of that hall. You had to wait for us! Come back! The stalker screams behind me, but the writer does not seem to hear him. His head down, he whispers. What kind of writer am I if I even hate writing. For me it is a pain, fatigue, painful chore, shameful. I used to think that someone would become better because of my books. I will die and after two days I will be forgotten and they begin to devour someone else. I want to change them, but in the end they are changing me. I have changed in their own image and likeness. The future has merged with the present. They are ready for this? They do not want to know anything, they devour everything and nothing. We walked on in a small hallway. The stalker breaks the silence. You are beautiful men, you have passed a terrible nightmare, this tunnel is an awful place, the most frightening of the Zone. […]

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Matteo Jacopo Zaterini was born in Maglie in the province of Lecce 29 years ago. After a first failed approach to an improbable degree course in Rome, he decided to sign up and complete his studies in Science and Psychological Techniques at the University of Salento. Passionate about cinema, Russian literature and videogames, currently he is working for the “Oistros Edizioni” where he had the opportunity to collaborate with Sergio Spina as a production assistant in the last works of the director.

Dialogo con Remo Ceserani

In Uncategorized on 8 March 2015 at 6:40 PM

di Silvia Potì

Critico letterario, studioso di letteratura comparata. Laureato all’Università Statale di Milano con Mario Fubini ha poi fatto la scuola di dottorato della Yale University quale allievo di René Wellek. Ha insegnato in diverse università italiane e straniere, tra cui la University of California, Berkeley, la Brown University, la Harvard University, la University of Melbourne, l’universita’ di Essen, l’universita’ di Tuebingen, l’universita’ di Aarhus (Danimarca), l’ETH di Zurigo, la Stanford University e l’Universita di San Paolo (Brasile).

1 . Come è rappresentato il conflitto tra tradizione e innovazione, tra norme e valori sociali, nella letteratura postmoderna?

Ormai siamo in tanti a preferire il termine di modernità liquida, suggerito da Zygmund Bauman per designare l’età in cui viviamo, in contrapposizione a quello di modernità solida, per l’età che ci ha preceduto. Proprio il concetto di società liquida suggerirebbe di andare ben oltre il vezzo stilistico, attribuito dai primi teorici al postmodernismo, della semplice mescolanza di tradizioni, stili, valori. I fenomeni sociali e culturali che stanno sotto i nostri occhi parlano di relativismo di valori, pluralità globale di culture, intreccio continuo di esperienze, una mobilità sociale imperante che induce le popolazioni, soprattutto giovanili, ad abbandonare i loro paesi di origine e inserirsi in altre situazioni culturali e sociali. Eppure, e qui sta una contraddizione clamorosa delle nostre attese e rappresentazioni, sono frequentissimi, anche nelle opere letterarie contemporanee, i casi di attaccamento alle proprie radici culturali, di scoperta o riscoperta delle tradizioni religiose, di difesa anche violenta delle identità. Fenomeni come le conversioni o ri-conversioni religiose, le rivendicazioni identitarie non riguardano solo casi estremi, quasi tribali, come quello dell’attrazione di tanti giovani verso il califfato sunnita di al-Baghdādī, ma si ritrovano in tante altre parti del mondo: il fondamentalismo religioso degli Stati Uniti, il rispetto della tradizione delle caste in India, il nazionalismo magiaro di Orbán in Ungheria, lo scontro fra ucraini e russofili nelle terre tormentate delle oblast’ orientali, il sempre più acceso confronto tra estremismo ebraico e estremismo arabo nei territori abitati da Israeliani e Palestinesi e in tante altre parti del mondo.

2. Che rapporto intercorre tra il procedimento letterario dello straniamento, teorizzato da Šklovskij, e la categoria della distanza?

Il termine russo ostrenanje, teorizzato da Šklovskij e quello tedesco Verfremdung, teorizzato da Brecht e Piscator, che hanno forse avuto in comune una derivazione dall’idea di Differenzqualität elaborata dallo studioso tedesco Broder Christiansen nella sua Philosophie der Kunst (1909), si riferiscono a un elemento artistico (narrativo per Šklovskij, teatrale per Brecht e Piscator) che rinvia a un elemento conoscitivo, caratterizzato da un forte distacco critico, reso possibile per chi guarda le cose dal di fuori, come fosse straniero. Šklovskij attribuiva al concetto un valore artistico (il render strano equivaleva per lui a render nuovo, a rendere artisticamente efficace), Brecht e Piscator attribuivano al concetto un valore politico e ideologico (mentre il pubblico tradizionale a teatro tende a dimenticare le sue proprie esperienze ed emozioni e pensieri per identificarsi totalmente con la situazione sulla scena, Brecht e Piscator insistevano sulla necessità di ricordare agli spettatori che il teatro è artificio e finzione, volevano che quella del teatro fosse un’esperienza conoscitiva e non soltanto partecipativa ed emotiva).

Šklovskij desiderava che ogni grande scrittore sapesse rappresentare le sue storie e i suoi personaggi come «nuovi», «strani», cioè non convenzionali. Nataša, per esempio, la protagonista di Guerra e Pace ci viene presentata, nella prima parte del romanzo, come una giovane piena di vita e di grazia, ma ingenua e inesperta del mondo. La sua attrattiva straordinaria per noi lettori è la sua freschezza, il modo come affronta il mondo e lo guarda con occhi assolutamente incontaminati. Queste caratteristiche sono ottenute ricorrendo proprio all’effetto (Šklovskij lo chiama priöm: artificio) dello straniamento. Essa, per esempio, va a una serata all’opera: è ospite di un palco, circondata dai familiari e da una intensa attività sociale (scambi di visite, saluti da un palco all’altro, ricevimenti nei foyer); sul palcoscenico viene rappresentato un melodramma, con le scene dipinte, i cantanti in costume che compiono gesti e intonano arie. Sia le attività sociali sia la rappresentazione teatrale obbediscono a codici convenzionali, che una fanciulla come Nataša non conosce e nemmeno vuole conoscere e accettare. Dell’opera che si sta svolgendo sul palcoscenico viene data, nella descrizione di Tolstoj, che assume il punto di vista di Nataša, una descrizione straniata: agli occhi di Nataša quelle persone vestite in modo strano, che improvvisamente interrompono l’azione scenica e aprono la bocca per cantare, si comportano in modo incomprensibile: sembrano disperati o entusiastici, dovrebbero passare rapidamente all’azione e invece si fermano, fanno due passi in avanti e si mettono a urlare. Nataša è destinata, naturalmente, ad accettare molte delle convenzioni della società in cui è nata e in cui dovrà prendere un suo posto, e però porta con sé, come dato di carattere, quella freschezza, quel rifiuto delle ipocrisie e delle falsità che è stato messo in luce durante l’episodio della serata all’opera.

  1. Come si è sviluppata in letteratura la rappresentazione del conflitto interiore nella condizione di chi da indigeno diventa esule e straniero in terra d’altri? In quali romanzi è possibile rintracciare una doppia focalizzazione e un gioco dialettico di punti di vista?

Posso citare (fra i testi di cui mi sono occupato nel libro Lo straniero, Bari-Roma, Laterza, 1998) una bella novella di Pirandello, che ha il tema della lontananza già nel titolo: Lontano. Essa si svolge a Porto Empedocle, in Sicilia, e racconta lo sbarco e l’immissione nella comunità locale di un marinaio norvegese che non riesce né a capire né ad adattarsi ai costumi del luogo, rimane inevitabilmente uno «straniero», considerato strano e ridicolo dalla moglie siciliana, dai compaesani, dai bambini per le strade, e però diviene, proprio perché vede le cose dal di fuori, il critico più lucido della cultura tradizionalista e stereotipata degli abitanti di Porto Empedocle.

Potrei citare un’opera classica come la Tempesta (1611-12) di Shakespeare. Prospero, il padrone dell’isola su cui si svolge la vicenda e a cui approdano, in seguito a un naufragio non casuale, Miranda, Ferdinando e gli altri personaggi, si è impadronito del luogo con la forza, strappandolo a Calibano, che l’aveva avuta da Sicorace sua madre. Il suo non sembra essere, secondo la concezione del tempo, un atto di prepotenza, da condannare per ragioni morali. Prospero appartiene all’ordine degli esseri superiori e sembra che sia un suo diritto imprigionare il “diverso” Calibano, dominare le forze della natura con l’aiuto dello spirito Ariele, e manipolare, a fin di bene, le vicende degli altri personaggi e i loro destini anche politici. Non è possibile dare una lettura troppo ideologicamente aggiornata di Prospero e interpretarlo come il modello del colonizzatore e fondatore di imperi. E però − ecco di nuovo la complessità, l’ambiguità e il valore conoscitivo in profondo della letteratura −, la figura di Calibano, anche se a sua volta non riportabile a una visione stereotipa dei popoli colonizzati, risulta nel dramma tutt’altro che l’incarnazione del diverso mostruoso e dello spirito del male. Figlio di una strega, oppositore ribelle della civiltà, egli ci appare malvagio e ingenuo, colpevole e innocente allo stesso tempo, sotto molti rispetti una vittima, con tratti di sofferenza umana e qualità poetiche insospettate.

Ma forse il romanzo che risponde meglio alla richiesta contenuta nella sua domanda è Venerdì o il limbo del Pacifico (1967) di Michel Tournier. Rifacendo il classico romanzo di Defoe Robinson Crusoe, Tournier ha messo dialetticamente a confronto la cultura occidentale, imperialista, colonialista, addomesticatrice della natura di Robinson con quella ingenua, spontanea, naturale, gioiosa di Venerdì. Il confronto, che all’inizio si presenta come un tipico esempio di colonizzazione del diverso, si scioglie con un improvviso rovesciamento di valori, per cui alla fine Robinson viene conquistato dalla cultura di Venerdì, rimane a vivere in modo naturale sull’isola, mentre Venerdì parte alla volta dell’Inghilterra sul vascello che finalmente è venuto a recuperarli.